L’autonomia differenziata e la pressione sulla libertà d’insegnamento
Per allevare, sostenere la vasta operazione politico-culturale della “autonomia differenziata” serve tenere le redini dei percorsi di istruzione, di formazione delle nuove generazioni, operare sulla scuola tutta e sui suoi intellettuali organici, gli insegnanti. L’enfatizzazione dell’autonomia scolastica, voluta da un governo di sinistra a propensione efficientista di taglio europeo (Legge 59/1997 art. 21 e Regolamento Dpr 275/1999), fa buon gioco al processo delle autonomie locali e alla presa sulla materia istruzione, nell’ambigua lettura degli articoli 116 comma 3 e 117 lettera n) della Costituzione.
Come è stato sottolineato in tanti contributi critici, gli istituti scolastici godono di un’autonomia compromessa dal tratto giuridico discendente (dunque ancorata a disposizioni di ordine superiore) e da un’offerta formativa sempre più legata alle esigenze espresse sui territori dal mondo imprenditoriale. Ogni singolo istituto scolastico è a sua volta un’azienda, un piccolo sistema teso a fornire un “prodotto in uscita” conforme alle esigenze del mercato del lavoro, nell’oblio della sua funzione disinteressata alla formazione del cittadino come soggetto critico. Dunque, l’autonomia coniugata con competitività e competizione sembra ormai il tratto destinale della scuola. Vigente il contratto Collettivo nazionale di lavoro che regola il rapporto fra docenti e ministero dell’Istruzione, non risulterà difficile alle Regioni autonome incunearsi sui punti nevralgici, sui nervi scoperti di tale rapporto.
Il reclutamento attuale è retto sul paradosso fra le quote fissate per ogni classe di concorso a livello centrale e i contingenti regionali, vena aperta relativamente ai bandi concorsuali e alla gestione del precariato che obbligano spesso gli insegnanti a spostamenti di Regione in Regione per poter conseguire una cattedra. La differenza salariale, nella disattenzione e nell’acquiescenza anche del sindacato, è già da anni un fatto sancito dalle varie forme di compenso pattuito a livello di contrattazione nazionale e decentrata per lo svolgimento di incarichi e per l’assunzione di compiti di staff, di coordinamento, mentre la sirena del merito continua ad accompagnare l’agenda ministeriale.
Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara riscoprendo e tematizzando la differenza tra insegnanti buoni, impegnati e fannulloni, non fa che riprendere maldestramente il risultato di eccellenza previsto (e poi conservato nel doppio fondo culturale di destra e sinistra) dalla legge 1/2007 art. 2, approvata dal Governo Prodi. La sottosegretaria all’istruzione Valentina Aprea (eletta nelle fila di Forza Italia e in carica durante il governo Berlusoni II, tra il 2001 e il 2006) in un disegno di legge sul nuovo ordinamento scolastico e sullo stato giuridico della docenza (decreto legge 953/2008), se ne fece promotrice ed è tornata a parlarne oggi in un clima assai più congeniale, sostenuto proprio dall’autonomia differenzia con i salari regionali e dalla nostalgia per le gabbie salariali. Come ricordava giorni fa il quotidiano Avvenire non è un mistero che l’associazione delle scuole cattoliche e paritarie Fidae lodi l’avvio del percorso autonomistico come possibilità di saldare, grazie proprio alle forme pattizie, ogni differenza fra servizio educativo pubblico e privato rispetto a reclutamento, ai salari, ai finanziamenti, all’elargizione di bonus scolastici alle famiglie.
Se l’insegnante, dalla scuola primaria in poi, deve essere organico al mandato autonomista della scuola e del territorio in cui essa opera, la sua formazione si fa tema delicato: riguarda sia l’accesso, dunque il percorso universitario e la struttura dei bandi di concorso, sia i percorsi di aggiornamento in costanza di carriera di cui un esempio lo offrono da anni le Regioni a statuto speciale del Nord. La pressione sulla libertà d’insegnamento costituzionalmente protetta si può meglio esercitare se le scuole rientrano nella competenza della Regione.
Lo si vede già, sempre capofila il Nord-Est, nella proposta assai vincolante della programmazione per Unità didattiche di apprendimento (Uda) vigente negli istituti tecnici e professionali, i più compromessi con l’attività pattizia con le aziende presenti nei territori. Un’Uda è un percorso stretto che, basato sulle le otto competenze europee (Raccomandazione Ue, 22/05/2018), fissa obiettivi, strategie, verifica e valutazione in rapporto alle qualifiche professionali, sotto il dettato mercantile del mondo del lavoro. Competenza come saper fare, nell’ottica di una distorta realizzazione personale -prestazionale- di cui sono parte integrante la messa a frutto delle capacità emotivo-relazionali, le soft e le character skill, tratti non cognitivi ritenuti funzionali all’innalzamento della produttività lavorativa del capitale umano, la cui deriva viene segnalata anche dal campo moderato (un commento al disegno di legge in proposito approvato, 11/01/2022, lo si può leggere nel portale).
