LAVORO E…POVERTÀ
Questo articolo si concentra sul tema del lavoro povero, anche alla luce del dibattito sull’introduzione di un salario minimo legale in Italia. Dopo aver valutato le diverse prospettive – ‘individuali’ e ‘familiari’ – da cui leggere il fenomeno, si mostra, basandosi su un recente studio, quanto siano diffuse in Italia le basse retribuzioni e il ruolo cruciale dell’abnorme crescita del part-time. Queste evidenze inducono a ritenere che il salario minimo, senza altre misure, non basti a contrastare il lavoro povero.
La nostra Costituzione, come viene ricordato in questo numero del Menabò, richiede che il lavoro assicuri una vita dignitosa. Affinché questo avvenga il lavoro deve soddisfare varie condizioni e non solo quella della retribuzione adeguata. Ma certamente quest’ultima è molto importante e le recenti tendenze obbligano a prestarvi la massima attenzione. Il tema delle basse retribuzioni e del lavoro povero, della sua estensione e dei meccanismi che lo generano, si è invero imposto di recente al centro del dibattito di politica economica in Italia. Come noto, a luglio i partiti dell’opposizione (con l’eccezione di Italia Viva) hanno presentato in Parlamento un disegno di legge che mira a introdurre nel nostro ordinamento un salario minimo legale di importo pari a 9 euro l’ora. Molta discussione, anche sulla stampa, hanno poi generato nelle scorse settimane le stime – presentate nell’ultimo Rapporto Annuale INPS – sull’estensione del lavoro povero e sul ruolo dei contratti collettivi nazionali come determinanti delle basse retribuzioni.
Il tema è per sua natura divisivo e ad avvicinare le diverse parti di certo non aiuta la mancanza di una definizione condivisa di lavoro povero. Come messo in luce nella relazione della Commissione di esperti nominata nel 2021 dal ministro Orlando, la questione può essere presa in esame da due prospettive differenti, anche se non alternative. Da una parte, si può seguire una prospettiva ‘familiare’ e – come assume, ad esempio, l’indicatore europeo di IWP (in-work poverty) – si può definire lavoratore (o lavoratrice) povero chi è occupato (e percepisce una retribuzione, non necessariamente ‘da fame’) ma vive in un nucleo in condizioni di povertà sulla base del reddito annuo familiare (da lavoro o da altre fonti). Dall’altra, il lavoro povero può essere indagato su base ‘individuale’, sovrapponendo il concetto di working poor alle basse retribuzioni (e qui diventa poi cruciale capire a quale retribuzione ci si riferisca, in primis se annuale, settimanale o oraria), in base all’assunto che una persona debba ricevere dal lavoro un ammontare di per sé sufficiente per una vita dignitosa, senza che si prendano, dunque, in considerazioni possibili altri redditi dell’individuo o dei componenti del suo nucleo familiare.
La prospettiva scelta ha chiare implicazioni sulla strategia di policy da seguire per contrastare il fenomeno. Se si segue un’ottica familiare, il lavoro povero dipende, in primo luogo, dalla bassa ‘work intensity’ all’interno del nucleo (cfr. Barbieri, Cutuli e Scherer; Stato e Mercato 2018 ) – nel caso italiano, principalmente dalla limitata partecipazione lavorativa delle donne appartenenti ai nuclei meno abbienti –, oltre che, più in generale, dall’inefficacia di trasferimenti di welfare destinati a nuclei composti da individui in età attiva. In altri termini, la risposta – implicitamente seguita da molte delle riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite in Italia negli ultimi 30 anni – può essere fornita dall’aumentare la quantità di lavoro offerto – sia rispetto al margine estensivo (lavoro/non lavoro) che a quello intensivo (quante ore o settimane lavoro) – senza porre però sufficiente attenzione sull’adeguatezza (finanche sulla dignità) dell’occupazione e del contratto che si ottengono e sul salario che si riceve. Guardare solo al reddito familiare genera peraltro esiti paradossali. Ad essere working poor sono infatti più spesso gli uomini delle donne – in Italia nel 2022 l’in-work poverty rate era del 13,2% fra gli uomini e del 9,3% fra le donne – nonostante queste, come noto, siano tutt’ora penalizzate da ampi gender pay gap. Nel nostro paese, infatti, sono ancora molto diffusi i nuclei con un unico percettore uomo il cui reddito deve sostenere tutti i familiari, mentre le donne, quando lavorano, sono nella maggioranza dei casi seconde percettrici di salari. Ma basta allora un approccio che nell’indagare una grave patologia del mercato del lavoro rischia di perdere completamente di vista come gli individui sono trattati in tale mercato? In altri termini, basta una prospettiva che potrebbe indurre a suggerire risposte di policy di breve respiro che, in cambio di un qualche aumento dell’occupazione (anche se non necessariamente delle ore complessivamente lavorate), possono contribuire a un’ulteriore svalutazione del fattore lavoro?
