Lavoro. Maledetto lavoro #3. Manovre di guerra

Non è una novità che la guerra si imponga con la propria forza e la propria logica sulle possibilità e le forme della lotta tra capitale e lavoro. Non deve sorprendere allora che questa guerra, i cui effetti sono stati da subito mondiali e di cui vediamo moltiplicarsi le linee del fronte, stia contribuendo a redigere di suo pugno i bilanci degli stati, impegnati, ciascuno secondo le sue capacità, a rinsaldare quel comando sul sociale che la guerra legittima e di cui ha bisogno. Chi pensa che si stia attribuendo alla guerra un ruolo eccessivamente centrale può leggere le affermazioni del ministro Crosetto, capo stratega in carica, che all’indomani dell’annuncio dell’impegno italiano nel Mar Rosso, ha dichiarato che «senza la difesa non c’è né libera istruzione né libero commercio né democrazia». Un bel bagno di realtà per chi si illudeva ancora di vivere sotto una costituzione sociale e pacifista. E allora, armiamoci e partite!, senza neanche imporre al governo di passare dal parlamento perché, come continua il ministro della guerra: «tutto deve essere trasformato, comprese le regole, anche quelle sui poteri del mio ministero».

Oltre al teatro militare, c’è però un palcoscenico che rischia di rimanere nell’ombra, soffocato dalle litanie italiane sull’unità nazionale e sugli accordi geopolitici. La legge di bilancio, varata durante le festività, è quasi passata in sordina, eppure ci mostra come la guerra si faccia, prima ancora che con ambasciatori ed eserciti, per mezzo del sacrificio di milioni di lavoratrici e lavoratori richiamati all’ordine di una patria con pochi capitali e di un capitale senza patria. Già guardando alla ripartizione delle spese tra i vari ministeri non può sfuggire che rispetto allo scorso anno a crescere di più sono gli stanziamenti per il Ministero del lavoro e delle politiche sociali (+12%), insieme a quelli per Ministero degli affari esteri (+7%) e per il Ministero della difesa (+5%). Una buona notizia? In parte sì, ma bisogna capire bene a che prezzo. Per una fascia di lavoratrici e lavoratori che hanno visto il proprio salario falcidiato dall’inflazione ci sarà in effetti qualche soldo in più in busta paga. Infatti, la voce di spesa maggiore di quella che dovrebbe essere l’ultima manovra “espansiva” prima del rientro in vigore del patto di stabilità europeo riguarda il taglio del cuneo contributivo e la conferma dell’accorpamento degli scaglioni IRPEF. Una mossa che dovrebbe portare tra i 60 e i 90 euro in più al mese in busta paga per i redditi fino a 35 mila euro annui, ma che evidentemente non modificherà le sorti di salari stagnanti ormai da decenni. Il tentativo del governo Meloni di compattare una propria base sociale nel mezzo dello sforzo bellico con piccoli aumenti salariali non viene però senza dei costi. Costi che, banalmente, finiscono per ricadere proprio sulle spalle del lavoro salariato nella forma di una riduzione degli oneri dello Stato e di welfare pubblico. Innanzitutto, trattandosi di contributi previdenziali non versati, presto o tardi l’INPS dovrà presentarci il conto così che ci troveremo davanti all’infelice alternativa tra pagare maggiori tasse o rinunciare alla pensione. In secondo luogo, bisogna notare che proprio sulle pensioni si è cercato di far cassa per una manovra pur sempre in deficit, rendendo più svantaggiosi gli anticipi pensionistici (Quota 103, Opzione donna e Ape sociale) e alzandone i requisiti, colpendo così i lavoratori più poveri e in particolar modo le donne.

Una legge di bilancio in un’economia di guerra non può far altro che elargire piccoli favori a padroni e padroncini, ricordando a tutti che si è al mondo per lavorare. Mentre si taglia su ambiente (-83%) e sanità (-28%), aumentano però gli incentivi alle aziende per l’assunzione di giovani, donne e categorie svantaggiate, tra le quali figurano i percettori dell’Assegno di inclusione e del Supporto formazione e lavoro, gli eredi dell’odiatissimo Reddito di cittadinanza. Come se assumere fosse un merito e non trovare lavoro una colpa. Alla frammentazione delle prestazioni sociali che aveva visto nel Decreto Lavoro il suo ultimo sviluppo non può infatti che corrispondere il comando all’unità sul lavoro. E allora, si fa largo la detassazione dei premi produttività e dei fringe benefits, del lavoro notturno e dei festivi, perché ogni quota di salario deve passare dalla sempre maggiore disponibilità a lavorare.

Questo è tanto più vero per le donne, oggetto di particolare attenzione di questa manovra ma solo nella misura in cui vengono ideologicamente accostate al ruolo di madri, secondo l’odioso adagio della conciliazione casa-lavoro. Infatti, il miliardo di euro assegnato alla voce “famiglia e natalità” schiera una serie di misure che sembrano semplici bandierine della battaglia di questo governo contro la denatalità o piuttosto, dovremmo dire, contro la libertà delle donne: dall’assegno unico per i figli (già in vigore ma riparametrato) al congedo parentale (aumentato all’80% ma solo per un mese), dal bonus asilo nido al bonus baby-sitting. C’è poi la decontribuzione totale per madri lavoratrici, che però riguarda solo donne assunte a tempo indeterminato con almeno tre figli e, in via sperimentale per un anno, con due figli di cui almeno uno di età inferiore a dieci anni. Una platea che dovrebbe riguardare rispettivamente 111 mila e 571 mila unità per il settore privato, per una somma che arriverebbe a 1700 euro annui per redditi di 27.500 euro lordi. Si tratta insomma di un beneficio per poche, che mostra però tutta la natura patriarcale di una manovra ideologica che ambisce a far passare il messaggio che in tempi di guerra ciascuno deve stare al suo posto, rinsaldando la famiglia e il luogo di lavoro come istituzioni d’ordine di una società attraversata da differenze e contraddizioni che non smettono di agitarsi.

Lo sanno bene le donne migranti, in buona parte escluse da questi benefici che, appositamente, non riguardano il “lavoro domestico”. Un settore che, peraltro, grazie a questa manovra viene messo sotto il mirino del controllo incrociato dell’INPS e dell’Agenzia delle entrate con la scusa della lotta all’evasione fiscale. Questo proprio mentre vengono stanziati invece 274 milioni di euro per il Fondo per la protezione temporanea delle persone in fuga dalla guerra all’Ucraina, perché solo la guerra può eccezionalmente motivare il trattamento “speciale” per alcuni, confermando il sistematico sfruttamento dei molti che non hanno la pelle bianca. Così, quasi non fa scalpore che nel tentativo di rimpinguare i bilanci e un debito fuori controllo, su cui già prontamente hanno puntato il dito i solerti funzionari dell’OCSE, si faccia cassa (si fa per dire) sul contributo per l’iscrizione volontaria al Sistema sanitario nazionale, portandolo da 149 a 700 euro per i migranti con permesso di soggiorno per studio. Il razzismo, agito e sbandierato, si presenta così come l’ultimo ingrediente fondamentale di una legge di bilancio scritta in un’economia di guerra, una manovra che ancora una volta mostra come la prima chiamata alle armi e al sacrificio valga sempre e innanzitutto per il lavoro vivo. Lavoro. Maledetto lavoro!

https://www.connessioniprecarie.org/

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *