Lavoro e immigrazione: lettera da un lavoratore di ritorno
Una volta apparsi i risultati del referendum – il 58% dei ticinesi si è espresso per innalzare le barriere di accesso al lavoro degli “altri” – la destra italiana si è scatenata ridicolamente contro il risultato, arrivando a chiedere all’UE sanzioni contro la Svizzera, mentre Salvini ne ha minimizzato gli effetti, affermando che gli italiani sono più qualificati degli “altri”, e quindi non verranno toccati dai possibili provvedimenti. Salvini nega che gli italiani – ma tutti gli italiani? O solo i “padani”? – possano essere i “meridionali” di qualcun altro, perché non avvenga – orrore! – un’immedesimazione subitanea con i nostri “meridionali”, che sempre meno sono italiani, e sempre più sono cinesi, rumeni, maghrebini, africani. E grida allo scandalo. Però la sua difesa è fiacca, perchè quel “prima i nostri” che riecheggia per tutta Europa rischia di colpirci davvero tutti, nessuno escluso, come dimostra la proposta agghiacciante del Ministro dell’Interno britannico, Amber Rudd, che vorrebbe obbligare le imprese a stilare vere e proprie liste di coscrizione contro i dipendenti immigrati, colpevoli di “rubare il lavoro” agli inglesi. Peccato che il lavoro siano altri a rubarlo, “figli della stessa patria”, gente dei “nostri”, imprenditori e governi compiacenti che sulle divisioni etniche à la Salvini e sulla conseguente concorrenza tra lavoratori ci marciano, dispensando in maniera naturalmente diseguale disoccupazione agli uni e sfruttamento agli altri, come dimostra questa bellissima inchiesta che intreccia i destini del distretto tessile di Dacca, in Bangladesh, con quelli del TAC salentino.
D’altronde nessuno, in questa vicenda del Ticino, si è preso la briga di dare voce ai veri protagonisti dell’emigrazione – che non sono, purtroppo, né i Salvini né i Renzi – ma siamo noi lavoratori, noi le prime vittime della disoccupazione, noi che prendiamo la sofferta decisione di partire dai nostri paesi, noi che fuori incontriamo sempre più spesso barriere e ostilità, e che proprio per questo accettiamo condizioni più misere e viviamo l’isolamento come condizione esistenziale.
Per nostra fortuna, un compagno emigrato in Francia e che ha da poco trovato lavoro in Italia, ha deciso di tornare, non prima però di indirizzarci questa breve lettera, in cui affronta in prima persona la questione dell’immigrazione (e dell’emigrazione). Lontane dai luoghi comuni dell’esterofilia – per i quali all’estero si vivrebbe sempre meglio che in patria – e della xenofobia, queste righe offrono uno spaccato degli effetti devastanti del razzismo istituzionale (fatto di barriere legislative e burocratiche), altra faccia dello sfruttamento e della selezione di classe, che condanna non solo i lavoratori, ma intere comunità alla subalternità e alla marginalità. Chi scrive lo sa bene: la soluzione al malessere non sta nell’innalzare altri muri e altre barriere, ma nel costruire un senso di appartenenza a una comunità di eguali, che lotta contro chi vorrebbe imporci condizioni misere di vita per salvaguardare i propri profitti, e sa costruire coscientemente il proprio futuro.
Per noi, fare politica vuol dire anche e soprattutto questo.
Ciao car*,
come vi sarete accorti è un po’ che manco dalle discussioni, dalle cose fattive, e dai grandi momenti come la tre giorni del festival di Je so’pazzo che tutti hanno descritto come entusiasmante, quasi fondativa e alla quale purtroppo non ho potuto partecipare. Già avevo ridotto drasticamente la mia presenza partendo per la Francia, una partenza che pure ha bisogno di una spiegazione, visto che persino io ci ho messo tanto a capire perchè sono partito.
