Le donne di Gaza. La lotta delle donne palestinesi contro il genocidio
Intervista ad Angela Lano
Direttrice di infoPal
I movimenti delle donne sono stati storicamente centrali nelle lotte contro l’oppressione, la discriminazione, il colonialismo e il militarismo. Le donne palestinesi sono state inestimabili nella lotta di liberazione del proprio popolo contro l’occupazione coloniale, il sistema di apartheid razzista e le politiche di genocidio che Israele, dalla Nakba del 1948, va perpetrando verso le popolazioni palestinesi di Gaza e della Cisgiordania. Le donne palestinesi da un lato si trovano a combattere una lotta intersezionale: contro il sionismo, l’islamofobia di genere, il machismo nei loro confronti rafforzato dall’occupazione israeliana. La lotta delle donne palestinesi è un esempio che continua ad insegnare determinazione e resistenza. Di questo ne parliamo con Angela Lano, giornalista professionista, orientalista, storica del mondo arabo-islamico, direttrice di InfoPal, agenzia stampa online specializzata su notizie e informazioni culturali, politiche e sociali sulla Palestina e Medioriente. Volto noto del giornalismo non-embedded, nel 2010 fu a bordo della 8000, nave greca della Freedom Flotilla, la spedizione di aiuti umanitari per la Striscia di Gaza che venne bloccata, attaccata e sequestrata dalla marina militare israeliana in acque internazionali con l’Operazione militare “Skywind”. Laureata in lingua e letteratura araba, PhD in Studi Etnico-Africani e del Medio Oriente e post-dottoranda in Scienza delle Religioni, da anni si occupa di studi di genere, femminismi di stampo religioso, storia e geopolitica del Mondo arabo e islamico oltre ad essere autrice di numerosi libri, articoli e reportage sulla Palestina e sull’ “altro mondo”, quel mondo che non viene mai raccontato.
LeS: Dopo la Nakba del 1948 si vide l’impegno politico delle donne palestinesi passare dall’attivismo visibile al ruolo di preservare principalmente la memoria collettiva e l’identità nazionale, spesso attraverso il mantenimento di manufatti culturali e tramandando la narrativa storica raccontata. Che ruolo hanno avuto le donne nella difesa della cultura palestinese?
Angela Lano: Sono la conservazione, nel senso “protettivo” del termine. Conservano tradizioni popolari, familiari e culturali come il cucito, la cucina tipica, le attività artigianali, il ricamo palestinese. Tradizioni che vengono portate avanti di mamma in figlia e che sono un simbolo molto potente di resistenza palestinese. I vestiti indossati dalle donne e dalle ragazze palestinesi sono fiera ostentazione di identità nazionale in quanto Israele da anni sta compiendo un culturicidio, un epistemicidio, una cancellazione culturale del popolo palestinese con il fine di assimilare le loro tradizioni spacciandole per “israeliane”.
Le donne palestinesi sono quelle che trasmettono a livello generazionale l’attaccamento alla loro terra e incoraggiano i loro figli a difenderla. Dal 7 ottobre, con l’escalation militare israeliana “Operazione Spade di Ferro”, ci arrivano notizie e foto che testimoniano tutte queste madri che abbracciano le salme dei loro figli, che pregano e che invocano Allah. Stiamo parlando di madri che hanno coscienza di quello che accade e la consapevolezza di questi sacrifici. È come se, nella perdita dei loro figli, avessero la determinazione di rimanere nella loro terra. Ciò le rende uniche e sono un esempio di “maternità” nel senso più indigeno del termine.
Donne che hanno perso mariti, figli, nipoti, fratelli e che si trovano ferme, sedute sulle rovine delle loro case, che mantengono il loro “focolare domestico” e che allestiscono cucine d’occasione sulle macerie, continuando a sfornare pane arabo. Ciò è altamente simbolico, come a dire “io non me ne vado”. Questo è un simbolo popolare di resistenza e, soprattutto, di resilienza contro l’abominio genocida israeliano. Un fatto altrettanto interessante è che le donne palestinesi hanno un grande senso dell’istruzione e sono soprattutto loro ad incoraggiare i figli a studiare senza alcuna distinzione di genere. I palestinesi sono incoraggiati dalla famiglia a studiare. Per loro un figlio che si laurea, quando c’è disponibilità economica, è un onore. Non è un caso che gli studenti palestinesi raggiungono grandi risultati nelle università europee.
