L’autonomia differenziata e la Prussia in Italia temuta da Piersanti Mattarella
Il Governo Draghi riprende il progetto di autonomia differenziata che era stato avviato dal Governo Gentiloni tramite tre accordi, uno con il presidente lombardo Fontana, uno con il presidente emiliano Bonaccini e un altro con il presidente veneto Zaia: l’obiettivo di tali accordi è trattenere i tributi dei veneti in Veneto, dei lombardi in Lombardia, degli emiliani in Emilia Romagna.
Il governo ha collegato alla Nadef un DDL per l’attuazione della autonomia differenziata e ha inserito nella Legge di Bilancio 2022 ben 4 articoli (43, 44, 45, 179) che fanno riferimento ai Livelli Essenziali di Prestazione (LEP). Tali articoli fanno credere che lo Stato abbia identificato gli obiettivi dei vari servizi ed abbia già determinato i costi medi dei LEP, creando così l’illusione che si possano ripartire le risorse secondo il principio di solidarietà previsto dall’articolo 2 della Costituzione.
Oggi la spesa pro capite annuale dell’intero settore pubblico allargato è assolutamente diseguale: 13613 Euro per un cittadino del Sud, 17621 Euro per un cittadino del Centronord. Tale divario si aggraverà con l’autonomia differenziata perché Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna tratteranno la maggior parte dei tributi riscossi sui loro territori.
L’autonomia differenziata quindi infrange l’unità nazionale voluta dalla Costituzione del 1947 e attua quella secessione dei ricchi avviata nel 2001 dalla riforma del titolo quinto della Costituzione. Quando nacque questo progetto? Nel 1975, quando Guido Fanti, allora presidente comunista dell’Emilia Romagna, propose una lega (patto federativo) tra le regioni padane Lombardia, Piemonte, Liguria, Veneto ed Emilia per costituire una unità organica di nome Padania.
Lo ha ricordato il Professor Alessandro Mangia della Cattolica di Milano in un convegno della FLC CGIL Enna. Piersanti Mattarella, allora assessore al bilancio della regione Sicilia, fu l’unico a dare l’allarme in un articolo sul Giornale di Sicilia dell′11 novembre 1975 dal titolo “Padania: una Prussia in Italia?”. Secondo Piersanti Mattarella tale idea di un “blocco di forza superiore a quella rimanente nel paese” era una “proposta neocapitalista di aggregazione di forti, non certo a vantaggio di chi rimane escluso”. All’allora presidente ligure Carossino, secondo cui “nessuno voleva far pagare al Mezzogiorno nuovi prezzi”, Piersanti Mattarella chiedeva: “Come, costituendo l’alleanza dei forti che fatalmente accentua le differenze, emargina ulteriormente le zone depresse, aumenta le distanze?”. Mattarella chiese agli allora presidenti di Emilia Romagna, Lombardia e Liguria di dire con coraggio che le regioni, come i sindacati, “intendono anteporre ad ogni reale fatto di riequilibrio territoriale e sociale la difesa dello sviluppo dell’apparato esistente e dei ceti relativi”.
Oggi constatiamo l’esito di quel processo grazie alla Svimez, che ha elaborato la seguente tabella sui dati dei Conti Pubblici Territoriali (CPT) dove abbiamo i flussi finanziari (pagamenti definitivi e riscossioni effettivamente realizzate) del Settore Pubblico Allargato (SPA): esso comprende, oltre alla Pubblica Amministrazione (PA), i flussi finanziari di soggetti, nazionali e locali sui quali è presente un controllo (diretto e indiretto) da parte di Enti Pubblici.
Al netto degli interessi, in termini di spesa pubblica annua pro-capite del Settore Pubblico Allargato, secondo gli ultimi dati disponibili del 2018, mediamente un cittadino italiano riceve 16252 Euro. Un cittadino del Centro-Nord riceve 17.621 Euro e un cittadino meridionale riceve 13.613 Euro: la differenza è 4008 Euro. Che significa? Che se i diritti di cittadinanza dei meridionali valessero quanto i diritti di cittadinanza dei settentrionali, lo Stato, nelle sue varie articolazioni, spenderebbe nel Mezzogiorno quasi 83 miliardi in più ogni anno per i suoi 20,697 milioni di abitanti (20.697.000 * 4008 Euro= 82.953.576.000 Euro).
Per capire le conseguenze estreme di questa disparità sui diritti di cittadinanza sono utili i report Istat sugli asili nido degli anni passati che riportano i dati disaggregati per regioni e comuni. Nel Report del 2016 “Asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia: il censimento delle unità di offerta e la spesa dei comuni” si rileva la differente spesa per bambino (con meno di tre anni) residente negli asili nido comunali o finanziati dai comuni capoluoghi di Provincia: nel 2013, nel Comune di Trento si spendono 3.560 euro per ciascun bambino residente, a Bologna 3.408 e a Roma 2.948. La spesa si abbassa molto nei Comuni del |Mezzogiorno arrivando a Reggio Calabria a 31 euro per bambino, a Vibo Valentia 57 euro, a Catanzaro 67 euro, a Sanluri 68 euro.
La tabella è in ordine decrescente. A sinistra, sopra i 2000 Euro a bambino, Venezia, Modena, Pisa, Pavia, Como. A destra, con l’eccezione di Treviso e Rovigo, sotto i 500 Euro, Agrigento, Brindisi, Foggia, Caserta, Latina. Un bambino bolognese vale più di cento bambini reggini.
