Lavorare meno, lavorare tutti!

Negli ultimi decenni il mercato del lavoro italiano è stato al centro di numerosi interventi legislativi, che con tonalità diverse hanno individuato nell’eccesso di rigidità della regolamentazione dei rapporti di lavoro e del sistema di relazioni industriali il freno alla competitività dell’economia nazionale. Le riforme promosse negli ultimi 20 anni hanno condiviso l’esigenza di intervenire sul costo del lavoro, ritenuto eccessivo e causa dei bassi tassi di occupazione e della crescita della disoccupazione strutturale. Tuttavia, la scelta di perseguire politiche di moderazione salariale, attraverso interventi di riduzione del cuneo fiscale e di ampliamento dei margini di flessibilità per le imprese, ha avuto un impatto minimo sulla ripresa dell’occupazione e sulla riduzione della disoccupazione. Non fa eccezione a questa tendenza di lungo periodo la riforma promossa dal governo Renzi, nota come Jobs Act. Il contenimento del costo del lavoro, lungi dal favorire la dinamica della produttività e la competitività dell’economia nazionale, ha agito nella direzione di ridurre ulteriormente lo stimolo agli investimenti privati, accentuando il ricorso a forme di lavoro precario e a bassa qualificazione. L’esplosione dei voucher o “buoni lavoro” si inserisce in questo solco che ha visto i governi di centrodestra e centro-sinistra convergere su una politica di moderazione salariale, favorendo processi di sostituzione di lavoro stabile con forme di impiego precarie e prive di tutele.

In questo quadro, un’alternativa alle politiche degli ultimi decenni richiede in primis un rovesciamento di prospettiva, a partire dalla necessità di individuare interventi di stimolo all’occupazione e di contrasto alla precarietà, rimettendo al centro le esigenze dei lavoratori e delle lavoratrici rispetto a quelle delle imprese. Una considerazione che deve tenere conto delle trasformazioni del lavoro e delle implicazioni che queste assumono sulla formazione delle identità individuali e collettive, a partire dalla tensione tra tempi di lavoro e tempi di vita.

Segmentazione e automazione
La riduzione dell’orario di lavoro è stata al centro delle rivendicazioni del movimento operaio europeo dalla seconda rivoluzione industriale sino alla fase di espansione dell’economia continentale culminata con il compromesso sociale del trentennio glorioso. In Italia, il ciclo di lotte degli anni 60 e l’intensità del conflitto operaio nel biennio ‘69/70 stabilirono il passaggio dell’orario settimanale dalle 48 ore alle 40 ore attuali. Da quel momento il dibattito politico sindacale sulla redistribuzione del tempo di lavoro non ha riscontrato particolare interesse e l’attenzione pubblica sul tema è rimasta confinata quasi esclusivamente negli ambienti accademici, se si esclude la proposta delle 35 ore presentata dal partito della Rifondazione Comunista nel 1997. Non accadeva la stessa cosa in Europa, dove il dibattito sulla riduzione dell’orario di lavoro diveniva punto dirimente della strategia sindacale nella fase di ristrutturazione dell’economia europea all’indomani delle crisi petrolifere degli anni 70. In Francia e Germania, in particolare, la redistribuzione dell’orario di lavoro acquistava un ruolo determinante nel contenere gli effetti della recessione sull’occupazione industriale. Tuttavia, la richiesta di ridurre l’orario di lavoro non assumeva esclusivamente una dimensione difensiva, ma rientrava in una visione critica sulla fase di sviluppo del capitalismo contemporaneo, in cui cominciavano ad emergere fattori di crisi strutturale.

L’aumento della disoccupazione e la riduzione della domanda di forza lavoro delle imprese non erano più legati ad una crisi ciclica nel processo di accumulazione del capitale, che poteva essere risolta con misure espansive, ma si inseriva in un nuovo assetto dell’economia mondiale. In questa trasformazione si inserisce l’espansione degli investimenti produttivi nel settore terziario e l’impulso alla regolarizzazione dell’economia informale, attraverso una nuova politica di controllo dei flussi migratori. Si delineava la consapevolezza che il binomio tra crescita quantitativa della produzione e meccanismi di redistribuzione sociale era in procinto di crollare davanti alle fasi di ristrutturazione del capitale internazionale. La liberalizzazione del mercato finanziario consentiva alle imprese di aumentare i margini di profitto, mentre l’investimento nel campo della robotica e dell’automazione tecnologica comportava l’espulsione di quote sempre più ampie di forza lavoro dai settori a maggior valore aggiunto verso settori a bassa produttività marginale. Nello sviluppo di questa tensione si rintracciano gli elementi attuali di funzionamento del mercato del lavoro. La dialettica tra processi di automazione, con trasformazioni nella composizione della domanda di lavoro da parte delle imprese (ad alta intensità di sfruttamento) e segmentazione del mercato del lavoro, accompagnati da intensificazione dei ritmi e degli orari di lavoro, è all’origine dell’aumento della disoccupazione e la riduzione delle tutele contrattuali di quote sempre più ampie di forza lavoro. Nel vivo del processo di lavoro emerge un conflitto tra la robotizzazione di alcuni fasi della produzione e l’aumento della durata oraria del lavoro umano.