LeS: Con l’istituzione dell’OLP negli anni Sessanta, emerse anche l’Unione Generale delle Donne Palestinesi dell’OLP. Come si concretizzò l’attivismo delle donne palestinesi e come lo è adesso?
Angela Lano: Le donne sono state parte integrante della resistenza, sia nonviolenta sia armata, palestinese diventando anche grandissime icone politiche, per esempio Leila Khaled, femminista, attivista e combattente del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Le donne sono stati esempi di resistenza continua, dalla Prima Intifada “con sassi e bastoni” nel 1988 e con la Seconda Intifada. In seguito agli Accordi di Oslo del 1993, che sono stati una grande trappola in cui è caduta la dirigenza palestinese, portando de facto alla colonizzazione esasperante delle terre palestinesi, come scrive lo storico Ilan Pappe, Israele ha represso ancora più violentemente i moti di resistenza. Le cose si sono poi evolute sia a Gaza sia in Cisgiordania con proteste, sollevazioni popolari, varie nuove forme di resistenza e ciò ha rinsaldato un forte sentimento etno-religioso.
Con l’entrata di Hamas (fondato nel 1987) e del Jihad Islamico (fondato negli anni ’70) nell’arena della resistenza palestinese e con l’indebolimento delle organizzazioni di sinistra, il ruolo della donna resistente è cambiato e ha assunto altre importanti funzioni. Se è vero che nel periodo più laico della storia della Palestina, ovvero negli anni Sessanta – Ottanta, vi erano “donne combattenti”, oggi l’attivismo delle donne palestinesi si concretizza maggiormente in altre forme: a livello partitico e organizzativo, anche se è vero che qualche brigata armata che sta affrontando l’invasore e colonizzatore israeliano a Gaza e in Cisgiordania ha donne combattenti.
Le donne hanno un ruolo di spessore e importante. Un esempio è Jamila Al-Shanti, membro dell’Ufficio Politico di Hamas, che è stata uccisa in un bombardamento israeliano che ha preso di mira la sua casa nella città di Gaza il 19 ottobre. Al-Shanti è stata la fondatrice del movimento delle donne di Hamas a Gaza, è stata la prima donna membro dell’Ufficio Politico (il più alto organo decisionale politico del movimento) e nel 2013 fu nominata Ministra per le Politiche Femminili nel governo di Hamas, che all’epoca governava la Striscia di Gaza. Si tratta di una donna rifugiata palestinese del campo profughi di Jabaliya a Gaza, quindi non di una donna privilegiata. Inoltre c’è da segnalare che le manifestazioni pro-Palestina in tutto il mondo, hanno visto un grande coinvolgimento delle donne e delle giovani ragazze palestinesi. Esemplare è il caso delle donne italo-palestinesi che sono sempre in prima linea nelle manifestazioni di questi mesi, gridando con megafono in mano e con orgoglio il proprio “essere palestinesi” e il proprio diritto alla terra che gli è stata usurpata.
LeS: L’occupazione coloniale israeliana sta prendendo di mira donne e bambini. Un tema è anche quello delle donne prigioniere politiche…
Angela Lano: Israele sta facendo retate contro donne, bambine, ragazze e giornaliste. Le rapiscono, le imprigionano e le minacciano di stupro. Israele vuole minare la resistenza palestinese con il ricatto, ma fallisce. Nella settimana di scambio di prigionieri tra Gaza e Israele, molti ragazzi e ragazze palestinesi rilasciati hanno lanciato gravi accuse contro Israele parlando di stupri da parte dei carcerieri. La giornalista e scrittrice palestinese Lama Khater, rilasciata a fine novembre da una prigione israeliana, ha testimoniato che i carcerieri israeliani l’hanno minacciata di stupro e di rinchiudere i suoi figli e bruciarli vivi. Sempre lei ha testimoniato le parole di un ufficiale israeliano dello Shin Bet, che le ha detto che niente lo avrebbe fatto sentire meglio finché non avessero ucciso 50.000 bambini a Gaza. Questo non è accaduto con i prigionieri israeliani rilasciati di Hamas che hanno testimoniato di essere stati trattati umanamente. Toccante è stata la lettera dell’israeliana rilasciata da Hamas che ha scritto: “Ai generali che mi hanno accompagnata in queste settimane, sembra che domani ci separeremo, comunque vi ringrazio di cuore per la straordinaria umanità che avete dimostrato nei confronti di mia figlia Emilia”. È, invece, l’entità sionista che violenta e fa a pezzi i bambini. Non è un caso che Eyal Kamir, rabbino capo dell’esercito israeliano abbia affermato recentemente che, per la “difesa di Israele”, i soldati israeliani possono stuprare le donne in tempo di guerra. In sua difesa si sono schierati 150 rabbini, sostenendo che contestare la sua nomina sulla base delle sue “legittime” interpretazioni della Torah avrebbe avuto gravi conseguenze per l’IDF. Anche il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, in una lettera a La Repubblica del 27 ottobre ha scritto che “le guerre sono sempre un’offesa alla dignità umana, comportano morte e distruzione, e certamente vanno evitate, ma quando è in gioco la propria esistenza davanti a un nemico irriducibile l’alternativa pacifista è discutibile anche moralmente. (…) Qualche volta qualcuno deve essere sconfitto, solo lui e per sempre”. Per i sionisti è una guerra della “Luce” (loro) contro “l’Oscurità” (i palestinesi).
