Lavoro agile e rivoluzione impacciata
Basta, basta, basta
Portare sulla schiena la sottomissione!
Trema consorteria del capitale!
Tremate sulle fronti, corone!
Vladimir Majakovskij
(Bene!)
Feltrinelli, Milano 1958, pag. 113
(traduzione di Giovanni Ketoff)
Secondo l’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano nel 2019 i lavoratori italiani utilizzati con la speciale normativa di cui al capo II (il c.d. lavoro agile) della legge 81/2017 (nata per incentivare la flessibilità) erano circa 570 mila, sempre e necessariamente a mezzo di una integrazione contrattuale approvata da entrambe le parti in ogni aspetto e clausola, comunque rescindibile con restaurazione della condizione precedente. A ben vedere non erano neppure pochissimi, ma si trattava pur sempre di una realtà ancora marginale con espansione lenta, mai davvero libera da un approccio sospettoso e prudente di entrambi i contraenti. L’Osservatorio era nato già nel 2012, prima dunque della legge 81/2017 e prima anche delle modifiche al sistema di controllo sui dipendenti introdotto nel 2015 con i Jobs Act. In ottobre 2017 questa forma di lavoro riguardava 305.000 addetti; in ottobre 2018 erano saliti a 480.000. Un incremento costante, ma non impetuoso.
Ma in ottobre 2020, subito dopo il picco del contagio e l’irrompere della pandemia il medesimo Osservatorio registra una moltiplicazione straordinaria: sono ben 6.580.000 i lavoratori della pubblica amministrazione e delle imprese private coinvolti in questo diverso modo di rendere la prestazione. Poiché i dipendenti (i subordinati per intenderci) sono in Italia circa 18 milioni il fenomeno si era allargato a un terzo di questo insieme. Il numero era semplicemente decuplicato in soli 12 mesi, evento questo assolutamente imprevedibile in assenza del Covid, che, avrebbe osservato Marx, deve essere considerato esso stesso come una potenza economica. L’uso spregiudicato e innovativo dei decreti presidenziali (i c.d. d.p.c.m.) non è sufficiente a spiegare il fenomeno; per comprenderlo bisogna considerare l’ampio consenso alla legislazione emergenziale di contrasto alla pandemia, in sede parlamentare e dentro le strutture istituzionalmente rappresentative delle forze sociali. La manovra è stata rapida, senza provocare alcuna reazione da parte delle organizzazioni sindacali, più stupite e travolte dagli eventi che consapevoli di partecipare ad un piano complesso di trasformazione radicale della struttura produttiva. Per un verso si sono sostanzialmente proibiti gli scioperi e impedite le agitazioni sindacali, mediante ripetute delibere dell’Autorità Garante; per altro verso i decreti e le leggi hanno (per il momento temporaneamente: ma nel nostro paese nulla è più stabile del provvisorio) abrogato la legge 81/2017, liberalizzando e anzi promuovendo l’uso di prestazioni lavorative da remoto. La delegificazione ha reso superfluo l’accordo prima necessario; specie nel primo periodo lavorare da casa era apparsa l’unica via per conservare, almeno in parte, la retribuzione o evitare il licenziamento. Non ci possono essere dubbi, ove si guardi la realtà senza pregiudizi e per come essa è: dentro il serbatoio del lavoro subordinato questa è una novità rivoluzionaria, un mutamento radicale che non lascia intravedere come possibile un ritorno al prima. In un brevissimo lasso di tempo è accaduto l’imprevisto; sono stati travolti e archiviati in un battibaleno gli studi programmatici di sociologi, economisti, esperti aziendali. Le nostre case d’abitazione sono diventate luoghi di lavoro, l’esistenza è diventata il nuovo orario in cui prestare servizio. Dentro la crisi il capitalismo ha immediatamente compreso che era necessario individuare nuove opportunità di profitto, quale unica via per sopravvivere senza perdere il controllo del ciclo complessivo, l’egemonia. A costo di uno scontro interno fra diverse fazioni e fra progetti incompatibili. Il capitale legato alle merci immateriali è stato naturalmente il più lesto ad agire, indifferente come di consueto alla composizione di ogni singolo governo territoriale.