Queste problematiche ci inducono a ritenere l’approccio individuale – ovvero guardare agli esiti raggiunti nel mercato del lavoro dai singoli individui – almeno altrettanto importante di quello familiare nel momento in cui obiettivo primario è indagare quanto il lavoro consenta condizioni di vita dignitose. In base alla prospettiva individuale, in cui non ci si sofferma su altri redditi (di mercato o da trasferimento) del lavoratore/lavoratrice e dei suoi familiari, le variabili di policy diventano i fattori da cui dipendono le retribuzioni e, dunque, la produttività delle imprese, i meccanismi della contrattazione, le istituzioni e le regole del mercato del lavoro, incluse quelle che influiscono sulla distribuzione delle diverse forme contrattuali.
Ma nel guardare ai redditi da lavoro individuali spesso si sottovaluta – o, meglio, non si pone un’adeguata attenzione, anche su un piano concettuale – quale sia la dimensione retributiva da prendere a riferimento per valutare l’estensione della working poverty o, più correttamente, per evitare fraintendimenti con il concetto di povertà che è sempre osservato a livello familiare, del low pay. Se l’obiettivo è valutare quanto il lavoro consenta un tenore di vita dignitoso, indipendentemente da ogni altra condizione, non ci si può infatti limitare a osservare il livello del salario orario (variabile tanto cara agli economisti perché ritenuta, in mercati perfetti, proxy della produttività). Per valutare il tenore di vita di lavoratori e lavoratrici bisogna ampliare l’orizzonte temporale guardando, quantomeno, alla retribuzione mensile o, meglio ancora, al reddito da lavoro complessivamente ricevuto (non necessariamente da un unico rapporto di lavoro) nell’anno. E la retribuzione annua non dipende, ovviamente, solo dalla paga oraria dato che fattori altrettanto (se non più) importanti sono il numero delle ore che abitualmente si lavora in una settimana – legato all’estensione del part-time – e il numero delle settimane di occupazione in un anno – influenzato dall’intermittenza e dalla frammentazione contrattuale. Pertanto, in quest’ottica, non si può indagare il problema dell’estensione delle basse retribuzioni guardando unicamente al livello dei minimi tabellari orari stabiliti dai contratti collettivi nazionali, così come, in chiave di policy, affidandosi unicamente all’introduzione di un salario minimo legale che, come noto, vincola solo la paga oraria.
I salari orari non offrono, dunque, un quadro esaustivo su cosa è il low pay. Tuttavia, è fondamentale guardare a cosa succede alle retribuzioni quando da quelle annuali si passa alle settimanali e a quelle orarie per capire le determinanti delle basse retribuzioni e, in chiave di policy, per capire se la sola fissazione di un minimo adeguato sia sufficiente ad avversare il fenomeno del lavoro povero o se, al contempo, occorra prevedere anche una strategia di contrasto alla proliferazione di forme contrattuali atipiche e alla diffusione del part-time involontario.
