Le diseguaglianze crescono in Europa: l’Italia va anche peggio
Una ricerca del Centro Per le Opportunità e l’Uguaglianza (COPE) dell’OECD, Understanding the socio-economic divide in Europe, ha analizzato l’andamento della disuguaglianza nei vari paesi dell’Europa. La ricerca ha carattere prevalentemente statistico e quindi presenta pregi e difetti di approcci simili, i quali presentano il limite principale di attestarsi poco oltre la pura constatazione dell’andamento dei fenomeni, non andando quindi a fondo sulle relative cause. Tuttavia, ecco il pregio, forniscono informazioni indispensabili per le analisi della fase.
Come ormai è abbastanza noto, il metro prevalentemente usato per “misurare” le diseguaglianze è l’Indice Gini, che sonda il grado di concentrazione di un fenomeno, per esempio il reddito pro-capite o la ricchezza pro-capite. La massima diseguaglianza, ovviamente, si ha quando tutta la ricchezza esistente è concentrata su un unico soggetto. In tal caso l’indice assume il valore di 1 o, che fa lo stesso, del 100%. All’estremo opposto, si ha la massima equità se tutti i soggetti dispongono di pari ricchezza, senza differenza alcuna: In tal caso l’indice assume valore zero. Quindi più aumenta il suo valore e maggiore è la disparità. È abbastanza frequente che un’indagine sulle diseguaglianze cominci col rendere conto di tale indicatore. Quella dell’OECD ci dice che esso è passato, per l’intera Europa e con riferimento al reddito pro-capite, dallo 0.28 degli anni ‘80 a 0,30 del 2014.
Il rapporto non riporta invece l’indice Gini riferito alla ricchezza, ma sappiamo da altre ricerche sul campo che le disparità in termini di ricchezza sono ancora maggiori e hanno teso in genere a peggiorare in maniera ancora più accentuata. Si è registrato quindi, con l’affermazione delle politiche liberiste, un aggravamento delle disparità, invertendo il trend opposto che aveva caratterizzato l’andamento successivo al secondo conflitto mondiale e fino agli anni ‘70. L’Italia, che negli anni ‘80, con il suo 0,29 era vicina nella media europea, ha peggiorato ancora di più le ingiustizie, balzando nel 2014 a oltre lo 0,32. La cosa è ancor più grave di quello che ci dice questo solo dato, in quanto il nostro paese negli anni ha avuto anche una perdita di reddito superiore alla media dei paesi europei e quindi le condizioni delle classi svantaggiate devono essere peggiorate notevolmente quando di una torta divenuta più piccola si può prelevare solo uno spicchio rimpicciolito. Questa facile supposizione è confermata dall’andamento del reddito disponibile per il 10 per cento della popolazione avente un reddito inferiore, per il 10 per cento di quella più ricca e per l’80% della popolazione che invece sta nel mezzo, nel periodo dal 2007 al 2014. Se in Europa i più poveri si sono visti ridurre il reddito disponibile del 2%, contro una sostanziale stabilità dei redditi del 10 per cento più ricco e di chi sta in mezzo, in Italia i più poveri hanno perso il 16 per cento contro il 5 dei più ricchi e il 6,5 di chi sta in mezzo. Peggio dell’Italia hanno fatto solo Grecia, Irlanda, Lettonia e Spagna.
Peccato che i dati sulla ricchezza invece vengono organizzati con criteri diversi e non confrontabili con quelli sul reddito. Ora, la classe [1] dei più poveri è definita come il 40 per cento di coloro che posseggono meno ricchezze, quella più ricca come il 10 per cento dei maggiori possidenti, mentre in mezzo ci sta un 50 per cento di popolazione. Di queste classi ci viene fornito solo il dato 2010. Ogni confronto è impossibile. In Italia il 10 per cento dei più ricchi possiede il 55% della ricchezza totale, il 50 per cento di chi sta in mezzo, detiene circa il 41 per cento della ricchezza e il 40 per cento dei più poveri appena il 4% della ricchezza. Questi dati non differiscono molto dalla media europea.
I ricercatori non si limitano a valutare il reddito e la ricchezza, ma analizzano anche il mercato del lavoro e altri elementi, come per esempio le differenze di genere, che possono testimoniare l’esistenza di disuguaglianze. La debole ripresa del mercato del lavoro dopo la crisi, per esempio non riesce a ripristinare il dato degli occupati antecedente al 2007. Nell’area euro, mentre nel pieno della crisi eravamo a quasi due punti e mezzo al di sotto della situazione pre-crisi, rimane ancora da recuperare almeno 1,4 punti nel quarto trimestre 2015 per pareggiare il conto. Anche su questo terreno, l’Italia è più indietro: eravamo a meno 2,6 all’apice della crisi e siamo ancora a meno 2,4.
La disparità di genere, pur essendosi ridotta negli ultimi 20 anni, rimane troppo elevata. Il divario tra l’occupazione maschile e quella femminile nell’UE si è dimezzato tra il 1992 e il 2014, passando dal 21,6% a poco meno del 10%, ma rimane superiore al 16% nella Repubblica ceca, in Grecia e in Italia. Altrettanto elevata è la disparità di trattamento economico. Le donne hanno salari mediamente inferiori di quasi il 13 per cento di quelli degli uomini.
