Le false accuse al movimento pacifista
Nel corso dell’ultimo mese si sono universalmente moltiplicate le azioni in favore di un immediato cessate il fuoco a Gaza. Che siano sit-in e occupazioni, da quella delle organizzazioni ebraiche pacifiste al Congresso degli Stati uniti a quella in corso all’Università Orientale di Napoli, petizioni o cortei, il loro messaggio è lo stesso: nessuna violenza subita il 7 ottobre, per quanto cruenta e disgustosa, potrà mai giustificare il massacro in corso a Gaza il quale, per dimensioni e modalità, è di fatto un genocidio. È dunque accaduto, in questo contesto di angosciato fermento, che grandi manifestazioni si siano svolte contemporaneamente in diversi paesi. L’esempio per noi più significativo è la manifestazione romana di sabato 28 ottobre la quale si è svolta mentre a Londra si dispiegava un corteo imponente, per altro già superato da quello oceanico che ha attraversato la capitale inglese sabato 11 novembre.
Almeno a memoria di chi scrive per trovare una situazione paragonabile occorre risalire a venti anni fa e più precisamente al 15 febbraio del 2003. In quella data il movimento pacifista riuscì, in un suo apice politico e organizzativo, a convocare e coordinare la più grande manifestazione per la pace della storia. Cortei contro l’invasione dell’Iraq, a poco più di un anno dall’invasione dell’Afghanistan in risposta agli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, attraversarono le più grandi città europee e di tutto il mondo, portando in piazza la cifra stratosferica di 100 milioni di persone.
Il pacifismo di oggi però risulta molto più debole d’allora e sempre più ininfluente. Per iniziare ad affrontare questa situazione di soffocante impotenza, forse, può servire proprio fare i conti con questa asimmetria, che equivale a fare i conti con la netta sconfitta delle mobilitazioni per la pace di inizio secolo alla luce però delle sue ragioni sempre più tragicamente evidenti. Una su tutte: vent’anni fa il movimento implorava agli Stati uniti e ai suoi alleati di fermarsi perché aveva messo bene a fuoco quella che venne ribattezzata «la spirale guerra-terrorismo». Con questo si intendeva dire una cosa semplicissima: che la guerra, a prescindere da qualsiasi ragione, diffonde inevitabilmente dolore inaudito ed estrema povertà nelle popolazioni civili e che ciò crea i presupposti per l’ascesa di gruppi terroristi alle cui azioni si risponderà con nuove guerre, alimentando appunto una spirale che non fa altro che portare l’umanità in un baratro.
Il movimento pacifista, purtroppo, aveva ragione e «la spirale guerra terrorismo» in questi vent’anni si è tanto alimentata fino a condurci effettivamente nel baratro. Perché la punizione collettiva che lo stato di Israele sta infliggendo alla popolazione civile di Gaza con il beneplacito delle potenze occidentali non è un baratro a venire, ci stiamo già precipitando dentro. Se è vero che sono tanti i fattori (interni ed esterni, e il più delle volte intrecciati tra loro) che hanno contribuito negli ultimi venti anni all’instabilità di tutto il Medio oriente, la linea politico-militare occidentale adottata nella fase 2001-2003 rimane di fatto un punto di svolta decisivo, inaugurale di dinamiche di lungo periodo che ancora non si sono concluse.
