Lavoro: qual è il modello verso il quale il capitale odierno intende avviarsi?
Questa premessa intende rilevare alcuni effetti della politica del lavoro nell’Eurozona (19 paesi nel 2015) e in particolare in Italia, in considerazione del processo di mercificazione del lavoro vivo in corso. Seguono poi undici articoli che esaminano in modo circostanziato aspetti cruciali del regime del salario e delle sue tendenze in Italia. Questa premessa vuole limitarsi a offrire qualche coordinata per rammentare che il fenomeno di frammentazione della forza-lavoro è in realtà una serie di tentativi che procedono da tempo e che vanno di pari passo con più aggressivi esperimenti in altri continenti e in particolare nell’Asia orientale1. Dunque, nell’Eurozona vanno sostenute quelle forze che si oppongono ai disegni dell’odierno capitale industriale e dei servizi e che sono motivate a non cedere terreno.
Le politiche adottate negli scorsi 35 anni nell’UE hanno mirato e mirano a deteriorare i salari e di conseguenza le condizioni di lavoro. L’onda lunga della casualizzazione del lavoro salariato si era sollevata già alla fine degli anni 1970 negli Stati Uniti con la politica antinflazionistica di Paul Volcker alla guida della Federal Reserve (agosto 1979) e il conseguente aumento della disoccupazione oltre il 10% nel 1981. L’onda è ben lontana dal placarsi. Di solito, l’abbassamento dei livelli di occupazione prepara l’attacco alla busta-paga. Nell’Eurozona la crisi dell’occupazione ha comportato una continua pressione sulla massa salariale che poi si è aggravata con il rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro. Nell’ultimo quadriennio (2008-2011) degli otto anni di direzione di Jean-Claude Trichet alla Banca centrale europea (BCE) il numero dei disoccupati è schizzato nell’Eurozona, fino a raggiungere la cifra da primato di 19 milioni nel 2012 (più dell’11% delle forze di lavoro), poco dopo l’uscita di scena del banchiere francese; né si vedono segni di significativa flessione del fenomeno nello scorso triennio.
Molti commentatori sono del parere che la BCE sia stata mal consigliata dalla Bundesbank e che abbia commesso «errori» madornali di gestione. A loro dire, il principale errore sarebbe consistito nel rafforzamento dell’euro nei confronti del dollaro a causa di una cieca adesione della Bundesbank al dogma della lotta all’inflazione. Tuttavia può darsi che il dogma della lotta all’inflazione abbia un peso non superiore al doveroso aiuto congiunturale offerto dall’UE al sofferente capitale statunitense. Una delle forme più importanti di tale aiuto è consistita nel rafforzamento dell’euro rispetto al dollaro e nella conseguente grave crisi delle esportazioni di alcuni paesi dell’Eurozona, in particolare di quelli dell’Europa meridionale. Qui basta rammentare che nella fase di massima onda sismica del sistema finanziario statunitense (tra l’aprile e il luglio del 2008) il dollaro veniva scambiato a più di 1,50 contro l’euro, nel tripudio dei telegiornali e dei gazzettieri eurocontinentali che inneggiavano all’«Europa forte» e alla «locomotiva Germania». In altri termini, l’euro forte costituiva un forte balzello prelevato sul monte-salari dell’Eurozona e, al tempo stesso, una dose di ossigeno per le grandi banche e assicurazioni dopo la crisi scatenata dai crolli bancari negli Usa. Al brusco prelievo dall’Eurozona in nome dell’atlantismo si aggiungeva la beffa della grande stampa finanziaria anglosassone, secondo la quale occorreva mettere in riga non le grandi istituzioni finanziarie salvate con la socializzazione internazionale delle loro perdite, bensì i salari dell’Europa meridionale. Inoltre, gli investimenti diretti all’estero dei capitali industriali dell’Eurozona ci mettevano del loro nella decurtazione del monte-salari, approdando in gran numero – e mai in ordine sparso – nell’Asia orientale e nell’Europa orientale.
