Lavoro donne al sud. Sommerse

Credits Unsplash/Nate Neelson

In Italia una parte significativa del lavoro sommerso riguarda le donne che vivono al Sud. Una situazione alimentata dalla carenza di servizi e strutture per la cura sui territori, e dalla cultura patriarcale che ancora le penalizza, con conseguenze negative per intere comunità. Un commento a partire dai dati

68 miliardi di euro. Tanto vale il volume d’affari generato nel 2021 dal lavoro nero in Italia. I dati elaborati dalla Confederazione generale italiana dell’artigianato (Cgia) di Mestre, presentati a giugno di quest’anno, sono impietosi: poco meno di tre milioni le persone coinvolte su tutto il territorio nazionale, con il Mezzogiorno che vince il primo posto nella classifica degli “irregolari”, producendo il 35% di questi 68 miliardi, vale a dire circa 24 miliardi di euro. Una cifra praticamente corrispondente al valore della manovra economica. 

Anche volendo considerare la percentuale delle persone che lavorano in nero rispetto al numero di quelle occupate in maniera regolare, il primato del Mezzogiorno non cambia: a fronte di un dato medio dell’Italia dell’11,3%, la Calabria registra il 19,6%, la Campania il 16,5% e la Sicilia il 16%. 

Naturalmente esistono persone che lavorano in nero in tutte le categorie. Tuttavia, quella dove si registra la maggiore percentuale di irregolarità è la categoria dei servizi alla persona: tra collaboratrici domestiche e badanti il 42,6% (a livello nazionale) è del tutto sconosciuta all’Inps. Seguono l’agricoltura, con il 16,8% di persone impiegate in maniera irregolare, le costruzioni (13,3%) e il settore ricettivo (12,7%).

Questo è, in sintesi, il quadro generale di riferimento. Un quadro che testimonia non solo un enorme pregiudizio economico per il paese ma anche un gravissimo fenomeno sociale che colpisce le persone più fragili, povere, e quelle straniere. E, naturalmente, le donne.

Anche da questo punto di vista il Sud è in vetta della classifica. Se non abbiamo, ovviamente, dati certi sul lavoro nero, già quelli relativi all’occupazione femminile ci dicono su che terreno ci stiamo muovendo. 

Se consideriamo, ad esempio, la Sicilia, qui il tasso di disoccupazione femminile è del 18,3%, il triplo rispetto al dato europeo (6,4%) e il doppio rispetto a quello nazionale (8,9%). Tra le occupate hanno un contratto a termine il 58,5% delle donne contro la media italiana del 42,9% e, secondo l’Inps, nel 2022 lavoravano part-time il 63,61% delle donne siciliane contro il 32,4% cento degli uomini.

Dunque lavori a tempo parziale e discontinui, che portano le retribuzioni medie annue delle donne a superare di poco i 5.000 euro annui. I dati delle altre regioni meridionali non si discostano molto da quelli della Sicilia. 

Un altro dato che, drammaticamente, fotografa la situazione delle donne nel Sud Italia, ci viene fornito dall’Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno (Svimez). Stiamo parlando del “tasso di non lavoro” o di “mancata partecipazione”, che coglie “con maggior precisione il divario tra domanda e offerta di lavoro, prendendo in considerazione oltre ai disoccupati, anche gli scoraggiati (persone disposte a lavorare che non svolgono attività di ricerca attiva) e i sottoccupati (gli occupati che sarebbero disposti a lavorare più ore)”. In Italia questo tasso è del 19,3%, ma sale al 42% per le donne in età da lavoro nel Mezzogiorno. 

Eppure, la necessità e il desiderio di lavorare non mancano, come ci rivela Il ri[s]catto del presente. Giovani e lavoro nell’Italia della crisi dell’Istituto ricerche educative e formative (Iref) realizzato dalle Associazioni cristiane lavoratori italiani (Acli) su un campione di 2.500 tra ragazzi e ragazze. Un primo dato contenuto nella pubblicazione ci parla del desiderio di indipendenza delle ragazze: tra le persone di età compresa fra i 18 e i 29 anni che hanno scelto di andare a vivere da sole, il 73,3% è composto da donne. E, pur di conquistare la libertà economica, il 42,2% delle giovani accetterebbe anche un lavoro in nero (contro il 33,9% dei ragazzi).

Ma il sacrificio non finisce qui. Infatti, data la difficoltà di coniugare la maternità e la famiglia con il lavoro, lo studio riporta che le giovani donne “pur di essere indipendenti e mantenere un lavoro sarebbero disposte anche ad altre rinunce pur di non venire licenziate: il 31% direbbe addio ai giorni festivi, mentre il 18,5% alle ferie e il 13,1% a una parte dello stipendio”. Solo il 26,9% si farebbe licenziare pur di mantenere intatti i propri diritti. “Queste percentuali così alte legate alle concessioni possibili da parte delle ragazze italiane si spiegano con un’aspettativa più bassa circa le possibilità di coniugare lavoro e diritti data proprio dall’essere donne”, si legge ancora nello studio.

Il sentimento alla base è chiaro: “siccome sono una donna, mi devo arrangiare e devo tollerare di avere condizioni peggiori a prescindere”. 

Neppure il titolo di studio salvaguarda dal lavoro nero: purtroppo mancano dati aggiornati, ma l’ultimo rilevamento dell’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori (Isfol), relativo al 2011, ci dice che il 36% delle occupate in nero possedeva un diploma di scuola media superiore, il 13% un titolo a livello universitario, l’8% una qualifica professionale, il 31% la licenza media e il 6% la licenza elementare. 