Comprendere non è giustificare
Quest’ultime considerazioni sono fondamentali e ci riportano al dibattitto attuale e quindi all’urgenza di ribadire ai nostri governi, strutturalmente alleati di Israele, che guerra chiama inesorabilmente terrorismo. A questa osservazione, che sottintende un immediato cessate il fuoco, chi sostiene lo stato di Israele ricorre subito all’affermazione di un principio e alla formulazione di un’accusa: il principio è quello dell’autodifesa, l’accusa quella di giustificare Hamas o, addirittura, di sostenerla per ragioni di malcelato antisemitismo. Partiamo dall’accusa: giustificare Hamas. Se questa è la risposta all’argomentazione che la guerra (dunque lutto, sofferenza, fame, povertà) alimenta il terrorismo è piuttosto evidente che l’assunto parta da un presupposto sbagliato, ovvero che sforzarsi di comprendere un dato evento significhi giustificarlo. La logica interpretativa che sottostà alla formula «spirale guerra-terrorismo» cerca evidentemente di comprendere e formulare delle ragioni di ordine almeno storico-sociale del terrorismo, ma altrettanto evidentemente lo fa per cercare di interromperne la proliferazione. Non ci stancheremo mai di ribadire senza remore che gli attentati del 7 ottobre contro civili inermi sono un crimine ingiustificato e ingiustificabile, non rinunciando però ad aggiungere che ciò non ci esime dal compito di comprendere per poter riconoscere delle cause al fine di agire su di esse realizzando, in ultima analisi, che l’unica soluzione è la pace. E ciò non è un invito naif a una stretta di mano che elude i conflitti, ma l’imperativo di affrontare politicamente e non militarmente le ragioni dei conflitti. L’alternativa è l’occhio per occhio che, dovremmo averlo imparato, rende il mondo cieco.
Che comprendere non significhi giustificare e che la comprensione delle tragedie rappresenti anche un compito etico-politico è tra l’altro testimoniato dall’opera di una intellettuale ebrea annoverabile tra le voci più influenti della filosofia politica del Novecento. Infatti, presentando il suo monumentale Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt dichiarava di essere stata motivata da tre domande: «Che cosa succedeva? Perché succedeva? Come era potuto succedere?» Inutile dire che la filosofa, scampata a costo dell’esilio allo sterminio nazista, non aveva alcuna intenzione di giustificare nulla. Per quanto si possano non condividere gli esiti della sua riflessione, rimane qui estremamente significativo che proprio da questo tentativo talvolta disperato di comprensione dell’orrore Arendt abbia attinto il materiale storico e teorico per ripensare radicalmente alla politica, cercando di minare così le origini stesse del totalitarismo.
Smontare l’inaccettabile accusa di antisemitismo
Veniamo ora all’accusa di antisemitismo. È fuori discussione che quest’ultimo rappresenti tuttora una tendenza politica e culturale deplorevole, come lo sono tutti i razzismi, pericolosamente latente in molte società. Esso arriva anche a manifestarsi palesemente nella violenza agita da gruppi fondamentalmente neonazisti. È ancora un’intellettuale ebrea ad aver tematizzato però come bollare di antisemitismo qualsiasi protesta contro le politiche dello stato di Israele sia un chiaro strumento di censura antidemocratico e che, soprattutto, tale pratica depotenzi la capacità di individuare e combattere l’antisemitismo reale, che non critica lo stato di Israele ma discrimina l’ebraismo e solo consequenzialmente e non necessariamente anche Israele. Ci si riferisce a Judith Butler e al suo Vite precarie del 2004, dunque un saggio pubblicato non casualmente sull’onda delle invasioni di Afghanistan ed Iraq e il cui sottotitolo, Contro l’uso della violenza in risposta al lutto collettivo, non potrebbe essere più attuale. In un capitolo intitolato L’accusa di antisemitismo: gli ebrei, Israele e i rischi di una critica pubblica, l’autrice sottolinea tra l’altro come l’equiparazione dell’intero ebraismo con lo stato-nazione israeliano – per cui non si potrebbe criticare quest’ultimo senza discriminare il primo – implichi una concezione monolitica e fittizia dell’ebraismo stesso, neghi la sua eterogeneità e presupponga l’adesione di tutti gli ebrei al sionismo politico che, seppur molto rilevante, è solo una delle correnti politiche e culturali del mondo ebraico. Una visione dunque ideologica e stereotipizzante dell’ebraismo che in quanto tale è razzista nella sua essenza; ed essendo l’antisemitismo il nome specifico del razzismo contro gli ebrei, essa «funziona come effetto dell’antisemitismo stesso».