Israele commette sistematici femminicidi e infanticidi politici per motivi razzisti e di pulizia etnica: l’obiettivo sono coloro che mettono al mondo le generazioni di palestinesi e le giovani generazioni stesse. Sono “genocidi generazionali”. Le politiche genocide del governo d’estrema destra di Netanyahu vogliono estirpare il popolo palestinese e de-arabizzare la Palestina, esattamente sul modello delle pulizie etniche degli anni Quaranta.
LeS: E se parliamo dell’emancipazione delle donne palestinesi?
Angela Lano: Il dibattito occidentale sulle donne arabe e mediorientali, oltre ad essere infantile e mediocre, è tipico di quell’Orientalismo coloniale del XIX secolo che tendeva ad “esotizzare” le popolazioni native dell’Africa e del Vicino e Medio Oriente, delegittimando e degradando intere civiltà come “inferiori”. Visioni tipiche del suprematismo bianco occidentale sono perfettamente ereditate tanto dai femminismi liberali, quanto dalle femocrate, come direbbe la sociologa Sara Farris, delle istituzioni occidentali.
Nei discorsi delle femministe liberali emerge un presunto ruolo salvifico che loro avrebbero nei confronti delle donne di altre culture, le quali dovrebbero liberarsi dalla propria cultura e seguirle in egual modo nel modo di emanciparsi. Si tratta, a tutti gli effetti, di uno sguardo coloniale che “compatisce” le altre culture e le invita a seguire i “modelli giusti”, quelli occidentali, ovviamente. Questa è la visione eurocentrica che da secoli cerca di occidentalizzare il mondo a sua immagine e somiglianza. Non è un caso che, per l’Occidente, i diritti delle donne sono stati una giustificazione per legittimare l’intervento NATO in Afghanistan, ad esempio. “La lotta al terrorismo è anche una lotta per i diritti e la dignità delle donne”, disse Bush dopo l’invasione del 2001, aggiungendo che, grazie all’America, le donne “non sono più imprigionate nelle loro case”. Un tipico pensiero suprematista e razzista, oltreché genocida, del colonialismo occidentale.
Le donne afghane della Revolutionary Association of
the Women of Afghanistan (RAWA) sono state un esempio, esattamente come lo sono i movimenti legati al femminismo islamico o le organizzazioni femministe e femminili palestinesi. Quest’ultime, insieme ad altre, fanno un discorso decoloniale più amplio compiendo lotte intersezionali. Combattono per i diritti umani e contro il razzismo anti-arabo, il suprematismo bianco ashkenazita, il colonialismo, il militarismo e gli insediamenti illegali dei Territori Palestinesi Occupati. Certamente lottano per i diritti delle donne e contro il patriarcato della loro società e dell’ANP, ma anche contro il tradizionalismo e il patriarcato dello Stato occupante che le opprime e che ha concepito quel regime d’apartheid: a loro, rispetto ad altre donne, tocca un doppio lavoro.
Parlare dell’emancipazione delle donne palestinesi non deve essere l’ennesima occasione per la hasbara israeliana per inferiorizzarle, per tacciare come “barbaro” il popolo palestinese e per vantare il “grado di civiltà” di Israele, esercitando operazioni di pinkwashing e purplewashing, mentre continua a coprire le sue azioni genocide e di violazione sistematica dei diritti umani. Inoltre bisogna decostruire l’idea occidentale secondo cui, con Hamas, il ruolo della donna a Gaza sia stato svalutato, addirittura paragonandolo pateticamente all’ISISI/Daesh. Oltre a dimostrare quanto le narrazioni tossiche in Occidente siano diffuse da chi non conosce questi contesti, questo non è assolutamente vero: Hamas è composto da uomini e donne di grande cultura ed elevatezza morale ed etica. Inoltre le donne palestinese lottano da sempre contro l’islamofobia di genere, che è il fulcro della questione del velo islamico. Sono le donne occidentali a decidere se le donne musulmane devono mettere il velo, o possono essere loro a decidere? Le donne palestinesi criticano anche questo paternalismo delle femministe bianche liberali nei loro confronti, presente nelle normative francesi.
