Lavoro, diritti, produttività, pubblica amministrazione e industria
Le trasformazioni in atto in politica come nel mondo del lavoro hanno origini lontane . Senza risalite alla notte dei tempi, da 30 anni a questa parte sono stati propinati innumerevoli luoghi comuni che, con il supporto dei media, hanno rivoluzionato anche il nostro modo di pensare e di agire.
Il trasformismo della politica ci ha abituato a giravolte e rivoluzioni copernicane, per dirne una non pensiamo che Lega e Mov 5 Stelle siano forze a difesa delle classi sociali meno abbienti ma sicuramente non faranno, per quanto riguarda i diritti sociali, peggio del Partito Democratico. Altro discorso invece riguarda i diritti civili e le prime esternazioni , in Sicilia, del neo ministro Salvini non promettono nulla di buono.
Il vero problema resta comunque un altro: alzarci dalla poltrona, per chi la possiede, e iniziare a camminare con le nostre gambe senza farsi illusioni sull’operato dei Governi, senza parteggiare come tifosi bevendoci i luoghi comuni trasformati in massime di vita e perle di saggezza .
Non occorrono studiosi della psicologia di massa per capire quanto bassa sia nell’epoca dei social network la partecipazione effettiva, ad ogni livello, ai processi decisionali.
Il protagonismo delle classi sociali meno abbienti, nell’epoca virtuale, è ridotto ai minimi termini, la rete resta lo sfogatoio per eccellenza (quello che rappresentavano, con platee assai piu’ ridotte, le piazze del paese o i bar\circoli) dove si manifestano gli istinti piu’ beceri, in rete gli agnelli diventano leoni perdendo di vista i problemi reali, nella ricerca di teorici amici e di nemici contro cui scagliare invettive, non senza clamorosi scivoloni e fake news. Proviamo allora a sviluppare alcuni ragionamenti sapendo che invertire la tendenza significa legare ogni lettura ad azioni pratiche e conseguenti.
E’ tornata in auge la cultura delle flessibilità per combattere le insicurezze dei lavoratori e delle imprese . Quali sarebbero le insicurezze dei lavoratori? La paura di perdere il posto, di avere una pensione da fame, di ammalarsi senza ricevere adeguate cure, di non potere mandare i figli all’asilo perchè i servizi a domanda individuale hanno pochi posti e a prezzi non sempre accessibili. Il mancato accesso ai servizi essenziali (istruzione, casa, sanità) non deriva dal fatto che sia aumentata la platea degli aventi diritto, insomma non sono i migranti responsabili ma piuttosto i Governi che non hanno piu’ costruito case popolari, che hanno saccheggiato oltre ogni limite la sanità. Non sono i migranti a rubarci i posti agli asilo nido, sarebbe stato sufficiente trasformarli da servizi a domanda individuale (che gravano sui comuni e determinano rette salate) in servizi della pubblica istruzione per garantire posti a tutti i richiedenti. Ma cosi’ non è stato solo per una questione dei costi, mancano i soldi per il sociale mentre si regalano fiumi di denaro alle imprese e agli speculatori finanziari che poi non sono entità astratte.
Le paure da combattere, a detta dei padroni. sarebbero invece altre, per esempio puntano il dito sui ritardi culturali che determinano la scarsa collaborazione ai processi tecnologici e alle trasformazioni nella realtà produttiva, la ritrosia di molti ad accogliere l’innovazione che avanza . Se guardiamo a quanto accaduto nell’ex Fiat si capisce bene perchè le paure siano del tutto legittime: la perdita di migliaia di posti di lavoro, l’avvento dei robot, le delocalizzazioni produttive , l’espulsione dei sindacati conflittuali, un prodotto incapace di rinnovarsi con vetture competitive rispetto al mercato estero. E’ forse questa la innovazione tanto decantata? Tecnologia e innovazioni sono state foriere di bassi salari, di pochi posti di lavoro, di aumento dei ritmi e dei tempi, allora per quale motivo dovremmo parteggiare per il cambiamento?
.La tecnologia è stata declinata a senso unico e sovente per accrescere i profitti finanziari, i processi tecnologici non sono stati governati o indirizzati a fini sociali o per migliorare le condizioni di vita, per accrescere l’occupazione riducendo l’orario di lavoro. Con queste premesse vogliamo perseverare nella narrazione tossica dei ritardi culturali? Per quello che vediamo, da anni ormai, processo tecnologico e riduzione delle tutele collettive, contrazione degli spazi di democrazia e partecipazione, dominio della Finanza sono sempre piu’ connessi, ammesso ma non concesso che ci sia un ruolo progressivo nella tecnologia, questo ruolo non si è visto per l’uso a fini speculativi e capitalistici fatto di ogni cambiamento, il che ha spinto le classi sociali meno abbienti sulla difensiva.