Curioso, alla luce di questi passaggi, osservare come tra i più ferrei sostenitori nostrani di Israele si distinguano in queste settimane proprio gli eredi storici di chi dell’infamia dell’antisemitismo ne ha fatto, nella pagina più buia della storia d’Italia, un’abietta giurisprudenza. Alla fine sembrano riscontrabili due atteggiamenti che permangono nel tempo al netto del mutamento delle condizioni storiche e dei soggetti sociali e politici in campo. La destra sovranista odierna sta dalla parte del più forte, come ha fatto sempre e comunque in ogni tempo e luogo, mentre l’antisemitismo che fu è ormai pienamente rimpiazzato dall’islamofobia. Chi è, ed era, coerentemente contro il razzismo continua invece a discernere i popoli, nella loro irriducibile complessità interna, dai loro governi e dalle istituzioni religiose. Chi oggi è solidale con i palestinesi, a partire anche dal dato elementare che questo popolo non coincide con Hamas, assolve precisamente lo stesso ruolo storico di chi, di fronte all’antisemitismo di ieri e di oggi, ha sempre riaffermato i principi universali di libertà e uguaglianza.
Sulla legittima difesa
Proprio il principio di uguaglianza, per come viene rielaborato dalla stessa Butler, può aiutarci ora a formulare una risposta critica al principio di autodifesa che, come si ricordava, è chiamato sistematicamente in causa da chi sostiene incondizionatamente Israele. Nel suo saggio La forza della non-violenza. Un vincolo etico-politico (2020), la filosofa ebreo-statunitense insiste sulla fondamentale intersezione tra la critica della violenza e il principio di uguaglianza riformulato nei termini di una «uguaglianza radicale della dignità di lutto». Inserendosi in un vastissimo dibattito sulle forme molteplici che il potere assume nella contemporaneità, Butler sottolinea come i nostri tempi siano universalmente caratterizzati da pratiche marcatamente biopolitiche che si arroccano il diritto di «far vivere» o «lasciar morire» discernendo proprio tra «vite che vale la pena salvaguardare e vite per cui non vale la pena farlo». Lo stato Italiano, per esempio, «lascia morire» i migranti al largo delle sue coste in nome della difesa dei suoi confini e, dunque, della sua identità. L’esempio è calzante non solo per la tragica applicazione letterale della formula, ma anche perché supporta altri due punti cruciali dell’analisi di Butler: in primo luogo che l’iniqua distribuzione della dignità di lutto sia la forma più compiuta del razzismo contemporaneo e, in secondo luogo, il sistemico ricorso degli stati – e degli apparati militari e di polizia – a logiche e retoriche belliche che ricorrono al principio di difesa e autodifesa, riuscendo così a occultare il proprio carattere violento proiettandolo su chiunque rivendichi che anche la sua vita deve contare, deve essere degna di lutto e perciò protetta.
Si tratta di un insieme di considerazioni tutt’altro che avulse da un contesto in cui un appello al cessate il fuoco, motivato da principi etici oltre che dall’evidenza che la guerra generi terrorismo, viene accusato di fiancheggiare un’organizzazione terroristica e quindi, in ultima istanza, di essere esso stesso violento. Le piazze che chiedono il cessate il fuoco sono dunque un problema di ordine pubblico e le loro rivendicazioni criminalizzate. Mentre chi criminalizza i pacifisti avalla pubblicamente il bombardamento della Striscia di Gaza – cioè bombe su una popolazione civile disarmata – come autodifesa dello stato di Israele. Il punto è infine piuttosto evidente: per il discorso occidentale egemone le vite dei palestinesi non sono degne di lutto, le possiamo tranquillamente «lasciar morire», perché questo discorso è intriso di razzismo e islamofobia e in quello scenario il nostro «prossimo», quello che ci «assomiglia di più» è Israele – che guarda caso è il più forte di turno. Seguendo Butler, possiamo leggere tutta questa vicenda come esempio emblematico dell’azione fantasmatica del razzismo che interpreta, su un piano tanto di conscio quanto di inconscio collettivo, intere popolazioni come una minaccia imminente di distruzione. «In casi come questi – scrive la filosofa – appare evidente come una concezione paranoica e razzista dell’autodifesa autorizzi la distruzione di un’altra popolazione».