Il lavoro a domicilio nel xx secolo.
Nel tempo delle miniere e dei grandi stabilimenti industriali esisteva anche il lavoro a domicilio, che ovviamente svolgeva un ruolo ancillare, pur se di una certa importanza, rispetto al cuore dell’impresa. La materia era la sua caratteristica, a monte o a valle del ciclo, si trattasse di capi d’abbigliamento o di componenti realizzate a tornio, di confezionamento o di assemblaggio. L’innovazione fordista e la catena di montaggio avevano intaccato quantitativamente, ma non eliminato il lavoro che le famiglie svolgevano nelle proprie abitazioni o magari all’aperto o in strutture di fortuna (si pensi all’essiccazione poi utilizzata come materia prima dalle nascenti industrie alimentari). Una linea sottile separava l’autonomia artigianale dalla subordinazione, la microimpresa delle boite piemontesi dal cottimo pieno; in fondo alle origini si trattava di una sorta di nominalismo senza conseguenze pratiche e giuridiche. Con il R.D. 28.8.1924 n. 1422 (la legge sull’impiego privato) il lavoro a domicilio entra nella legislazione italiana e il testo, specie se letto ai giorni nostri, appare ben concepito sul piano tecnico: sono considerati lavoratori a domicilio le persone dell’uno e dell’altro sesso che eseguano a tempo a cottimo a opera o in qualsiasi altra forma lavori che non siano di pertinenza dell’imprenditore né sottoposti alla sua sorveglianza diretta. In buona sostanza il confine fra casa e fabbrica stava nella concreta possibilità di sorveglianza e da questa possibilità (o meno) dipendeva sul piano organizzativo d’impresa il concetto di pertinenza.
Il lavoro a domicilio nel xx secolo.
Nel tempo delle miniere e dei grandi stabilimenti industriali esisteva anche il lavoro a domicilio, che ovviamente svolgeva un ruolo ancillare, pur se di una certa importanza, rispetto al cuore dell’impresa. La materia era la sua caratteristica, a monte o a valle del ciclo, si trattasse di capi d’abbigliamento o di componenti realizzate a tornio, di confezionamento o di assemblaggio. L’innovazione fordista e la catena di montaggio avevano intaccato quantitativamente, ma non eliminato il lavoro che le famiglie svolgevano nelle proprie abitazioni o magari all’aperto o in strutture di fortuna (si pensi all’essiccazione poi utilizzata come materia prima dalle nascenti industrie alimentari). Una linea sottile separava l’autonomia artigianale dalla subordinazione, la microimpresa delle boite piemontesi dal cottimo pieno; in fondo alle origini si trattava di una sorta di nominalismo senza conseguenze pratiche e giuridiche. Con il R.D. 28.8.1924 n. 1422 (la legge sull’impiego privato) il lavoro a domicilio entra nella legislazione italiana e il testo, specie se letto ai giorni nostri, appare ben concepito sul piano tecnico: sono considerati lavoratori a domicilio le persone dell’uno e dell’altro sesso che eseguano a tempo a cottimo a opera o in qualsiasi altra forma lavori che non siano di pertinenza dell’imprenditore né sottoposti alla sua sorveglianza diretta. In buona sostanza il confine fra casa e fabbrica stava nella concreta possibilità di sorveglianza e da questa possibilità (o meno) dipendeva sul piano organizzativo d’impresa il concetto di pertinenza.