L’era digitale non ha rilanciato il capitale umano, lo ha piegato a logiche di sfruttamento e di autosfruttamento, le tutele sono del tutto inadeguate basti pensare ai riders che si vedono negato il carattere subordinato del loro lavoro, ricordiamo la riduzione dell’orario a parità di salario ormai scomparsa dalla agenda politica e sindacale, ci si accontenta di generiche carte di diritti o dichiarazioni di intenti al posto di accordi validi erga omnes e di contratti nazionali veri e propri.
Se gli studenti sono costretti ad anni di lavoro gratuito o a basso reddito, evidentemente si pensa che nell’era digitale la equa retribuzione sia del tutto inutile, oppure si emigra all’estero alla ricerca di un lavoro. Eppure bisognerebbe guardare con attenzione al rinnovo della forza lavoro che in Italia è tra le piu’ vecchie d’Europa. Se in Francia o in Germania investono nella pubblica amministrazione per il rilancio dell’economia, in Italia invece si continua tra esternalizzazioni e tagli.
Consigliamo la lettura di una recente ricerca (clicca qui per leggere)
sulla Pubblica amministrazione, studio che smonta pezzo su pezzo i luoghi comuni sul presunto numero eccessivo di dipendenti pubblici in Italia.
Lo abbiamo detto in tante occasioni: assunzioni nella pubblica amministrazione per combattere la disoccupazione giovanile, rinnovare la forza lavoro piu’ vecchia d’Europa, migliorare i servizi e accrescerli.
Non è vero che le privatizzazioni dei servizi hanno accresciuto la forza lavoro complessivamente impiegata, è anzi ipotizzabile che la esternalizzazione di tante funzioni rappresenti una sorta di alibi per non investire nel pubblico, del resto la perdita di mezzo milione di posti di lavoro in un decennio si accompagna al depotenziamento del welfare e alla riduzione di servizi sanitari, sociali ed educativi.
A tal riguardo riportiamo un passaggio della relazione:
Se nella PA ci fossero i circa 2.500.000 addetti che ci mancano per raggiungere Francia e Regno Unito il nostro tasso di occupazione passerebbe dal 62.3% (il penultimo in Europa) al 69%.
In sostanza: la minore occupazione dell’Italia rispetto ai paesi con cui siamo soliti confrontarci non dipende dalle caratteristiche del mercato del lavoro privato, ma dal sottodimensionamento della produzione di servizi pubblici. Alla luce di questi dati, recuperare il ritardo occupazionale operando sul solo settore privato appare difficilmente praticabile se non utopistico.
I servizi pubblici sono carenti e oggi del tutto inadeguati, languono tra carenze di organico, mezzi e risorse troppo esigue. Questa è la realtà, oggi scopriamo che il depotenziamento dei servizi pubblici, l’imposizione di patti di stabilità negli enti locali, il blocco delle assunzioni durato anni non solo hanno impoverito il pubblico ma allo stesso tempo hanno avuto ripercussioni negative sull’economia, un autentico tappo che ne ha impedito la crescita.
Altro problema rilevante è costituito dalla scarsa attendibilità della classe imprenditoriale e politica italiana, è responsabilità loro la mancata valorizzazione delle risorse umane tanto è vero che continuano a muoversi lungo il solco della precarietà (la fine del contratto nazionale, il salario minimo, le partite iva piu’ o meno taroccate) . Le preoccupazioni padronali per i ritardi dell’Italia derivano dalle loro politiche , dalle delocalizzazioni, dal ricorso costante agli ammortizzatori sociali pagati dallo Stato, ad una idea di competività basati su bassi salari, lavoro gratuito, libertà di licenziamento , rafforzamento dei jobs act e definitiva cancellazione dello Statuto dei lavoratori. Per questo vorrebbero rivedere anche gli assetti contrattuali, le deroghe al contratto nazionale non bastano piu’, la contrattazione di secondo livello dovrà fare il lavoro sporco nella riduzione di tutele e diritti.