Un recente lavoro di Bavaro e Raitano segue quest’ottica per provare a fare chiarezza su livello e dinamica delle basse retribuzioni in Italia fra il 1990 e il 2018. Utilizzando un ampio campione di dati amministrativi di fonte INPS-LOSAI per i dipendenti del settore privato (con l’esclusione di lavoratori agricoli e domestici), e facendo uso di soglie di tipo relativo – pari al 60% della retribuzione mediana annua – e di tipo assoluto – ottenuta riproporzionando un salario orario lordo pari a 9 euro –, gli autori studiano l’incidenza del low pay in base alle retribuzioni annue, settimanali e settimanali per unità di lavoro full-time equivalent (ovvero, riproporzionando il numero di settimane lavorate nell’anno dai part-timers sulla base della percentuale di riduzione dell’orario di lavoro), laddove quest’ultima rappresenta la miglior proxy a disposizione del salario orario.
Dal lavoro si desume, in primo luogo, come nel periodo osservato il settore privato italiano sia stato caratterizzato da rilevanti cambiamenti strutturali. Fra questi: la crescita del numero di persone con un rapporto di lavoro nell’anno, verificatasi soprattutto fra la metà degli anni ’90 e l’inizio del XX secolo (che potrebbe influenzare l’incidenza del low pay, laddove si ritenga che i ‘lavoratori aggiuntivi’ siano ‘marginali’ e meno produttivi, o, quantomeno, che il nostro mercato del lavoro non sia in grado di offrire condizioni contrattuali e salariali adeguate a un numero crescente di individui) e, soprattutto, la crescita abnorme del lavoro non standard, soprattutto part-time.
Guardando al periodo lavorativo più retribuito nell’anno (essendo cresciuto anche il numero di rapporti di lavoro multipli), la quota di dipendenti occupata con un contratto a termine è infatti aumentata dal 12,1 al 27,3% fra il 1998 e il 2018 e quella dei part-timers addirittura dal 4,1 al 30,2% fra il 1990 e il 2018. Il tema del part-time va trattato con cautela. Da una parte, la sua crescita potrebbe nascondere un maggior ricorso da parte delle imprese al ‘lavoro grigio’ con ore ‘fuori-busta’ a compensare le minori ore contrattuali. A conferma di ciò, la quota di part-time rilevata nelle survey sui lavoratori (che rispondono sulla base delle ore di lavoro effettivo) risulta inferiore a quella registrata dai dati amministrativi (circa il 18% nella Rilevazione delle Forze Lavoro dell’Istat). Il fuori-busta – fenomeno illegale e che spesso si accompagna a remunerazioni aggiuntive molto limitate – può migliorare il reddito complessivo dei lavoratori, ma, come sperimentato durante la pandemia, ha gravi conseguenze sulle loro tutele del welfare, che dipendono dai contributi versati e, dunque, dai salari registrati. Dall’altra parte, il lavoro a tempo parziale potrebbe dipendere da preferenze, ad esempio di chi gode di fonti aggiuntive di reddito. Il problema è, però, che le indagini mostrano un livello molto alto e crescente del part-time involontario nel nostro paese: i dati dell’indagine Eurostat sulle forze di lavoro, riferiti all’intero lavoro dipendente (e, quindi, anche al settore pubblico dove il part-time è frequentemente scelto volontariamente per conciliare carichi familiari e lavoro), la quota di part-timers ‘involontari’ era del 65,7% nel 2018 in Italia (80,3% tra gli uomini e 60,8% tra le donne), un valore drammaticamente superiore a quello registrato nell’area dell’euro (27,8%) e molto più alto di quello (39,2%) che caratterizzava l’Italia nel 1990, quando il part-time era molto meno diffuso. Pertanto, la riduzione delle ore lavorate per un’ampia quota di occupati associata alla maggiore diffusione dei contratti part-time non appare affatto legata a una scelta volontaria degli individui con, verosimilmente, ulteriori risorse familiari adeguate, ma emerge come una condizione limitante subita da individui (uomini e donne) che vorrebbero lavorare e guadagnare di più.
