Le (false) promesse di Industria 4.0
Siamo circondati da entusiasti che pubblicizzano un meraviglioso nuovo mondo di “fabbriche intelligenti”. Tra questi vi sono rappresentanti dei governi come i ministri dell’industria del G7, le associazioni di imprenditori e datori di lavoro e gli amministratori delegati di grandi aziende, ma anche molte personalità del mondo accademico e addirittura sindacalisti. Cercano di convincerci che in un prossimo futuro una digitalizzazione del settore manifatturiero e persino dell’economia in generale accresceranno, in primo luogo, l’efficienza e la flessibilità di tutto il processo produttivo; in secondo luogo, cambieranno la catena del valore nella misura in cui le specifiche richieste del cliente potranno essere incorporate in tutte le fasi del processo di produzione unitamente ai relativi servizi. In terzo luogo, la digitalizzazione dell’industria dovrebbe offrire metodi di produzione supplementari alle piccole e medie imprese e, in quarto luogo, creare nuove opportunità di lavoro qualificato. Alla fine, tutti questi sviluppi contribuiranno a stimolare una nuova ondata di consumo di massa che porterà crescita economica ma anche uno sviluppo sostenibile.
In Germania sia le agenzie governative che le organizzazioni imprenditoriali sono molto favorevoli a ciò che chiamano “Industria 4.0”, ma anche i sindacati concordano con questa visione. Costoro presuppongono che siamo entrati in una quarta rivoluzione industriale che si accinge a cambiare profondamente il futuro del lavoro, perché le macchine intelligenti saranno in grado di interagire in modo autonomo con il mondo fisico. I rappresentanti dell’industria prevedono soprattutto miglioramenti sostanziali nella mitigazione degli errori di produzione e nella possibilità di aumentare l’agilità dei processi produttivi, accrescendo così la produttività e la profittabilità. Attualmente le imprese devono scegliere tra la una produzione veloce ed efficiente oppure flessibile e ‘individualizzata’. Con l’aiuto di un sistema di produzione cyber-fisico (detto anche “fabbrica intelligente”) le aziende potrebbero utilizzare macchine per la produzione ‘mobili’ e ‘modulari’, collegate alla rete aziendale e tali da poter essere riconfigurate dinamicamente. Potenzialmente, una stampante 3D potrebbe permettere alle aziende di produrre lotti della dimensione di un solo prodotto.
In Germania il settore manifatturiero rappresenta ancora il 22% del PIL ed i prodotti ‘commerciabili’ provenienti da tale settore costituiscono la spina dorsale del suo sistema industriale nella misura in cui rappresentano l’80% delle esportazioni tedesche. In questo contesto “Industria 4.0” sembra essere promettente, perché la digitalizzazione della produzione potrebbe ridurre i prezzi, aumentare la domanda e creare occupazione, in particolare nelle aziende produttrici di automazione. Pertanto, anche il sindacato dei metalmeccanici è attivamente coinvolto in un’alleanza tra governo e associazioni di imprese sulla “Piattaforma Industria 4.0”. Tuttavia, un’indagine condotta dalla Confederazione dei sindacati tedeschi (DGB) indica che due terzi dei lavoratori dicono di non avere alcuna influenza su come la tecnologia digitale viene impiegata sul proprio posto di lavoro e la metà degli intervistati si lamenta di un aumento del carico di lavoro a causa della digitalizzazione. Nonostante ciò, il sindacato dei metalmeccanici è preoccupato dall’idea di poter bloccare questi processi e rinunciare così ai benefici derivanti dalla digitalizzazione – quali un miglioramento qualitativo delle posizioni lavorative, una migliore cooperazione e partecipazione tra gruppi di dipendenti, la sostituzione di mansioni molto faticose e poco attraenti, nonché nuove opportunità di fornire ai lavoratori una più completa formazione e dunque maggiori possibilità di sperimentare una mobilità ‘verso l’alto’. Vi è una condivisione di vedute sul fatto che le imprese tedesche possano essere le avanguardie del processo di digitalizzazione e sul fatto che le perdite previste in termini di occupati – fino ad un 7% dei 43 milioni di posti di lavoro al momento esistenti – potrebbero essere compensate, almeno in gran parte, dai nuovi posti di lavoro che verranno creati aumentando le esportazioni (anche se ciò significa esportare la disoccupazione all’estero).