Guardando alla spesa per macroaree riportata nella tabella successiva si evidenzia il divario Nord-Sud: nel 2013 i Comuni avevano da spendere mediamente a livello nazionale, in rapporto ai bambini residenti sotto i tre anni, 780 euro (contro gli 800 dell’anno precedente) pro capite. Tuttavia la dotazione è molto differenziata a livello territoriale: per un bambino residente al Sud 206 euro, nelle isole 443 Euro, al Nord-ovest 817 Euro, al Nord-est 1.056 Euro e al Centro 1.328 Euro. Un bambino meridionale, vale la metà di un bambino insulare, un quarto di un bambino del Nord Ovest, un quinto di un bambino del Nord Est, meno di un sesto di un bambino del centro.
Come evidenziato nel Report del dicembre 2019 dal titolo “Offerta di asilo nido e servizi integrativi per la prima infanzia” la situazione non è cambiata anni dopo. Nel 2017 la spesa dei comuni singoli e associati per i servizi socioeducativi, ripartita su base regionale, per bambino residente con meno di tre anni è la seguente: Provincia autonoma di Trento 2235 Euro, Val D’Aosta 1929 Euro, Emilia Romagna 1724 Euro, Lazio 1654 Euro, Toscana 1485 Euro, Liguria 1219 Euro, provincia autonoma di Bolzano 1179 Euro, Friuli Venezia Giulia 1076 Euro, Umbria 1004 Euro, Lombardia 844 Euro, Piemonte 759 Euro, Marche 697 Euro, Sardegna 578 Euro, Veneto 551 Euro, Abruzzo 428 Euro, Sicilia 364 Euro, Molise 324 Euro, Basilicata 317 Euro, Puglia 284 Euro, Campania 219 Euro, Calabria 116 Euro. Un bambino calabrese vale un ventesimo di un bambino trentino, un bambino campano un sedicesimo di un bambino emiliano. Per lo Stato, nel riparto della spesa dei comuni sugli asili nido, un bambino laziale vale 15 bambini calabresi.
Come si è arrivati a tale squilibrio? Grazie al riparto del finanziamento del governo Centrale a Regioni e Comuni sulla base del principio della spesa storica: chi ha avuto dal secondo dopoguerra ingenti strutture e servizi, ha avuto riconosciuto un alto fabbisogno standard, chi storicamente ha avuto scarse strutture e servizi, ha avuto riconosciuto dallo Stato un basso fabbisogno standard.
Ma cosa accadrebbe se passasse l’autonomia differenziata? Il suddetto divario si allargherebbe. Osserviamo la tabella successiva i cui dati sono estratti dal saggio di Adriano Giannola e Gaetano Stornaiuolo dal titolo Un’analisi delle proposte avanzate sul “federalismo differenziato” pubblicato sul numero 1-2 del 2018 della Rivista economica del Mezzogiorno: su 751 miliardi di bilancio annuale dello Stato, verrebbero a mancare 190 miliardi, qualora passasse la proposta estrema del governatore veneto Zaia di trattenere il 90% delle tasse e dei tributi delle regioni a Statuto Ordinario nei loro rispettivi territori: quei 190 miliardi uscirebbero dal bilancio dello Stato nazionale ed entrerebbero nel bilancio di Veneto (41 miliardi), Lombardia (106 miliardi) ed Emilia Romagna (43 miliardi).
Concretamente cosa significa? Che il suddetto divario di 4008 Euro tra la spesa pubblica pro-capite annua del Centro-Nord e quella del Sud si aggraverebbe ulteriormente. Implicherebbe l’arretramento della presenza dello Stato al Sud. Meno Ospedali, meno scuole, meno infrastrutture, meno asili, meno musei e università.
Di questo rivolgimento sociale determinato dall’Autonomia differenziata che aggraverebbe enormemente il divario Nord Sud, il Parlamento avrebbe dovuto discutere in un dibattito chiaro in aula. Al contrario, il governo, silenziosamente, ha posto in Legge di Bilancio gli articoli 43, 44, 45 e 179 che potrebbero costituire il presupposto logico giuridico per dare avvio, sotto traccia e senza alcuna discussione nella opinione pubblica e nemmeno parlamentare, all’Autonomia Differenziata.
Nel contempo il 5 dicembre la Presidenza della Commissione Quinta del Senato ha avvisato che avrebbe “contingentato gli emendamenti”, con la pretesa che ciascun Senatore ne potesse indicare uno, massimo due, da porre in discussione. Bisogna innanzitutto chiedersi se questa sia una prassi legittima, o se svilisca illegittimamente il ruolo parlamentare: alla Camera per evitare le pratiche ostruzionistiche degli emendamenti “a scalare” esiste una disposizione regolamentare che consente al presidente di mettere in votazione un numero ridotto di emendamenti, quando la differenza tra loro sia esclusivamente quantitativa.
Nemmeno il regolamento della Camera dunque consente di limitare il diritto/dovere del singolo parlamentare di proporre varie e diverse modificazioni della norma, che non siano mero ostruzionismo. Sic rebus stantibus, nell’indifferenza delle aule parlamentari, nell’assenza di un dibattito pubblico, la Prussia temuta da Piersanti Mattarella arriva in Italia: allora si chiamava Padania ed era proposta dal comunista emiliano Guido Fanti, oggi si chiama autonomia differenziata e la propongono tutti, alle spalle degli italiani.
Andrea Del Monaco, Gregorio De Falco
16/12/2021 https://www.huffingtonpost.it/
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