In questo quadro, i risultati raggiunti da Bavaro e Raitano sono molto preoccupanti: la quota di individui con retribuzioni annue lorde inferiori al 60% di quella mediana (un valore reale intorno agli 11.500 euro annui) è cresciuta dal 26,7% al 31,1% nel periodo 1990-2018 e, nello stesso periodo, quella con retribuzioni inferiori a quelle conseguite da chi lavorasse continuativamente con una paga oraria di 9 euro (che restituisce una retribuzione annua di circa 17.800 euro) è aumentata dal 39,2 al 46,4%.
La quota di low-paid workers si riduce se si guarda alle retribuzioni settimanali, a segnale che parte del fenomeno è spiegata dalle poche settimane lavorate da molti, ma la dinamica dell’incidenza del low pay rimane molto accentuata anche se si guarda a questa dimensione. Una dinamica costante emerge invece quando le basse retribuzioni vengono valutate in base alle retribuzioni settimanali full-time equivalent, segnalando che il ruolo principale nella tendenza alla crescita delle basse retribuzioni è stato svolto negli scorsi decenni dalla riduzione del numero di ore lavorate dagli individui meno pagati a causa della diffusione sempre maggiore dei contratti a tempo parziale. Ciononostante, la quota di lavoratori e lavoratrici che percepiscono salari ‘unitari’ bassi è rilevante anche quando ci si concentra sui salari full-time equivalent: l’incidenza del low pay era del 6,9% nel 2018 con riferimento alla soglia del 60% della mediana e del 19,8% quando la linea dei bassi salari viene resa equivalente a un salario lordo di 9 euro l’ora, la soglia considerata ‘di dignità’ nell’attuale dibattito sul salario minimo.
Una quota elevata e crescente di lavoratori rimane poi nel low pay per molti anni. I rischi di ricevere basse retribuzioni e di rimanervi intrappolati si differenziano in base alle caratteristiche dei lavoratori e delle imprese, e, come atteso, sono più elevati per le donne, per i più giovani, per chi vive al Sud, per gli assunti con contratti atipici e per chi lavora in piccole imprese e in settori come l’edilizia e il turismo.
Questi risultati possono portare informazioni molto utili nell’attuale dibattito polarizzato sul salario minimo, che si concentra sulla definizione di un tetto vincolante per la retribuzione oraria, trascurando le questioni legate alla quantità di lavoro e, soprattutto, al drammatico aumento del part-time involontario, in tutta probabilità la principale determinante delle attuali tendenze del low pay nel nostro paese.
Tornando al tema della vita dignitosa grazie al lavoro di cui parla la Costituzione i risultati qui ricordati suggeriscono almeno due riflessioni; la prima è che la dignità non sembra soddisfatta se il proprio reddito da lavoro è da fame ma non si è poveri grazie alla famiglia; la seconda che con la dignità sembra entrarci poco la considerazione del solo salario orario. Guardare alla dignità del lavoro senza perdersi in tecnicismi può dunque arricchire il dibattito sul lavoro povero.
In base a questa prospettiva, un aumento dei minimi – da realizzarsi attraverso l’introduzione del salario minimo legale o il rafforzamento del potere contrattuale dei sindacati – appare una condizione necessaria per migliorare gli standard di vita dei lavoratori a bassa retribuzione. Ma, il salario minimo da solo non basta, se non si predispone una strategia esaustiva atta, in primo luogo, ad accrescere la quantità di lavoro che gli individui riescono a prestare in un anno e, più in generale, a realizzare efficaci misure predistributive che influiscano sui risultati del mercato del lavoro (cfr. Franzini, 2022), di concerto con misure redistributive efficaci e con politiche macroeconomiche e industriali volte a migliorare la “qualità” della domanda di lavoro. Senza rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori e dei sindacati si potrebbe invece correre il rischio concreto che le imprese compensino i costi legati all’introduzione di un salario minimo riducendo il numero di ore (quantomeno formalmente) lavorate dai dipendenti. La lotta ai bassi salari non può quindi basarsi su un unico strumento come il salario minimo, per quanto questo sia rilevante e assuma anche una valenza simbolica.
30/9/2023 https://eticaeconomia.it/
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