Il fondatore del diritto del lavoro nel nostro paese, Ludovico Barassi, si era dedicato già nel suo primo testo (1901) ad esaminare la prestazione acquisita dall’imprenditore, in particolare con riferimento alla fornitura degli strumenti necessari, al corrispettivo, al risultato. Ma eravamo agli esordi della manifattura industriale. Nel 1949 (nel dopoguerra e durante la ricostruzione) nel manuale scritto per i suoi studenti della Cattolica il Barassi cerca di cogliere la linea sottile di separazione fra lavoro autonomo e lavoro subordinato (volume I, pagina 303 e seguenti), ma esaminando la produzione di merce materiale. E la indica, per la gioia di Lacan, proprio nella sorveglianza quale indice fondamentale della sottomissione gerarchica. Il lavoro a domicilio viene considerato eccezione rispetto alla regola generale, in ragione dell’art. 2128 del codice civile (1942), che estendeva a quella particolare modalità di prestazione le norme sulla subordinazione, in considerazione della posizione predominante di un committente sui singoli componenti di un serbatoio operaio chiamato ad eseguire il lavoro. All’esterno dello stabilimento, dove veniva meno la sorveglianza costante, il controllo si spostava sul risultato (quantitativo) e sulla verifica (anche qualitativa oltre che quantitativa). Negli anni della ricostruzione i lavoratori a domicilio subirono uno sfruttamento intensivo, esteso a chi viveva in famiglia (specie se donne minori), con notevole difficoltà di opporre alla prepotenza padronale un adeguato contrasto sindacale per via della necessità, della debolezza e della disgregazione. Le due leggi sul lavoro a domicilio furono varate nel 1958 (legge 264) e nel 1973 (legge 877). Sono assai simili, la seconda forse più peggiorativa che migliorativa, per il venir meno dell’obbligo (in verità quasi sempre disatteso) di indicare nel libretto la consegna, la descrizione del lavoro, la retribuzione. La base del calcolo era il c.d. cottimo pieno: trattandosi di prodotti materiali la paga era legata esclusivamente al risultato, ma con sanzioni in caso di pezzi difettosi o di danneggiamento del materiale fornito. Come nelle corporazioni medioevali vi era l’obbligo di custodire il segreto e il divieto di operare in concorrenza. La materialità rimase elemento qualificante anche quando fece capolino l’assegnazione a domicilio di archiviazione dei dati, richiesta in genere da banche, assicurazioni, società commerciali; predominava la carta e questa viaggiava fra uffici e case. Il controllo avveniva sempre e soltanto nel momento della consegna e del ritiro, concentrato comunque necessariamente sul risultato.
L’irrompere dei prodotti immateriali ha cambiato radicalmente il quadro, determinando una modifica rivoluzionaria dell’organizzazione del lavoro a domicilio.
Il capitalismo conquista le abitazioni e la vita di chi le abita.
La sorveglianza, intesa quale indice fondamentale della subordinazione tecnica e gerarchica nell’impresa novecentesca, vive di caratteristiche proprie: le maestranze, ogni giorno e per un tempo preciso, si radunano fisicamente in uno spazio collettivo indicato dall’imprenditore; ricevono in cambio del tempo ceduto un corrispettivo che prescinde dal risultato, e dal tempo impiegato nel percorrere il tragitto dalla casa alla fabbrica; sono sottoposti al potere disciplinare esercitato dal capitalista che detta le regole per svolgere l’attività, individua il rendimento richiesto come minimo accettabile, controlla i ritmi e le pause per mezzo di addetti assunti con questo compito, punisce con l’esclusione chi non rispetta l’ordine aziendale costituito. Il trasporto dei corpi dalla casa alla fabbrica è un elemento connesso, fondante; la distinzione fra tempo libero e tempo di lavoro segna il confine fra vita propria e vita ceduta, ogni giorno, sempre.
I prodotti immateriali (quelli che non si possono misurare con la tradizionale tridimensionalità, che non hanno peso) hanno abbattuto la necessità di un tempo e di un opificio; viaggiano invisibili e diventano oro anche senza essere materia nel senso usualmente attribuito a questo vocabolo. Non hanno bisogno di una sede specifica e neppure di un tempo dato per diventare merce. Come nel vecchio lavoro a domicilio quel che è misurabile, quel che conta, è solo il risultato. Con una differenza tuttavia, rispetto al vecchio lavoro a domicilio: la sorveglianza (che rimane indice fondamentale) richiede un ridottissimo numero di corpi che la esercitano, essa è per la gran parte incorporata dalla macchina, dal sistema, dalla piattaforma, dall’insieme di queste diavolerie. Il corpo dei sorveglianti diviene capitale fisso, merce, macchinario. I prodotti immateriali consentono la sorveglianza degli addetti per mezzo degli strumenti utilizzati, anche gli errori (oltre che il tempo, il luogo, la velocità, l’efficienza) sono registrati e di essi rimane sempre traccia. La connessione costante abbatte, almeno in astratto, i limiti temporali di utilizzazione del personale, lo tiene anzi ancorato alla cooperazione sociale e al prodotto senza possibilità di fuga; e permette una collocazione fisica che prescinde dalla fabbrica o dall’ufficio in cui tradizionalmente i corpi si raccoglievano. Il lavoro in rete si è diffuso, come sempre avviene, in via sperimentale, utilizzando la potenzialità dei mezzi, quasi di nascosto, un poco alla volta. Poi trovò la sua via anche parlamentare, durante il dominio di Matteo Renzi nel territorio pidino.
Con iniziativa parlamentare femminile allargata e mista (Mosca, Ascani, Saltamartini, Tinagli) il 29 gennaio 2014 fu presentato il progetto di legge sul lavoro agile. Si legge nella relazione introduttiva: numerose ricerche dimostrano che il lavoro fuori dell’azienda è mediamente più produttivo (35-40%) dei dipendenti che sono in ufficio, e ci si assenta di meno (63%); si prevedono 27 miliardi di maggiore produttività, 10 miliardi di minori costi fissi.
Il progetto era peraltro assai prudente. L’ipotesi era limitata a un tempo parziale del 50%, la scelta era reversibile, la retribuzione doveva rimanere inalterata. Peraltro la postazione era responsabilità dell’impresa, chiamata a fornire gli strumenti di lavoro e dunque obbligata a rispondere di eventuali infortuni; inoltre la sorveglianza era sottoposta alle procedure e ai divieti dell’art. 4 dello Statuto. Ma questo ostacolo venne presto rimosso grazie al decreto 151 del 2015, nell’ambito del Jobs Act, con il voto favorevole e decisivo dell’ala sinistra; la norma sul controllo a distanza non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze. Con la moderna tecnologia informatica per le imprese non si apriva uno spiraglio ma piuttosto un varco sconfinato che consentiva di fatto il controllo della vita altrui!
Quando fu approvato il progetto erano trascorsi oltre tre anni (la legge 81 fu varata infatti solo nel maggio del 2017). Il testo imponeva tuttavia la forma scritta e il consenso espresso del lavoratore, con indicazione puntuale dei riposi e dei periodi di disconnessione, confermando la responsabilità dell’impresa quanto alla sicurezza della prestazione richiesta da remoto; la lentezza con cui questa forma di lavoro è stata recepita dalle imprese è la conseguenza di questi vincoli, avvertiti come un fastidio oneroso, e del sospetto tradizionale verso la burocrazia amministrativa ministeriale. Ma sia pure lentamente il cammino della trasformazione era cominciato.
La pandemia come crisi e come occasione per accelerare la trasformazione.
Rimossa collettivamente nei primi giorni del suo insorgere la crisi connessa al diffondersi sempre più evidente del contagio non tardò a dispiegare i suoi effetti in alcune aree di avanzata produttività, come il territorio lodigiano-piacentino, la bergamasca, il nord est del veneto più profondo. La chiusura drastica giunse quasi inattesa, certamente colse di sorpresa quel poco che rimaneva delle organizzazioni sindacali dei lavoratori, sia istituzionali sia di base. Ci furono alcuni generosi tentativi di resistenza operaia, ma separati e quasi a macchia di leopardo; comunque vennero facilmente domati, usando senza remore la minaccia, la repressione e, soprattutto, la comunicazione della paura. In quegli stessi giorni il capitalismo più avanzato intuì che si andava presentando una formidabile occasione per trasformare l’organizzazione d’impresa, per consolidare il mutamento in atto del rapporto di forza e affermare un potere quasi sconfinato sulla cooperazione sociale e sui soggetti, per acquisire e mettere a valore la loro intera esistenza.