Evidentemente si dà per scontato che, magari solo per cominciare il percorso lavorativo, sia necessario accettare un impiego irregolare seguendo le ragioni che la vulgata propina: all’inizio non si è capaci di fare nulla e dunque lavorare in nero o sottopagate serve a “imparare”, è un modo per dimostrare la volontà di apprendere e la dedizione, e così via. Spessissimo, invece, la situazione di irregolarità si protrae, soprattutto se ci si trova in situazioni di disparità relative al mercato del lavoro. Oppure, più semplicemente, è proprio la speranza che è persa in partenza.

Ci dice una ragazza di un paesino in provincia di Salerno: “appena mi laureo me ne vado. I posti buoni in questa zona sono già assegnati: amministrazione pubblica, società partecipate e banche locali sanno già chi e come assumeranno. La mia laurea non varrà niente perché i criteri che servono per avere un buon lavoro da queste parti sono altri“. Gli “altri criteri“ sono il clientelismo e il nepotismo, con l’atroce conseguenza che i bravi e le brave, quelle che studiano e si danno da fare, se ne andranno altrove. Gli altri e le altre, quelli e quelle che già sanno che il lavoro buono lo avranno, non fanno nessuno sforzo perché il risultato della loro formazione non avrà nessuna ripercussione su una carriera già “assicurata”. Risultato: posti assegnati a persone incompetenti.

Ma ci sono altre ragioni che possono indurre le donne del Mezzogiorno ad accettare di lavorare in nero. In una grandissima parte dei casi è la necessità di rafforzare il bilancio familiare. Magari evitando il cumulo di più redditi che porterebbe a perdere vantaggi come gli assegni familiari o eventuali sussidi. L’Isee detta la legge: più dichiari redditi e più sale; più sale e meno lo stato ti dà. Il che sarebbe anche giusto, se stessimo parlando di grandi redditi ma, come ci dice la mamma di due bambini di 3 e 5 anni, “se il mio lavoro part-time mi fa portare a casa 800 euro al mese, vuol dire che sono diventata ricca? Non credo proprio”. Asili, scuole, trasporti, sanità per sé e per i propri figli e figlie sono fonti di spesa. Dunque il dilemma, per le donne, spesso è: lavorare in nero e ricevere sussidi, o dichiarare il reddito, e doversi così far carico delle spese? In un caso e nell’altro, alla fine chi paga sono le donne, con la loro dignità, il loro lavoro e il loro futuro (quando si troveranno con una pensione da fame). 

Parlando di servizi – asili, scuola, trasporti, sanità –, la carenza è una spina nel fianco soprattutto (se non solo) delle donne. La necessità di far fronte alle esigenze della famiglia (che comprende spesso anche persone anziane non autosufficienti) è ancora fortemente un “affare” tutto femminile, secondo una cultura patriarcale che al Sud condiziona tuttora moltissimo la vita delle persone.

Anche per questo le donne accettano più facilmente contratti part-time. In molti casi non si tratta però di una scelta, ma di part-time involontario, dettato solo dalla necessità di far fronte a tutti gli altri impegni.

Oppure è semplicemente una bugia bella e buona. Ci racconta una donna con dodici anni di esperienza nel settore alberghiero: “ho sostenuto un colloquio presso un hotel a 5 stelle per una posizione di receptionist. Sono state verificate le mie competenze riguardo all’utilizzo del software gestionale, all’inglese, al comportamento nei riguardi della clientela. Poi siamo arrivati a parlare dello stipendio. Otto ore al giorno per 6 giorni la settimana; in alta stagione le otto ore diventano otto e mezza perché il passaggio di consegne al cambio di turno è certamente più complesso. Lo stipendio? 1.000 euro al mese, ma il contratto è per quattro ore al giorno. Stavo scoppiando di rabbia. Gli ho detto che avrebbero dovuto dirmelo prima del colloquio, non avrei speso i soldi della benzina per andarci. Mi è stato risposto che però l’albergo ha un ristorante con due stelle Michelin e che sarebbe stato ammesso in non so più quale lista dei grandi alberghi di lusso. Sai che soddisfazione! E a me che me ne viene? 4,80 euro l’ora. Ma fatemi il favore”. 

Quante sono le situazioni di questo genere? Tantissime. I controlli sono scarsi o, talvolta, addomesticati: in uno studio professionale una assistente ci dice: “qui siamo tutti con contratti da 8 o 12 ore a settimana perché altrimenti il dottore non ce la farebbe a pagare tutti. Così invece siamo tutti in regola”. E non ci sono controlli? “Sì, ogni paio di anni arriva l’ispettore del lavoro. Magari ci fa qualche piccola osservazione, poi il dottore gli offre un caffè”. 

Anche in questo caso non si tratta solo di punire una irregolarità, ma di capire che queste irregolarità generano disuguaglianze e penalizzano le donne ma, soprattutto, inquinano la vita economica e sociale dell’intera collettività. In termini economici significano naturalmente mancati introiti per lo stato, concorrenza sleale con le aziende oneste. In termini sociali, sono una tossina mafiosa che avvelena i comportamenti e la vita delle cittadine e dei cittadini. E distorce la realtà. 

Secondo l’elaborazione della Cgia di Mestre su dati Inps, nel 2021 il numero medio delle giornate retribuite al Nord è stato pari a 247, al Sud, invece, a 211. Pertanto, al Nord un ipotetico operaio ha lavorato 36 giorni in più rispetto a un collega meridionale. Il comunicato Cgia spiega testualmente: “Questo vuol dire che nel settentrione gli impiegati e gli operai sono degli stacanovisti e quelli del meridione degli scansafatiche? Assolutamente no. Ci mancherebbe. Anche nel Mezzogiorno si lavora molto e, probabilmente, anche di più che in altre aree del paese; purtroppo, lo si fa in nero”. E le donne lo sanno benissimo.

Sabina Izzo

7/11/2024 http://www.ingenere.it

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