Si può constatare che in primo luogo la lotta all’inflazione porta regolarmente acqua al mulino dei detentori dei capitali e delle rendite e che a parità di altre condizioni si avvale di misure che generalmente intaccano l’occupazione, in particolare quando alla capacità di mobilitazione in difesa delle condizioni di vita e di lavoro si contrappongono tutte le leve del potere statale e mediatico, mentre quello che resta di larga parte delle organizzazioni sindacali generalmente si accoda. In secondo luogo, le misure che contrastano l’inflazione finiscono poi per comprimere i salari, in particolare i salari bassi e precari. Persino il salario minimo orario è destinato a significare ben poco per chi lavora in modo intermittente. Nel regolare l’occupazione e i salari nell’Europa continentale eccelleva il Partito socialdemocratico tedesco. Con la sua cosiddetta Agenda 2010 il primo governo (1998-2002) del socialdemocratico Schröder (cancelliere dal 1998 al 2005) compiva un duro lavoro: tagli alla previdenza sociale, ossia al sistema sanitario, all’assegno di disoccupazione, alle pensioni, irrigidimento delle regole nei confronti di quanti cercano lavoro: salari passabili nei settori ad alta produttività, pochi euro all’ora per gli altri, in parte stranieri e straniere e in parte pure tedeschi e tedesche. Anche se il Partito socialdemocratico ha pagato tale operazione con le sconfitte elettorali a partire dal 2005, di fatto l’erculeo Schröder ha acquisito benemerenze imperiture presso i partiti conservatori di Germania ai quali, una volta arrivati al governo, è poi rimasto il più facile compito di passare con lo strofinaccio sul «mercato del lavoro». A Schröder il padronato internazionale ha poi mostrato la sua gratitudine perdonando in men che non si dica i giri di valzer con Putin e i lauti proventi lucrati grazie all’operazione Northstream, che porta il gas dalla Russia alla Germania attraverso il mare del Nord, evitando la Polonia.
In realtà i socialdemocratici tedeschi hanno fatto scuola, dimostrando agli altri governi delle più svariate gradazioni nell’Eurozona, compresi i governi italiani, che la compressione salariale è possibile a condizione di procedere con cautela e di cominciare a operare i tagli dagli strati più deboli. Questa è vecchia e sordida politica europea. Quando nel 1931 Pierre Laval, allora primo ministro francese (e futuro primo ministro filonazista del regime di Vichy), andava dicendo che la Grande Depressione non toccava la Francia sottintendeva che, con il benevolo concorso dei poteri pubblici e privati, la crisi stava già ricadendo sulle spalle degli immigrati e di quei francesi che non disponevano di strumenti politici per contrastare il deterioramento sociale. Oggi non c’è più il Laval del 1931 ma ci sono i disoccupatori e i precarizzatori dell’Eurozona su commissariamento di Bruxelles. In breve, pare che sia diventato decente che quanti siedono al comando nell’Eurozona si mostrino affranti dalla disoccupazione e dalla precarizzazione, molto meno affranti dai profughi.
La cifra cruciale di questa «preoccupazione» ha un nome e si chiama NAWRU (Non-Accelerating Wage Rate of Unemployment), il tasso di disoccupazione (e precarizzazione) tale da non generare pressioni salariali. Questo potere di contenimento delle cosiddette spinte inflative attraverso la disoccupazione e la precarizzazione è in realtà l’imbrigliamento dei salari, con il loro spostamento progressivo nell’area del lavoro precario. Annualmente la Commissione europea appioppa a ogni Paese un suo NAWRU, ossia un tasso di disoccupazione tale da non generare aumenti salariali: per il 2015 il NAWRU ha varcato la soglia del 10% per l’Italia, è salito al 25% per la Spagna, all’11% per la Francia ed è sceso al 5% per la Germania. Al fine di assicurare una certa tranquillità ai poteri finanziari, la Commissione fissa il NAWRU sempre più in alto per i Paesi «a rischio», arrogandosi un potere predittivo che nessuna istituzione le ha concesso. Nell’ovattato, generale riserbo sull’argomento spicca il ritegno della BCE, un’elegante autocensura nei confronti dei massimi sostenitori del NAWRU che si annidano tra le aquile del cancellierato e della Bundesbank.