In brevissimo volgere di tempo circa sei milioni di addetti furono indotti a lasciare i reparti in cui fino ad allora avevano svolto attività lavorativa in gruppi a stretto contatto, trasferendo nelle proprie abitazioni la postazione di servizio, in isolamento; un esodo di proporzioni grandiose, superiore quantitativamente perfino alle periodiche singole ondate migratorie. Nella pubblica amministrazione e nel settore privato (in testa le grandi imprese) il terrore del contagio (e della morte) si era saldato con il timor-panico di perdere il posto, il reddito. La prestazione da remoto venne percepita come l’unica via d’uscita possibile, da afferrare senza fare domande e senza porre condizioni. Apparve come la scialuppa di salvataggio nel pieno di un tragico naufragio.
L’articolo 87 del decreto legge n. 18/2020 ha tracciato il percorso tecnico-giuridico di questa rivoluzione giuslavoristica, liberalizzando totalmente la prestazione da remoto. Nel clima legato all’emergenza introdotta da Covid 19 l’esecutivo, senza incontrare opposizione, ha rimosso la necessità del consenso e della forma scritta che indicasse il tempo per produrre e per riposare, disconnessi. Ogni clausola in ordine alle condizioni di lavoro (intese come sicurezza, come retribuzione, come quantità) era diventata così flessibile e modificabile, ogni giorno, sul campo, secondo le disposizioni di chi, per legge, era senza equivoci il capo dell’impresa (articolo 2086 del codice civile). Il vecchio padrone era riapparso per tormentare ogni soggetto precario, facendo valere la direzione gerarchica anche dentro le abitazioni private di sei milioni di corpi, a lui subordinati.
È un dato di fatto. Con questa delegificazione viene introdotta la condizione precaria nel lavoro svolto all’interno della casa in cui si svolge, intera, ogni singola esistenza; è con tutta evidenza il grimaldello con cui, forzato l’uscio, il capitale si impadronisce dell’intero tempo, e contemporaneamente si appropria della cooperazione sociale senza la quale quel tempo sarebbe inservibile.
La delegificazione, la rimozione delle regole, è stata poi costantemente prorogata, da ultimo con l’art. 263 del decreto Rilancio fino al 30 aprile 2021; dovrebbe essere tuttavia chiaro che questa gigantesca modifica dell’assetto complessivo d’impresa non è reversibile; il moderno capitalismo delle piattaforme e delle merci immateriali è stato in grado di utilizzare l’esplosione della pandemia per modificare, in via definitiva, il modo di lavorare.
Costi, benefici, rapporti di forza
Difficile catalogare i nuovi diritti e i nuovi doveri riconducibili al nuovo smart working varato nel pieno della pandemia. Anzi è impossibile. La scelta è stata infatti di segno opposto: una completa deregolamentazione, l’assenza di contratti e norme. La prestazione avviene di fatto, le conseguenze sono conosciute solo a posteriori. Non essendo più necessario il consenso del lavoratore riesce difficile comprendere che cosa, in astratto, possa accadere nell’ipotesi di un rifiuto opposto all’ordine di rendere attività da casa. In concreto il timore dell’ignoto e dell’incertezza ha relegato a pochissimi casi questo scenario; più frequente è stata piuttosto la domanda di proseguire da remoto a svolgere mansioni, in qualche caso anche con ricorso al Giudice, che, tendenzialmente, verificata la concreta possibilità, mostra una certa disponibilità all’accoglimento. Ma sono, si ripete, eccezioni; nella maggior parte dei casi l’impresa ordina e il dipendente esegue.