Nonostante il lieve miglioramento dell’occupazione complessiva degli ultimi anni, la forza-lavoro più fragile come i giovani poco qualificati e i cosiddetti NEET (coloro che né lavorano né studiano) restano indietro. Oltre il 40 per cento dei NEET in Europa proviene da una famiglia in cui non c’è nessun occupato, il che la dice lunga sulla mobilità sociale e sulla duplice condizione di disagio economico di questi ragazzi. Nel 2015 facevano parte dei NEET, il 17% della popolazione. Erano il 15% prima della crisi. Sempre in Europa, quasi il 40% dei NEET non ha completato il ciclo della scuola secondaria superiore e così la loro probabilità di trovare lavoro è addirittura inferiore (33%) a quella degli altri NEET (45%).
In Italia, se prima della crisi i NEET erano circa il 16,5 per cento, quindi di poco superiori alla media europea, sono balzati a oltre il 27 per cento nel 2015, conquistando il non invidiabile primato assoluto europeo e sopravanzando perfino i paesi più scalcinati.
Una grafico illuminante, ricavato dai dati del Programme for International Student Assessment (PISA), mette perfino in relazione i voti ottenuti nelle discipline matematiche dai giovani provenienti da famiglia agiate rispetto a quelli provenienti dagli strati sociali inferiori (ovviamente quelli meno sfortunati che nonostante la disparità possono comunque accedere ai corrispondenti gradi di istruzione). Il gap di circa il 10% testimonia il carattere di classe della selezione scolastica. Se “mal comune mezzo gaudio”, allora la “buona notizia” è che in questo caso il dato italiano è dello stesso ordine di grandezza.
Ma chi alla nascita ha minori opportunità di studio, avrà anche nell’arco vita lavorativa minori probabilità di usufruire della formazione permanente. Una sorta di condanna a vita per i proletari! E su questo terreno torniamo a primeggiare, ex aequo con la sola Repubblica Slovacca.
È intuibile che i proletari siano non solo più ignoranti, ma anche che crepino prima. E infatti chi ha 65 anni e ha studiato di meno campa in media 2 anni in meno dei, più camperecci, soggetti istruiti (2,7 anni per gli uomini e 1,2 per le donne), così come (chi l’avrebbe mai detto!) diminuiscono le malattie fra le persone che hanno potuto studiare di più.
Altri dati documentano che gli immigrati sono discriminati, e maggiormente quelli provenienti dai paesi più poveri, ma questa è la scoperta dell’uovo di Colombo.
Una cosa che la ricerca non ci dice, ma che in qualche modo possiamo dedurre dalla stessa lettura dei dati disaggregati per paese, è che le disuguaglianze, nei loro molteplici aspetti, sono generalmente più accentuate e tendono a crescere di più nei paesi che, come il nostro, crescono meno. Il che parrebbe smentire i teorici del liberismo sfrenato i quali sostengono che la diseguaglianza sia il prezzo da pagare sull’altare della crescita. L’evidenza empirica tende piuttosto a raccontare l’esatto contrario, cioè che laddove si attuano politiche meno inique si ottiene anche una crescita maggiore. Il che non deve stupire visto che se si colpiscono i redditi e i servizi della maggioranza della popolazione, si avranno meno consumi pubblici e privati, e conseguentemente minori sbocchi per la capacità produttiva.
Al di là di quello che i media embedded vogliono farci credere, l’unica vera ragione del massacro sociale deliberatamente attuato è che esso fa molto bene ai profitti. È un’affermazione avventata e basata su pregiudizi ideologici? No perché, senza citare il rapporto “di parte” di Oxfam Italia, lo stesso OECD laddove dà uno sguardo al mondo e non solo all’Europa, conclude così: “Widespread increases in income inequality have raised concerns about their potential impact on oursocietiesandeconomies. New OECD research shows that when income inequality rises, economic growth falls. Tackling inequality can make our societies fairer and our economies stronger” [Gli aumenti diffusi della disparità di reddito hanno sollevato preoccupazioni riguardo al loro potenziale impatto sulle nostre società e sulle nostre economie. La nuova ricerca dell’OCSE mostra che quando la disparità di reddito aumenta, la crescita economica diminuisce. Affrontare le disuguaglianze può rendere le nostre società più giuste e le nostre economie più forti, ndr].
NOTE
[1] In questo contesto è bene precisare che la parola “classe” è derivata dalla terminologia usata nella tecnica statistica e indica l’insieme delle osservazioni che soddisfano un determinato requisito quantitativo o qualitativo. Da non confondere quindi col concetto di classe sociale, anche se nei fatti – ovviamente – i soggetti che rientrano nelle classi statistiche dei meno abbienti appartengono anche ai segmenti meno fortunati del proletariato.
Ascanio Bernardeschi
23/12/2017 www.lacittafutura.it
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