Avevo infatti deciso di tentare i concorsi oltralpe, dove ancora assumono, farmi un po’ le ossa nella scuola francese, per poi tornare con qualche punto in più in carriera e inflilarmi con un po’ di fortuna in qualche scuola italiana. Una volta all’estero ho iniziato subito a lavorare come cuoco, a studiare francese e tutto il resto per i concorsi. E poi… E poi sono stato assalito dai dubbi. Quel senso di solitudine che si prova quando si va fuori con le radici al vento, in cerca di terra fresca – quello che, moltiplicato all’ennesima potenza prova chi viene a cercare lavoro in Italia – mi ha costretto a ripensare ai motivi che mi hanno spinto a partire. Che possono sembrare scontati: si leva l’àncora per cercare lavoro. Avevo avuto paura di non trovare sbocchi lavorativi, di dover stare dietro ai tempi del governo aspettando concorsi inesistenti, e nel frattempo di dover tornare a casa con i genitori, nel fondo della provincia italiana. Avevo temuto forte di non trovare una vita degna e pensavo, come tanti, di cercarla altrove.
Una volta trovato questo altrove, però, mi sono reso conto che un lavoro non basta. Dentro il lavoro cercavo qualcos’altro, una vita complessa, fatta di tutti i legami che ho costruito negli anni. Una vita in cui i ricordi, i simboli familiari, il senso di far parte di una comunità attiva, le mie lune e i miei falò, trovassero significati e modi di esprimersi nuovi. Ho trovato invece tanta estraneità, un razzismo istituzionale pazzesco, e un comunitarismo senza prospettiva che è la risposta di pancia che gli oppressi danno al razzismo. No, fuori non si sta meglio. In cambio di un contratto regolare e di quattro spiccioli statali, si vende la possibilità di sentirsi a casa quando si esce di casa, di costruire in comune con altri, e si diventa carne da macello pronta ad affogare nel lavoro la propria voglia di vita.
Ora capisco un po’ meglio tutti i nostri fratelli immigrati: capisco il senso di oppressione e di colpa, e l’esplosione di gioia di un senso e di una dignità ritrovati nella lotta (quello che ho provato nei cortei contro la loi travail, e quello che vedo negli occhi dei facchini della logistica nelle loro manifestazioni); capisco la forza del movimento kurdo, il quale mantiene la sua unità e il senso di appartenenza a un centro geografico e culturale, ma che al contempo comprende che quella unità è inscindibile dal rapporto con i movimenti emancipatori degli altri; capisco il valore non solo politico, ma anche esistenziale, dell’avere un progetto comune.
Sebbene continui a concepire la politica come espressione di rapporti sociali definiti e al contempo come grimaldello del mondo, che dunque richiede serietà, costanza e tanta organizzazione, mi sento di aggiungere che è questa politica che da senso al vivere in comune, che evita gli scoramenti, le partenze, che combatte il ripiegarsi su sé stessi, e quella voglia di morire, di autodistruzione “molecolare”, come direbbe Gramsci, che purtroppo negli ultimi anni ha assalito tante persone e tanti, troppi compagni.
Così qualche mese fa ho deciso che sarei tornato in Italia, magari da precario, non si sa in quale mestiere, in attesa di TFA che non arrivano, ma almeno insieme a voi.[…] Le parole di quella grande donna della Nicoletta Dosio hanno dato la spallata finale alle mie paure. Nazim Hikmet lo sapeva bene: non si può vivere come degli inquilini o dei villeggianti stagionali. Bisogna vivere saldi come nella casa del padre! E possibilmente “sfruculiare” i padroni.
Non potevo non darvi la buona novella con questa mail. Un anno politico non si conclude senza bilanci, e al bilancio di quest’anno che è passato bisogna aggiungere un compagno che è tornato tra i ranghi, ma anche tante altre persone – militanti o meno – che ci guardano e sentono che la speranza monta, che non tutto è perduto, e che il futuro non è affatto scritto.
L.
6/10/2016 http://clashcityworkers.org
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