Nei prossimi mesi tornerà al cento del dibattito la questione formazione e scuola, lo faranno perchè le riforme degli ultimi anni hanno accresciuto il numero degli analfabeti di ritorno abbattendo il numero dei laureati soprattutto nelle facoltà scientifiche dove l’obbligo di frequenza rende incompatibile lo studio con piccole attività lavorative per mantenersi allo studio.Ci diranno, a noi strenui e inossidabili oppositori del capitale, che vogliamo fermare il progresso e l’innovazione, la critica verrà anche dai sindacati complici. Non basterà rispondere con gli slogans, urge fare altro e rispondere punto su punto ai luoghi comuni padronali che mirano direttamente ad accrescere i tempi di lavoro a discapito di quelli di vita.
Forse sarebbe utile capire dove sta andando il capitalismo italiano, conoscere le delocalizzazioni avvenute, appurare il peso delle cosiddette eccellenze, capire meglio dove siano finiti i profitti degli ultimi anni. Ma per farlo avremmo bisogno di intellettuali e ricercatori a disposizione della classe, figure da anni assenti nel panorama italiano.
I padroni battono cassa, il loro rapporto con le istituzioni è da sempre strumentale, chiedono sostegno alle imprese e in questi anni lo hanno avuto senza per altro produrre un numero di posti di lavoro adeguato . Allora, giusto per non farsi prendere in contropiede, sarà il caso di capire cosa intendiamo noi per crescita, produttività., salari e reddti, innovazione.
L’industria italiana ha perso valore, in 25 anni il suo contributo al Pil è sceso di quasi 10 punti in percentuale, l’industria occupava 20 anni fa il 32 % della forza lavoro, oggi meno del 27%. , la manifattura per anni ha avuto un trend negativo, l’idea del piccolo ma bello (che poi stava alla base di un compromesso sociale) si è dimostrato non sempre un fattore positivo.
Il ragionamento da fare allora riguarda anche i distretti industriali e l’idea di sviluppo che il prossimo Governo dovrà avere assumendo decisioni su Alitalia, Ilva, Piombino, per non parlare poi del settore meccanico, Fca in primis.
Per costruire un ragionamento sensato dovremmo partire dall’analisi delle privatizzazioni avvenute, capire la ragione della scomparsa di tanti marchi detenuti dalle partecipazioni statali o la fine delle grandi industrie che avevano proliferato nei 30 anni successivi alla seconda Guerra Mondiale. Dovremmo capire perchè gruppi come Indesit, Parmalat e Pirelli siano stati acquistati da stranieri o perchè un settore dove gli Italiani erano forti come quello dei computer e della telefonia nell’arco di pochi anni sia stato distrutto.
Lo stato Italiano ha difeso i suoi prodotti o si è fatta dettare dalla Germania, e non solo, politiche atte allo smantellamento di settori nevralgici? E perchè i ritardi del Sud Italia sono sempre piu’ accentuati? Colpa della malavita organizzata e dei suoi tentacolari interessi di potere o anche frutto del lavoro nero, della “deindustrializzazione precoce” , di politiche industriali nocive per gli esseri umani e l’ambiente (Ilva di Taranto come si evince dalle numerose inchieste della Magistratura)?
Negli ultimi lustri è mancata la politica industriale, i Governi e il sindacato hanno solo concesso quanto richiesto dai padroni, a nessuno è venuto in mente di analizzare lo stato di salute del capitalismo italiano, lo stato ha abdicato ad ogni ruolo di indirizzo perchè cosi’ ha voluto anche l’Ue, il sindacato ha rinunciato al conflitto barattando la sua arrendevolezza con la previdenza e la sanità integrative o con la promessa di conservare il business dei Caf.
Qualunque sia allora il ragionamento in materia di diritti, produttività e industria, non possiamo stare sulla difensiva, eludere le questioni piu’ importanti, muoversi nell’ottica del contenimento del danno e del perenne compromesso a perdere.
Suonerà come desueto il nostro invito a riflettere sul ruolo dello Stato e da li’ ripartire per capire il modello industriale dei prossimi anni, sarà desueto pensare ad un sindacato che non sia complice o cinghia di trasmissione dei processi in atto ma torni al suo ruolo conflittuale provando a strappare aumenti salariali, per affermare contratti con contenuti avanzati e mobilitandosi per la difesa dei posti di lavoro, la riduzione dell’orario e l’abbassamento dell’età pensionabile.
Sarà desueto riproporre una analisi della fase ma non troviamo altro modo per scongiurare l’ennesima debacle dei lavoratori e delle lavoratrici. Conoscere, capire, interpretare e agire, non sono solo parole d’ordine o slogans, indicano quanto dobbiamo fare per non essere risucchiati dalle lotte parlamentari piegando le nostre istanze agli interessi di altri.
Federico Giusti
10/6/2018 www.controlacrisi.org
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