L’investimento in tecnologie dell’automazione consente infatti alle imprese di utilizzare fattori di flessibilità nel processo produttivo, riducendo l’influenza dei lavoratori nella determinazione dell’organizzazione del lavoro e aumentando la loro dipendenza dal processo di lavoro. Decentramento produttivo, intermediazione fraudolenta di manodopera, diffusione di un sistema di cooperative spurie scandiscono il nuovo ciclo della produzione. Il paradigma del just in time si afferma nell’intera filiera produttiva, dove l’automazione di alcune fasi produttive, funzionali alla necessità di velocizzare il movimento delle merci, richiede allo stesso tempo un’intensificazione dei turni di lavoro e un aumento delle ore lavorate. Un esempio della pervasività di questo processo viene dal settore della logistica, che rappresenta il cuore della nuova divisione internazionale del lavoro. Trattandosi di un segmento del processo produttivo strettamente legato all’industria, che collega la produzione della merce al consumo, la logistica vive direttamente la dialettica dell’intensificazione dei ritmi di lavoro e la velocità dello scambio commerciale. Da una parte, i lavoratori costretti a lavorare per 10 o 12 ore al giorno con retribuzione spesso inferiori a quelle previste dai Contratti Nazionali e dall’altra le grandi corporations private che chiudono gli accordi commerciali utilizzando la rete e le piattaforme online. Inoltre, come è stato notato, in questo settore si producono le tensioni che riguardano direttamente il tempo di lavoro e il tempo di vita. Il primato del consumo come spazio destinato al tempo liberato dal lavoro diviene possibile solo intensificando i tempi e la durata del lavoro.

Altri esempi di questo nuovo modello di produzione e organizzazione del lavoro è rappresentato dal settore del delivery legato alla grande distribuzione. Come dimostrano gli ultimi casi venuti alla ribalta dell’opinione pubblica, tra cui quello dei fattorini di Foodora costretti a turni massacranti e retribuiti a cottimo. Nell’era della globalizzazione è la logistica metropolitana, caratterizzata da una componente rilevante di forza lavoro migrante, che diventa terreno di nuove lotte come quelle dei lavoratori delle catene di distribuzione di Pam e Carrefour nel bolognese.

L’estrazione di profitto attraverso la compressione del costo del lavoro diventa, quindi, il meccanismo di regolazione degli scambi commerciali e funzione della competitività dell’impresa. In questo quadro non desta stupore la crescita dei differenziali tra salari e profitti rispetto al reddito nazionale registrati nei paesi Ocse e in particolare in Italia dove diventa il fattore principale dell’aumento delle diseguaglianze di reddito. Un dato connaturato, quindi, al nuovo assetto delle relazioni di lavoro e alla piena disponibilità dell’impresa sulla domanda di lavoro.

Riduzione generalizzata dell’orario o fasce orarie
Le statistiche OCSE sulle ore medie lavorate sul totale degli occupati mostrano che nel nostro paese il numero di ore di lavoro per addetto sono di gran lunga superiori a quelle di Francia e Germania. Un lavoratore italiano lavora in media 1725 ore annue contro le 1371 di un collega tedesco e le 1482 di un collega francese. Un dato in controtendenza rispetto alla vulgata dominante che rintraccia nella scarsa operosità dei lavoratori italiani il limite alla competitività dell’economia nazionale. Confrontando il dato con gli indicatori relativi al tasso di occupazione e a quello di disoccupazione emerge che pur lavorando di più gli occupati nel nostro paese sono inferiori rispetto a quelli delle altre economie avanzate. Un quadro che potrebbe essere invertito se si cominciasse ad analizzare i vantaggi sul piano occupazionale legati all’introduzione di misure di redistribuzione del tempo di lavoro. In tal senso, è possibile vagliare le modalità principali di riduzione dell’orario di lavoro che esprimono letture diverse in riferimento alla struttura produttiva dell’economia nazionale, ai modelli di organizzazione della produzione e alla composizione della forza lavora per singolo settore di attività.

Una prospettiva storica di redistribuzione dell’orario di lavoro è quella tradizionalmente utilizzata in paesi come la Francia, in cui l’orario di lavoro è stato ridotto con un intervento legislativo volto ad accorciare la durata settimanale a 35 ore. In questo caso, la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro è stata accompagnata da un sistema di incentivi pubblici, che da una parte sosteneva le imprese con una riduzione fiscale sul costo del lavoro nel caso di assorbimento di nuovi occupati e dall’altro rendeva meno conveniente il ricorso allo straordinario e a prolungamenti dell’orario di lavoro. L’esperienza francese a cavallo degli anni novanta e duemila si caratterizzava per un forte ruolo dello stato nella definizione dei tempi di lavoro, limitando i margini di flessibilità dell’impresa. Questa modalità di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario presenta indubbi vantaggi per le imprese di medio grandi dimensioni con un’organizzazione del processo lavorativo standardizzato e gerarchicamente integrato. Imponendo vincoli all’impresa nella determinazione della domanda di lavoro , questa misura spinge il settore privato ad investire sull’innovazione dell’apparato produttivo, disincentivando il ricorso alla moderazione salariale. Infatti, la riduzione del costo unitario del lavoro potrebbe essere ridotto solo ricorrendo ai fattori che determinano la produttività del lavoro, che sono appunto gli investimenti in capitale tecnologico e in formazione degli addetti. Inoltre, l’aumento dei costi per l’impresa nel caso di aumento dell’orario di lavoro e la convenienza fiscale nei casi di assorbimento di nuova occupazione producono un effetto sul differenziale tra salari e profitti, ampliando la quota dei redditi da lavoro, a discapito dei profitti, sul totale del prodotto.