Il computer, il telefono portatile e la posta elettronica richiedono a ben vedere, per funzionare, una connessione sostanzialmente costante, almeno in potenza. In ogni caso la sorveglianza (grazie alla modifica dell’art. 4 dello Statuto) avviene principalmente utilizzando i medesimi strumenti con i quali si realizza il lavoro. Il Garante per la Privacy (verifica del 16 marzo 2017) ritiene che possano essere utilizzati anche a fini di controllo tutti gli strumenti utilizzati in via primaria ed essenziale, quali certamente sono il tablet, il portatile, il computer, la telefonia mobile di ultima generazione (che tramite cellule di aggancio consente anche di conoscere spostamenti e collocazione fisica). L’impresa riesce a controllare il risultato e allarga la fascia temporale della disponibilità all’intero giorno, magari mediante invio digitale fissando la scadenza per l’adempimento; dentro questa ampia fascia temporale si lascia un certo margine di scelta per giungere al risultato. Il sistema informatico individua e conserva gli errori, che permangono archiviati anche a distanza di anni. Il timore di sbagliare determina a sua volta inquietudine e malessere, oltre ad esporre a sanzioni (economiche o normative). In generale l’abbattimento del muro temporale fra tempo libero e tempo lavorato non sembra aver portato una maggiore leggerezza esistenziale. Il tempo di lavoro è aumentato. Di fatto la prestazione da remoto elimina il tempo di viaggio (che comunque non era pagato), ma anche lo straordinario (che invece era fonte di reddito); la rimozione del contratto scritto non consente di poter misurare la prestazione a tempo, mentre l’identificazione del risultato congruo in una settimana di servizio è oggi affidata alla struttura datoriale. La determinazione del giusto risultato è stata consegnata, in sostanza, al potere contrattuale dei contraenti, al rapporto di forza. Questo può essere un vantaggio per il lavoratore superspecializzato o altamente qualificato (che si gioca il suo essere indispensabile) ma è un disastro per tutti gli altri, costretti a trattare da singoli isolati con strutture potenti e collettive. Il corrispettivo di un lavoro remoto risulta sul campo minore di quello precedente. Il buono pasto, secondo la giurisprudenza, non rientra nel trattamento retributivo garantito: la circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha chiarito, durante la pandemia, che il buono non è affatto un diritto automatico, lasciando a ciascuna amministrazione la scelta nell’ambito di un confronto sindacale.
L’Osservatorio del Politecnico ci ha fornito alcuni dati interessanti che riguardano la collocazione del lavoro dentro le mura domestiche; gli architetti del capitale possiedono, bisogna ammetterlo, una fantasia certamente perversa, ma davvero sconfinata. Per essere utili all’impresa servono 4/5 metri quadri. Nelle metropoli lo spazio residenziale medio complessivo (medio! non lo si dimentichi) è di circa 50 mq e aumenta nei borghi o nei piccoli paesi fino a circa 90 mq. I consulenti sconsigliano la cucina perché troppo frequentata in famiglia; e pare non vada bene la camera da letto perché il suo uso lavorativo porta conseguenze psicofisiche. Viene suggerito piuttosto il recupero di spazi poco utilizzati (in 50mq?!) come corridoi o angoli tralasciati, magari servendosi di librerie mobili (perché non di tende beduine?) o altri simili separazioni. Quel che conta è appropriarsi di 5 metri quadri in 6 milioni di abitazioni (l’incremento acquisito già oggi di smart workers); a circa tremila euro a metro quadro sono complessivamente 90 miliardi di euro; anche a voler considerare una locazione il risparmio non è inferiore, per ciò solo, a dieci miliardi, senza investire un centesimo e assicurandosi anche la gratuità di manutenzione, pulizia, riscaldamento, energia. Sul piano della fiscalità bisogna osservare che sussiste una disparità di trattamento: le imprese portano la spesa di locazione, di strumenti e di energia in detrazione fiscale, il lavoratore no. Usa il computer e il telefono per l’azienda, usa uno spazio per altrui profitto, ma non detrae nulla. Anche la produttività cresce. Global Compact Italia ha condotto un’indagine coinvolgendo 47 gruppi societari. Due terzi del campione hanno segnalato che il ricorso a forme di smart working ha avuto un incremento produttivo di oltre il 20% e il residuo l’ha mantenuto costante; in ogni caso con risparmio di costi e senza perdite. Altri studi di quest’ultimo periodo hanno proceduto al confronto di unità tradizionali e unità di smart workers rilevando anche in questo caso una maggiore produttività dei secondi in misura significativa (fra il 3 e il 5%). Inoltre, e la cosa non è certo di secondaria importanza, con il lavoro da remoto sono crollate le assenze per malattia e sono scomparse le astensioni dal lavoro collegate a rivendicazioni salariali. Risparmio e controllo. Per alcune imprese la pandemia è un disastro; per altre, soprattutto quelle dei nuovi capitalisti, un’occasione straordinaria per incrementare i profitti e consolidare il potere.