Oltre il nazionalismo, rompere la spirale guerra-terrorismo
Può essere utile tornare all’immagine della «spirale guerra-terrorismo» tematizzando come un elemento trasversale al binomio sia il nazionalismo. Le guerre sono infatti mosse per difendere, o espandere, confini nazionali che sono infine confini identitari. Il terrorismo è un’affermazione di violenza volta a violare confini altrui in nome di altre identità, politiche e/o religiose che siano. Non è un caso che le due autrici a cui ci si è riferiti, Hannah Arendt e Judith Butler, siano due feroci critiche del modello istituzionale dello stato-nazione, così come sembra cruciale riportare che entrambe, per forgiare questa loro critica, ricorrano proprio a una tradizione anti-identitaria dell’ebraismo. Quest’ultima, facendo tesoro dell’esperienza diasporica e quindi di un’identità ebraica costituitasi nella «relazione etica con il non ebreo» (Butler), ha sempre avversato il progetto sionista individuando nelle frange più estreme del movimento (quelle da cui, del resto, successivamente nacque il partito di destra nazionalista Likud ora guidato da Netanyahu) l’espressione propria di un «fascismo ebraico» (Arendt).
Il dramma è questo: il nazionalismo e l’estrema destra dominano. Dominano nello stato di Israele, che è un paese che da decenni adotta politiche sempre più colonialiste e suprematiste, e dominano a Gaza, almeno finché il soggetto egemone sarà Hamas. Ma vale ancora una volta il principio ineludibile che i popoli sono un’entità polimorfa e mai coincidente con i governi. Contestualmente all’appello per il cessate il fuoco, occorre supportare in ogni modo possibile la sinistra israeliana e tutte le realtà ebraiche che sostengono la fine dell’occupazione e il riconoscimento dell’autodeterminazione palestinese, condizione senza le quali nessun processo di pace potrà mai avere luogo. Occorre al contempo fiancheggiare le organizzazioni laiche e democratiche palestinesi, sostenendo le realtà cooperativistiche e solidali, recuperando infine una lunga tradizione di autonomia e autogoverno che ha storicamente caratterizzato la regione e che i processi di radicalizzazione islamista hanno solo più recentemente offuscato. A tal proposito, è bene chiudere citando l’altra grande realtà impegnata a resistere in medio oriente, la lotta in seno al popolo curdo e la rivoluzione confederale nel nord-est della Siria e nell’ovest dell’Iraq. Una lotta per l’autodeterminazione e la giustizia sociale che, in un crocevia di nazionalismi ultra identitari e aggressivi colonialismi come quelli della Turchia di Erdogan e dell’Isis, è stata straordinariamente capace di pensare e realizzare forme organizzative e istituzionali inclusive e radicalmente democratiche, oltre il modello stato-nazionale. Il movimento pacifista deve saper fare di una tragica necessità virtù e cogliere l’opportunità del momento ripartendo da qui, riorganizzandosi attorno al sostegno di queste esperienze di resistenza all’odio e al terrore. Vent’anni dopo, sempre dalla stessa parte.
Daniele Bassi è dottore di ricerca in Scienze umane. Si occupa di filosofia politica e storia delle dottrine politiche con particolare attenzione ai temi legati ai processi di democratizzazione, alla nonviolenza e alla critica dell’organizzazione statuale.
16/11/2023 https://jacobinitalia.it
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