In riferimento alla struttura produttiva italiana, una misura di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro avrebbe un impatto rilevante se indirizzata al lavoro pubblico e alle attività della amministrazione dello stato. Agendo in controtendenza rispetto alle politiche restrittive e di contenimento salariale che operano attraverso il blocco del turn over, la riduzione dell’orario consentirebbe di potenziare gli organici della pubblica amministrazione dalla sanità all’istruzione pubblica, evitando il ricorso sempre più frequente a contratti di lavoro temporaneo.

L’ampliamento della domanda pubblica di lavoro avrebbe un beneficio sull’ammontare della domanda aggregata e sui consumi, agendo in positivo sui salari privati, attraverso la riduzione dei costi per i servizi sociali (con la difesa del “salario differito”). Una dinamica analoga riguarda le imprese di medio-grandi dimensioni, in cui la riduzione dell’orario alimenta la dinamica degli investimenti, bloccando la tendenza a ridurre il costo del lavoro. In questa prospettiva, la grande distribuzione e l’industria manifatturiera per via di un’organizzazione della produzione standardizzata e lineare si prestano ad interventi di riduzione generalizzata dell’orario di lavoro. Diversamente un tessuto di piccole e micro imprese orientato ad un’organizzazione del lavoro flessibile e da un modello produttivo reticolare richiede interventi diversi. La dipendenza delle imprese dalla domanda interna e da quella estera, legata alla bassa dotazione di capitale e quindi ad una più ridotta propensione all’investimento tecnologico, richiede un ripensamento delle politiche di redistribuzione dell’orario. In tal senso, sarebbe preferibile insistere su una proposta che presenti maggiori margini di flessibilità. L’introduzione di un contratto unico a tempo indeterminato con l’inserimento di fasce orarie diversificate e una riduzione del salario proporzionale all’orario di lavoro potrebbe essere valutata nell’arco dell’intera carriera lavorativa. Proposta che è stata ripresa nel Workers Act del gruppo di studiosi del sito Sbilanciamoci.org. La tutela salariale e normativa prevista da un contratto a tempo indeterminato obbligherebbe le aziende ad evitare il ricorso a forme di impiego temporanee e precarie, garantendo i lavoratori contro il ricatto dei bassi salari e dell’assenza di protezione sociale. In questo quadro, l’intervento fiscale dello stato dovrebbe andare nella direzione di scoraggiare l’impresa ad allungare l’orario di lavoro, tassando il ricorso allo straordinario e rendendo più favorevoli fasce orarie ridotte. La perdita di salario derivante dalla riduzione dell’orario potrebbe essere compensata con l’introduzione di una misura di integrazione al reddito, finanziata con il ricorso ad una tassazione progressiva e favorita dall’ampliamento del gettito fiscale.

L’età anagrafica, il livello usurante del lavoro e la vulnerabilità sociale dei lavoratori possono essere i criteri adottati per intervenire sulla determinazione delle fasce orarie. Tenuto conto dell’alto tasso di disoccupazione giovanile, l’introduzione di fasce orarie flessibili offrirebbe alle generazioni più giovani una porta di ingresso nel mercato del lavoro, evitando la trafila di lavori precari e privi di tutela. Una misura di flessibilità oraria favorirebbe inoltre percorsi di pre-pensionamento, liberando tempo di vita per le generazioni più adulte. Nell’ottica di una riforma complessiva delle politiche del tempo di lavoro una funzione centrale deve riguardare l’investimento nella formazione permanente dei lavoratori.

La riduzione della disoccupazione e il contrasto al lavoro povero e dequalificato parte dal riconoscimento della funzione emancipatrice della conoscenza. La complessità della struttura produttiva e le trasformazioni che hanno mutato contenuto e forma del lavoro rendono più adeguato un approccio differenziato e flessibile sull’orario di lavoro, con interventi diversificati rispetto alla tipologia di settore produttivo. Infine, occorre ricordare che nel nostro ordinamento sono già previste forme di riduzione dell’orario attraverso lo strumento dei Contratti di solidarietà. Il limite di questo istituto consiste nella scarsa applicabilità in contesti post-industriali e nel suo utilizzo difensivo, ovvero collegato a situazioni di calo della produzione. La conclusione è che non esiste un unico approccio alla riduzione dell’orario, esiste invece l’esigenza di ricostruire il nesso tra lavoro e libertà .

Simone Fana

27/1/2017 www.sbilanciamoci.info

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