Come diceva Tiziano Terzani, noi in Occidente abbiamo un’idea perversa e consumistica di civilizzazione e ci facciamo traviare dai pregiudizi. Per noi vedere una donna con l’hijab vuol dire che è automaticamente oppressa, ma non è così. L’hijab è un simbolo identitario – esattamente come la kefiah – recuperato negli anni Settanta e rivendicato anche dai movimenti femministi islamici negli anni Novanta. Noi ci lasciamo abbindolare da un pregiudizio coloniale ed eurocentrico secondo cui se una donna non va in giro minigonna non è emancipata. La nostra cultura, ugualmente patriarcale ed abbandonata ai formalismi, non riesce a capire che non è da una minigonna o da un velo che si misura la qualità, la quantità e il grado di emancipazione femminile, ma dal grado di istruzione, di senso critico, di consapevolezza politica e di liberazione dell’immaginario. Le donne palestinesi sono inestimabili modelli nella lotta di liberazione del proprio popolo contro l’occupazione coloniale, il sistema di apartheid razzista e le politiche di genocidio che Israele, dalla Nakba del 1948, va perpetrando verso le popolazioni palestinesi gazawi e della Cisgiordania, con la costruzione del Muro cisgiordano, ecc. Le donne palestinesi sono poetesse, scrittrici e giornaliste la cui vita è in pericolo solo per il fatto di essere palestinesi. Non dimentichiamo la giornalista di Al-Jazeera Shireen Abu Akleh, uccisa da un militare israeliano mentre stava facendo il suo lavoro. Non dimentichiamoci che il 14 ottobre, la Fiera del Libro di Francoforte annunciava la cancellazione della cerimonia di premiazione di Adania Shibli, artista e scrittrice palestinese autrice del libro “Un dettaglio minore”. Il motivo era la sua nazionalità.
LeS: Cosa sta succedendo con l’Operazione Spade di Ferro?
Angela Lano: Dal 7 ottobre, il regime israeliano ha ucciso oltre 16.700 palestinesi a Gaza, tra cui oltre 8.000 bambini e 5.000 donne durante l’Operazione Spade di Ferro. Israele sta portando avanti quello che gli esperti delle Nazioni Unite, 880 studiosi internazionali, tra cui esperti di genocidio, un ex alto funzionario delle Nazioni Unite e un numero crescente di Stati hanno descritto come un genocidio in atto contro i 2,3 milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza occupata e assediata, con il fine ultimo di colonizzarla totalmente applicando quelle che sono gli obiettivi del Piano Weitman. Nelle ultime ore Israele ha compiuto 77 massacri dopo la fine del cessate il fuoco durato una settimana, uccidendo 1.248 persone. L’ufficio stampa del governo di Gaza afferma che 7.600 persone risultano ancora disperse, sotto le macerie o perché la loro sorte è ancora sconosciuta. Sono 286 gli operatori sanitari, 32 i membri della protezione civile e 81 i giornalisti che sono stati uccisi negli attacchi israeliani. Dall’inizio dell’aggressione israeliana sono rimaste ferite anche 43.616 persone. L’ufficio stampa ha sottolineato che 100 moschee sono state completamente demolite, mentre 192 parzialmente, 3 chiese cristiane e 121 edifici governativi. Si segnalano anche 69 scuole rimaste fuori servizio, mentre 275 scuole sono state parzialmente danneggiate. Secondo le stime palestinesi, più del 61% delle case e delle unità abitative sono state distrutte, il che significa che 52.000 unità abitative sono state completamente distrutte, mentre altre 253.000 parzialmente. Nonostante tutto questo, il popolo palestinese è determinato a resistere. Io credo che i palestinesi siano un popolo esemplare per molto versi. Hanno avuto diverse occasioni per poter arrendersi, ma non l’hanno mai fatto. L’unica cosa che mi rimane da dire è “Viva la Palestina! Hasta siempre!”.
Intervista a cura di Lorenzo Poli
per la redazione di lavoro e Salute
7 dicembre 2023
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