La protesta è per ora impacciata
Si diceva un tempo che senza una teoria rivoluzionaria non è possibile la rivoluzione; o che la coscienza di essere schiavo è il presupposto per diventare libero. Certamente bisogna costruire innanzitutto un aggiornamento del nostro modo di ragionare. Ma è pur vero che bisogna avere il coraggio politico di affrontare il reale che ci si para davanti. Non vi è possibile reversibilità della trasformazione in corso; la protesta si deve calare in essa e trovare la sua strada per emergere, imporsi. La riuscita dello sciopero nel regno di Jeff Bezos, nella cittadella piacentina di Amazon, è un segnale di rilievo, con queste dimensioni non era mai accaduto. I riders si sono a loro volta misurati con la disconnessione per rivendicare un miglioramento. Con fatica, ma qualche cosa si muove. La separazione dei corpi dentro la pandemia ha indicato un percorso all’apparato di comando: isolamento e frammentazione sono uno strumento politico di controllo del precariato. Il nuovo capitalismo vuole impadronirsi del lavoro agile e piegarlo ai propri fini, utilizzarlo per acquisire un controllo pieno e totale del meccanismo di cooperazione sociale, ormai indispensabile per qualsiasi struttura sociale esistente. Il nuovo capitalismo pretende di acquisire anche l’ambiente, il comune. Usa la struttura della prestazione da remoto non solo per aumentare la produttività e risparmiare sui costi (anche, naturalmente); lo scopo è quell’insieme composto da dominio e profitto, indissolubili. Per questo divide, frammenta, uccide senza rimorso, si nutre della paura e dell’insicurezza. Mentre il processo di trasformazione (e sussunzione) avanza spedito dentro l’emergenza, piegandola alle proprie esigenze, senza altra ideologia che il bottino, il precariato accusa i colpi, arretra spaventato, cerca vie di fuga, sembra smarrito. Il lavoro è agile, la rivoluzione, al contrario, è per il momento impacciata. Con l’automazione il padrone attacca.
Bisogna partire dalla consapevolezza della condizione precaria, della tirannia fondata sulla paura che viene imposta, dell’intollerabilità di questo stato di cose, della necessità di una rivolta. Oggi è l’unico realismo possibile. Solo la barricata non sta da una parte o dall’altra, ebbe a scrivere un celebre rivoluzionario, in uno dei pochi passi ironici dei suoi scritti. È proprio così. In questo strano tempo va privilegiata la coalizione, bisogna individuare ciò che unifica, marginalizzare quello che divide. La solidarietà è un buon punto di partenza, proprio perché è antitetica allo spirito dell’odierno capitalismo; il salvataggio dell’ambiente si pone come una inevitabile resistenza al potere. Ma soprattutto va rimesso al centro dello scontro il conflitto che per ora tarda ad emergere con la forza necessaria e che si colloca dentro il lavoro nel tempo della trasformazione. I primi tentativi di risposta alla trasformazione in atto sono piccoli semi da curare con amorosa attenzione, come cose nostre, come un progetto su cui fondare un futuro possibile. Quella che bisogna costruire, inventare e realizzare è la capacità di una collettiva generale disconnessione per riconquistare nell’unico modo possibile, con la lotta, le porzioni di casa requisite, l’ambiente, la cooperazione sociale, il comune.
Gianni Giovannelli
12/4/2021 http://effimera.org
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