Le elezioni romane tra astensionismo e crisi del neomunicipalismo
Se si scorrono in rassegna i commenti della stampa mainstream alle ultime elezioni amministrative, non se ne può ricavare altro che un grande senso di rasserenamento: chiusa la stagione delle turbolenze politiche e dei malumori popolari che avevano determinato per un certo periodo un impazzimento del voto, l’elettorato sembra essere finalmente tornato alle posizioni di partenza caratteristiche di uno schema bipolare.
L’incontenibile gioia con la quale gli editorialisti brindano al ritorno della normale e civile dialettica politica che ha portato in molte città il successo elettorale al riformismo moderato, è stata solo marginalmente guastata dai dati negativi registrati dall’astensione.
Defezione di massa
Una volta pronunciate le frasi di circostanza, il rammarico bipartisan per il clamoroso calo della partecipazione democratica è infatti caduto quasi subito nel dimenticatoio, quasi fosse – non lo si dice esplicitamente – il boccone amaro da inghiottire in cambio di una rinnovata stabilità politica.
Eppure, nonostante le formule rituali e gli esorcismi che hanno tentato di normalizzare in tutti i modi l’astensionismo ritenendolo un trend ormai decennale, un indicatore della fisiologica quanto indistinta sfiducia verso il sistema della rappresentanza o, addirittura, una forma di consenso allo stato di cose presente – per quanto passiva e disincantata, la defezione di massa registrata nel voto amministrativo dell’anno 2021 rimane il vero convitato di pietra di qualsiasi elaborazione politica di questa tornata elettorale.
Tanto più se si ha la voglia di cogliernela geografia sociale tutt’altro che indifferenziata: l’astensionismo ricade soprattutto nelle grandi città e nelle zone urbane più povere. E tra le grandi città, Roma è quella che registra in misura maggiore queste tendenze.
Se infatti il numero dei votanti nella Capitale non sfiora neanche la metà degli aventi diritto (fermandosi al 48,76%), nei due municipi della città collocati all’estremità nella distribuzione della ricchezza si registra il massimo dell’affluenza (il 56,52% nel II municipio, il più ricco) e il minimo (il 42,82% nel VI, il più povero).
Se si guarda nel medio periodo alle inclinazioni elettorali della parte più povera della composizione sociale urbana, la defezione di massa delle classi popolari da questo voto amministrativo sembra essere stata il risultato di delusioni successive: se nel 2016 i quartieri più periferici avevano scommesso nel voto ai 5 Stelle e nelle elezioni europee del 2019 una parte consistente di quel voto aveva ingrossato i consensi della Lega, in questa ultima tornata quel consenso fluttuante si è tradotto in larghissima parte nella pura astensione.
Questo dato smentisce anche quella che è stata per lungo tempo una previsione alimentata da sondaggi e da opinionisti di ogni risma, ovvero il travaso di voti dell’ampio consenso ricevuto nelle precedenti amministrative nei quartieri più poveri dai 5 stelle verso la destra.
A fronte del dimezzamento dei voti ricevuti nel primo turno da Virginia Raggi, il centrodestra aumenta di pochissimo i consensi in termini assoluti (in un municipio come il VI, mentre Raggi passa da 41.899 a 20.436 voti, il centrodestra arriva a 29.468 dai 25.898 della tornata precedente). La stessa tendenza la si ritrova nel resto di Roma, con una maggiore intensità in altri municipi periferici.
A fare da controcanto a questa secessione delle classi popolari dal voto, c’è invece non solo la conferma dell’affermazione del centrosinistra nei quartieri più agiati – tendenza non solo romana e già presente nelle scorse tornate elettorali – quanto il grande risultato della lista di Carlo Calenda.
La distribuzione del voto di Calenda è significativo: aumenta i consensi con il crescere del livello di benessere sociale ed economico dei territori, raggiungendo il picco dei voti nei municipi più ricchi della città (oltre il 30% nel I e 36% nel II). L’adesione al progetto politico di Calenda è l’espressione evidente della tendenza delle élites urbane romane di auto-rappresentarsi e informare dei propri contenuti di ceto il programma politico della città.
Alla lotta contro la povertà questo programma politico sostituisce la lotta contro i poveri alimentando quel processo di segregazione sociale e geografica che è ormai un dato consolidata nelle dinamiche di trasformazione della città.