Fin dagli anni 1990 la struttura di potere in Italia ha cercato con alterne vicende di seguire la ricetta praticata prima da Reagan e Thatcher e poi applicata più prudentemente dai socialdemocratici tedeschi. Il ritmo di applicazione della ricetta è venuto accelerando negli anni recenti. In realtà, le grandi manovre italiane erano cominciate già nel 1992, erano proseguite sia con il piano di riduzione delle pensioni attraverso la conversione del sistema retributivo nel sistema contributivo (governo Dini, 1995) sia con una prima prova 11 sul mercato del lavoro (governo Prodi, 1996). Sulla scia del governo Schröder, in Italia le grandi manovre avevano ripreso vigore con la vittoria della destra al governo (governo Berlusconi, 2001-2006). La destra si era esposta nel 2002 decidendo di aggredire lo Statuto dei lavoratori e in particolare di abrogare l’articolo 18 che vietava il licenziamento senza giusta causa. Seguivano gli inevitabili sorrisi dei socialdemocratici tedeschi che sanno fare più cautamente e meglio. Le manifestazioni di milioni di oppositori in tutta Italia nel marzo 2002 mettevano in quarantena l’attacco frontale all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ma non mettevano fine alle macchinazioni revansciste del padronato. In altri termini, la strategia della famosa «cauta prudenza» che l’Uomo di Arcore aveva adottato per sventare i controlli contro l’evasione fiscale del suo elettorato (primo governo Berlusconi, 1994-95) non valeva nei confronti dello Statuto dei lavoratori. La sconfitta del 2002 è risultata bruciante ma non definitiva. Prima sono stati rimessi insieme i cocci e poi sono stati chiamati a raccolta i poteri economici, politici e mediatici, i quali nell’arco di una dozzina d’anni hanno ridotto l’articolo 18 a un guscio vuoto fino alla sua abolizione (2014).
Lo stillicidio di misure e ancor più di pratiche quotidiane contro la forza-lavoro ha deteriorato non soltanto le condizioni ma anche i rapporti di lavoro tra compagni/e di lavoro, desocializzando ambienti dove in precedenza la solidarietà aveva a lungo prevalso, nonostante il clima di crisi. Inoltre, la frustrazione che ne è seguita si è ritorta ulteriormente contro il sindacato, dissolvendo diffusamente i legami che si erano già indeboliti fin dagli anni 1980, ossia da quando il sindacato aveva cercato di pilotare a favore dei suoi fedelissimi le liste degli ammessi e degli esclusi dalla cassaintegrazione. La posta in gioco diventava dunque il monopolio delle decisioni riguardanti le maestranze. Il datore di lavoro andava riprendendosi il diritto assoluto di assumere e licenziare. La parentesi della più che quarantennale limitazione all’arbitrio del licenziamento grazie all’articolo 18 volgeva al termine, cancellata dalla insindacabilità del licenziamento. Esclusa così di fatto la magistratura da gran parte delle decisioni in materia, rimane la monetizzazione del licenziamento a mezzo di una semplice indennità pecuniaria. Per un’azienda in Italia un normale licenziamento può essere trattato poco più che come una questione di voucher.
Domandiamoci: qual è il modello verso il quale il capitale odierno, in Europa come altrove, intende avviarsi? Semplificando, il modello è quello del lavoro migrante: in breve, scarsi diritti civili, precarietà lavorativa e abitativa, difficoltà e addirittura impossibilità di trasmettere la vita per chi percepisce i salari da lavoro migrante. L’esercizio di quel che resta dei diritti politici e sindacali è messo in naftalina, la perdita del posto di lavoro è deciso su di un pezzo di carta padronale, e – contrariamente a gran parte della schiavitù moderna – il diritto di trasmettere la vita è rimandato a tempi migliori – e di fatto negato ai molti che hanno perso la speranza di ottenere un salario adeguato a mantenere la prole. Oggi in Italia i grandi mezzi di comunicazione nazionali gongolano per la previsione della produzione di 650mila auto all’anno. Pochi notano che le nascite sono scese ben al di sotto di tale cifra: 509mila nel 2014, la più bassa natalità dall’unità d’Italia. Il saldo naturale della popolazione del 2014 è negativo (meno 100mila unità), cifra del biennio di guerra 1917-18. Si tratta di una tendenza internazionale che trova il suo centro in Cina e nel suo regime di fabbrica-dormitorio2 ma che va estendendosi per varie cause – tra cui le forme della precarietà del lavoro e dei regimi lavorativi – in molti paesi industrializzati e in via d’industrializzazione. Al fondo della compressione della forza-lavoro e della sua precarietà è in gioco il diritto alla generatività, il diritto alla vita e alla trasmissione della vita.
Ferruccio Gambino
16/10/2015 Fonte: connessioni precarie
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