Lavoratrici nelle piattaforme digitali
Nonostante il boom del dibattito sulle piattaforme di lavoro digitali, gli studi che incorporano una prospettiva di genere e femminista sono ancora rari in materia. Tuttavia, le donne rappresentano 4 lavoratori su 10 nell’economia delle piattaforme digitali in Europa. L’interrogativo sorge spontaneo: quali sono le principali problematiche legate alle disuguaglianze di genere nelle piattaforme di lavoro digitali? Attraverso l’analisi dei dati raccolti dalla Commissione europea nell’ambito delle indagini COLLEM sui lavoratori e le lavoratrici di piattaforma in 16 stati membri dell’Unione europea nel periodo 2017-2018, è stato possibile riassumere alcuni interessanti risultati empirici sull’accesso femminile al lavoro su piattaforma, sulla segregazione occupazionale e sulla precarietà delle condizioni organizzative e lavorative.
Osservando le statistiche sulla distribuzione geografica, si scopre senza sorpresa che il lavoro femminile tramite piattaforma è prevalente nei paesi dell’Ue con bassi tassi di partecipazione femminile al mercato del lavoro (Italia e Spagna), o dove questa tende a concentrarsi in forme di occupazione non standard e in mansioni a bassa retribuzione (Portogallo). In questi paesi, dunque, il lavoro su piattaforma si presenta non come scelta completamente libera, ma piuttosto come fonte di opportunità lavorative per l’integrazione delle donne come gruppo svantaggiato e privo di opzioni migliori.
L’analisi della distribuzione occupazionale di genere nella platform economy conferma la riproduzione delle ben note disuguaglianze di genere storicamente presenti nel mercato del lavoro offline. Studiando l’intensità del lavoro su piattaforma, si è riscontrato che quella delle donne è più bassa: se i lavoratori sporadici delle piattaforme sono per il 55% uomini e per il 45% donne, il divario di genere aumenta con l’incremento della frequenza delle attività, fino a raggiungere un rapporto del quasi 70%-30% quando il lavoro tramite piattaforma consiste nell’occupazione principale.
Inoltre, esaminando le diverse tipologie di lavoro tramite piattaforma, con particolare attenzione ai freelance, alle micro-task, allo sviluppo di software, al trasporto passeggeri e alle consegne a domicilio, sembra confermarsi una forte segregazione occupazionale. Infatti, le donne tendono a essere più rappresentate in compiti specifici, in particolare nelle attività da freelance (43%, con la percentuale più alta nella traduzione – mansione “femminilizzata” anche nel mercato del lavoro tradizionale) e nelle attività di micro-task (41%), mentre la quota di donne nello sviluppo di software è la più bassa (24%), seguita da trasporto e consegna (32%). Non sorprende che le donne siano ben rappresentate anche nelle mansioni fisiche che includono servizi domestici e di cura della persona (pulizie, servizi di bellezza, baby-sitting e servizi di assistenza agli anziani, tra gli altri).
Va notato poi che nei paesi con maggiore partecipazione delle donne alla platform economy queste svolgono soprattutto attività di micro-task, da freelance e servizi domestici e di cura, mentre nei paesi in cui le donne tendono a non partecipare al mercato del lavoro digitale, queste svolgono soprattutto micro-task. Questo fenomeno è facilmente spiegabile: il lavoro su micro-task non richiede particolari competenze o conoscenze (identificazione del contenuto di un’immagine, di un file audio o di un testo, al fine di affinare il riconoscimento da parte dell’intelligenza artificiale), è flessibile, realizzabile da casa con l’uso del computer e richiede poco tempo (durata media di un task: inferiore a 10 minuti), apparendo dunque facilmente integrabile nei ritmi di vita di chi è ancora principalmente responsabile del lavoro domestico e di cura (gratuito) svolto in famiglia.