Sebbene alcune di queste tendenze fosserogià al lavoro sotterraneamente negli ultimi anni, la pandemia sembra averle radicalizzate traducendosi in una divaricazione politica della città che segue distintamente linee di classe. La ricaduta diseguale sui territori e sulla composizione sociale metropolitana del costo sanitario e sociale dell’emergenza pandemica ha alimentato tanto la secessione delle classi popolari dal voto quanto l’autorappresentazione dei ceti urbani medio-alti. Dentro questo duplice dato si misura in modo stilizzato un fenomeno inquietante che trova in questa tornata elettorale una sua espressione eclatante: il governo della città rischia di diventare un problema di coloro che possono permettersi di viverla.
La depoliticizzazione dello spazio urbano
A guardare la superficie dei dati elettorali, colpisce la radicale frammentazione delle opzioni di sinistra, accomunate solo dall’esito modesto quando non fallimentare. Nella città di Roma, la moltiplicazione delle liste sfiora quasi il comico. Al di sotto di questo dato però bisogna vedere l’esaurimento di una ipotesi politica che aveva negli ultimi anni provato a ridefinire in termini nuovi il rapporto tra i movimenti sociali e la sfera della rappresentanza locale.
Guardando soprattutto alle esperienze neo-municipaliste spagnole e nutrita dai movimenti contro l’austerità e per i beni comuni che si consolidarono a seguito delle mobilitazioni studentesche dell’Onda e dopo il referendum per l’acqua pubblica, quell’ipotesi vedeva nei contesti urbani lo spazio di possibilità per una politica alternativa che rompesse tanto con il quadro del governo nazionale rinchiuso nelle compatibilità della governance europea, quanto con gli equilibrismi moderati dei partiti del centrosinistra.
Nonostante in Italia sia stata soprattutto l’esperienza napoletana di De Magistris che provò a tradurre quell’ipotesi in una effettiva sperimentazione amministrativa – con risultati del resto significativi quanto ambivalenti – quell’ipotesi orientò in ogni caso l’azione di diversi movimenti sociali che riuscirono per un certo periodo a trovare convergenza e a investire la scena pubblica con un discorso trasformativo sulla città.
Almeno nella città di Roma, all’esaurimento di quella fase – la cui crisi è iniziata ormai diversi anni fa ed è stata alimentata dalla una Giunta pentastellata che ha svuotato a colpi di legalitarismo e burocraticismo qualsiasi spazio di mediazione e negoziazione sociale – i movimenti sociali urbani hanno reagito seguendo per lo più strade sempre più sconnesse.
A esclusione di alcuni percorsi territoriali che, nonostante tutto, hanno tentato di costruire sperimentazioni di qualche consistenza, l’assenza di uno spazio politico di convergenza cittadino e di un discorso pubblico sulla trasformazione della città, è lo sfondo su cui si è misurata la proposta politica della sinistra radicale romana nelle elezioni amministrative.
L’accumulo storico delle vertenze e dell’autorganizzazione romana, così come le esperienze più recenti del mutualismo durante la pandemia, quando non si sono disperse nella miriade dei partiti minori, hanno trovato una collocazione efficace esclusivamente all’interno delle liste del centrosinistra.
Nonostante l’ingresso di alcuni esponenti di realtà dell’autorganizzazione romana nei consigli municipali e comunale non possa che esser preso come un esito estremamente positivo, rimane del tutto aperto il problema di come lo spazio urbano possa diventare, nuovamente, il campo dove verificare un’ipotesi politica radicale capace di intercettare tendenze di trasformazione che covano inespresse.
Questo problema aperto è tanto più urgente quanto più l’ultima tornata elettorale ha mostrato come al di sotto del crollo della partecipazione elettorale e dell’apparente ristabilimento dello schema bipolare, si nasconda in realtà un fenomeno più ampio e pericoloso, quello della depoliticizzazione dello spazio urbano.
La riduzione della politica delle città a pura amministrazione rischia di essere il punto di ricaduta sulla dimensione locale della pax stabilita dal governo di Mario Draghi.
Non sappiamo come andrà a finire, quello che è certo è che mentre gli editoriali dei giornali brindano per la stabilità politica riconquistata nelle città, noi sappiamo che quella stabilità è solo apparente.
13/10/2021 https://www.dinamopress.it
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