Le competenze, certificate dall’istituto Invalsi, perito unico del sistema nazionale di valutazione dalla primaria alle superiori, sono presupposto ed esito delle prove a test per le discipline considerate apicali, e l’ossatura della programmazione didattica. La necessità del raggiungimento degli obiettivi di competenza mentre retroagisce sulle strategie d’insegnamento, spinge i docenti, le famiglie a considerare inevitabile che tutti gli attori rispondano ai dettami del mercato. Non stupisce che persino nei libri di testo in uso nella scuola primaria compaiano proposte simili, ad esempio sulla competenza imprenditoriale o su quella digitale con l’attualissima apertura verso la conoscenza precoce del mercato finanziario (non certo per imparare a difendersene). Così come appare perfettamente coerente con la stretta utilitaristica sulla scuola l’introduzione in tutti gli ordini di scuola dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento (Pcto), forme di alternanza fra scuola e lavoro che molta gola fanno al mondo imprenditoriale soprattutto nel laborioso Nord del Paese.
C’è da sospettare che la definizione dei Livelli essenziali di prestazione (Lep) nazionali, così difficile per la materia istruzione fra spesa storica e lettura dei fabbisogni locali (che come per la sanità fa i conti con la feroce riduzione dei finanziamenti degli ultimi trent’anni), si nutrirà di Uda e Pcto, con il relativo tentativo di definizione prestazionale degli attori coinvolti e dello standard minimo per le strutture di funzionamento (quote di personale docente, amministrativo, dimensione degli istituti, edifici, fondi per il diritto allo studio, e simili)
Il testo di legge approvato il 3 febbraio scorso è già gravato, per ogni materia di intesa, dalle ombre che ho sommariamente delineato per la sola istruzione. Si prevede un percorso lungo, ma l’attacco perpetrato alla Costituzione con la modifica del Titolo V (Legge Costituzionale n 3/2001) in combinato con il ridimensionamento numerico e funzionale del Parlamento ridotto al fantasma di sé stesso, una pessima legge elettorale, lo ha già oscuramente segnato. Intervenendo in un recente convegno a Roma, il giurista Gaetano Azzariti dava conto di tali segni. Malgrado molte sentenze della Corte Costituzionale abbiano ribadito che gli articoli della Carta vanno letti in combinato disposto, sia fra loro (il 116 e il 117 con le riserve esclusive per lo Stato), sia con i Principi sanciti nei primi dodici articoli, la legge Calderoli ne fa uno spezzatino. Si stabilizza il metodo di approvazione delle norme attraverso la forma decretizia passata da emergenziale a ordinaria e si frantuma il sistema fiscale nazionale massacrando ogni forma di solidarietà sociale. I bisogni, i desideri che rendono la vita vivibile, vengono tradotti nei burocratici fabbisogni minimi. Ma l’acqua, la scuola, gli ospedali sono l’infrastruttura della buona vita, la stessa possibilità di garantire la riproduzione sociale, all’incrocio fra le strutture che consentono l’accesso ai diritti e questi come avamposti culturali, politici.
Mentre scrivo, studenti, cittadini, sindaci del Sud si mobilitano e si diffondono i Comitati di lotta contro l’autonomia differenziata. I dati dell’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno (Svimez) parlano chiaro: nei piccoli centri del Meridione manca tutto dalla scuola alle mense, dagli spazi sportivi e ricreativi ai nidi, dalle scuole d’infanzia al tempo pieno in quelle elementari e medie. Nei primi dieci anni di vita un bambino del Nord ha avuto modo di frequentare una scuola per circa 1.300 ore, uno del Sud ne ha in media 200 in meno. I territori più fragili del Paese diventeranno inabitabili, si chiuderà ogni ipotesi di dare corso alla pari dignità dei cittadini, al loro pieno sviluppo come persone nella garanzia offerta dal tessuto di una Repubblica unica e indivisibile.
Renata Puleo vive a Roma. Nel 1971 ha iniziato a insegnare nella scuola elementare, oggi primaria, a Torino, nel quartiere Mirafiori. Direttrice didattica nel 1981, su disposto del decreto legislativo 59 del 1998, ha svolto funzioni di dirigenza scolastica fino al 2011, a Roma. Ha scritto e scrive su tematiche educative e di politica scolastica. Tra i suoi testi recenti, “Valutare senza INVALSI si può. Muri a secco e colate di cemento”, Anicia Ed Roma, 2019, (con) Caterina Angelotti “Dita per leggere. Tatto, vista, udito: il corpo nell’apprendimento della letto-scrittura”, Anicia Ed Roma, 2021, (con) Anna Angelucci “Cos’è un libro? Sull’oblio della lettura nell’era digitale”, Giovanni Fioriti Ed Roma, 2021.
15/2/2023 https://altreconomia.it
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!