Se si analizzano i dati sulla composizione del nucleo familiare dei lavoratori e delle lavoratrici di piattaforme rispetto alla retorica mediatica e politica, che identifica queste persone in maggioranza come giovani e senza responsabilità familiari, il risultato è ambivalente. Le persone che lavorano su piattaforme risultano in effetti mediamente giovani (età media: 34 anni; media femminile leggermente inferiore), ma è meno vero che siano privi di responsabilità familiari.
I dati mostrano che il 31% delle persone che lavorano su piattaforme ha figli, e circa il 60% è costituito da adulti che vivono in coppia. A prescindere dalla giovane età, dunque, molte di loro hanno situazioni familiari strutturate, rispetto alle quali si riproducono le stesse dinamiche di chi lavora nel mercato offline. Infatti, è stato riscontrato che la presenza di figli aumenta la partecipazione alla piattaforma di lavoro degli uomini che vivono in coppia, facendo diminuire quella delle donne, mentre gli adulti che non sono in coppia non sembrano essere influenzati dalla presenza di figli.
È evidente che, nelle coppie con figli, le donne ne rimangono le principali responsabili, il che riduce la loro partecipazione e il tempo trascorso sulle piattaforme di lavoro e, di conseguenza, il loro reddito. Questo risultato contraddice la retorica secondo cui le donne utilizzano le piattaforme come possibilità ottimale di combinare lavoro e responsabilità di cura.
A oggi, il mercato digitale del lavoro non è stato in grado di mantenere le promesse di flessibilità e di crescita della partecipazione femminile al lavoro che avrebbero potuto produrre una maggiore uguaglianza di genere. Le donne non riescono a sfruttare quanto gli uomini i potenziali benefici della platform economy non necessariamente a causa delle piattaforme stesse, ma per la mancanza di politiche che affrontino l’organizzazione diseguale del lavoro produttivo e riproduttivo, sia online che offline. I dati generali sulla densità di ore lavorate a settimana attraverso le piattaforme digitali conferma, infatti, l’annosa disparità già nota nelle occupazioni tradizionali, con la maggioranza degli uomini che lavora a tempo pieno e la maggioranza delle donne che lavora part-time.
Ancora, le donne tendono ad avere condizioni lavorative e retributive peggiori rispetto agli uomini. Un sondaggio sui salari, ristretto ma interessante, ha mostrato che, per tutte le attività, gli uomini sono normalmente pagati più delle donne, confermando il tradizionale divario retributivo tra i generi. Tuttavia, risultati curiosi riguardano due settori lavorativi caratterizzati da un’elevata segregazione di genere. In primo luogo, nel settore dello sviluppo di software, dove le donne sono meno numerose, il loro salario medio è più alto, a testimonianza di una grande autoselezione tra loro, che permette solo a un’élite di raggiungere queste posizioni. Ciò potrebbe essere spiegato anche dal fatto che chi si occupa di sviluppo di software spesso utilizza nickname, per cui il genere non è facilmente identificabile. In secondo luogo, rispettivamente, i pochi uomini che svolgono mansioni domestiche o di cura tendono a essere pagati di più.
Questa disamina dimostra come la tecnologia non sia neutrale rispetto al genere, poiché gli schemi occupazionali nella platform economy riecheggiano quelli del mercato del lavoro tradizionale. L’obiettivo della politica e delle parti sociali dovrebbe essere allora quello di garantire un’efficace protezione del lavoro nell’ambito di queste nuove modalità occupazionali, evitando così che le piattaforme perpetuino pratiche di sfruttamento del lavoro femminile producendo un’amplificazione dei divari di genere esistenti, e promettendo invano rivoluzioni verso la flessibilità e l’uguaglianza.
Riferimenti – Rodríguez-Modroño, P. & Pesole, A. & López-Igual, P. (2022). Assessing gender inequality in digital labour platforms in Europe. Internet Policy Review, 11(1).
Annarosa Pesole, Sofia Gualandi
24/5/2022 https://www.ingenere.it
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