Fin dall’inizio del XXI secolo la produttività ed i livelli di occupazione non si sviluppano più in parallelo, né in Germania né in nessun altro paese europeo. Bisognerebbe dunque esser consapevoli che, nel momento in cui le nuove tecnologie digitali verranno a maturare, molti posti di lavoro saranno molto probabilmente automatizzati, in quanto ‘digitalizzazione’ significa innanzitutto ‘razionalizzazione’. Nell’attuale fase iniziale di sviluppo di queste nuove tecnologie gli effetti quantitativi della digitalizzazione sul mercato del lavoro sono difficili da stimare ed i numeri disponibili finora sono spaventosi. Secondo un sondaggio lanciato nel gennaio 2016 dal World Economic Forum, i robot, l’automazione e l’intelligenza artificiale potrebbero costare 5 milioni di posti di lavoro nelle grandi aziende delle 15 principali economie del pianeta. La maggior parte dei posti di lavoro che si trovano in pericolo sono i lavori d’ufficio ed in ambito amministrativo, ma anche le mansioni a bassa e alta qualificazione nel settore manifatturiero e delle costruzioni potrebbero essere profondamente colpite.
In una nota informativa di aprile di quest’anno McKinsey Global Institute stima che finora gli Stati Uniti abbiano sfruttato il 18% del loro potenziale dalle tecnologie digitali, mentre l’Europa ne ha sfruttato solo il 12% e le altre economie avanzate ancora meno. In Germania come in molti altri paesi “Industria 4.0” esprime ancora un concetto relativo a ‘quel che potrebbe essere’ piuttosto che a quel che è già oggi. Pertanto non dobbiamo prendere la spinta verso una digitalizzazione dell’industria come un dato immutabile. Dovremmo invece considerare le numerose sfide e i rischi di che questa tendenza comporta per poi valutare se ed in che modo dovremo incoraggiarla oppure opporvi resistenza.
Tre tipi di sfide dovrebbero catturare la nostra attenzione: in primo luogo, quelle tecnologiche; in secondo luogo, le conseguenze sociali di un’ulteriore sostituzione di lavoro umano da parte di macchine e algoritmi; e, in terzo luogo, le implicazioni ecologiche (e geopolitiche) dei sistemi produttivi digitali. Discuterò ora brevemente queste sfide.
Le sfide tecnologiche di “Industria 4.0”
Giova innanzitutto ricordare come le reti di fibra ottica siano comunemente considerate come il futuro delle reti (tanto per le aziende quanto per i consumatori), in quanto consentono una velocità di trasmissione notevolmente maggiore rispetto alle loro controparti basate sul rame. Tuttavia, queste reti sono quasi inesistenti in Germania, così come in Italia o in Austria, Polonia, Croazia e Serbia; in tutti gli altri paesi europei questo tipo di reti ha già una penetrazione sul mercato che oscilla tra il 20 e il 45%.
Un secondo tipo di precondizioni tecnologiche per lo sviluppo di “fabbriche intelligenti” comprende un’interfaccia standardizzata di programmazione delle applicazioni, un comune linguaggio dei dati e una crescente integrazione di sistemi che fino ad oggi erano largamente autonomi, come ad esempio quelli riguardanti le aree della produzione, della logistica, dell’approvvigionamento energetico o della gestione degli immobili e degli edifici.
Infine, la transizione delle imprese verso il ‘panorama del digitale’ le espone ai pericoli di attacchi informatici da parte di individui (sia interni che esterni all’azienda) così come da computer, social networks, cloud e da organizzazioni criminali.
Non sorprende che i sostenitori della tendenza inarrestabile alla digitalizzazione presuppongano che tutte queste sfide tecnologiche verranno affrontate con successo in un prossimo futuro in Europa – senza mai soffermarsi, tra l’altro, sul quanto costerà per le aziende e per il governo.
Anche se condividessimo questa visione delle cose, non possiamo però fare a meno di domandarci se saremo in grado di accogliere tanto favorevolmente anche le implicazioni economiche e sociali di un’ulteriore digitalizzazione sul lavoro e sui lavoratori nonché, infine, sulla società nel suo complesso, dal momento che tale processo colpirà anche i meccanismi di ‘controllo’ su quest’ultima e dunque la democrazia e la privacy.
L’impatto sociale della digitalizzazione sui lavoratori
Tanto per cominciare, i proponenti di “Industria 4.0” promettono che i processi di routinee le attività fisicamente faticose verranno automaticamente eseguite dalle macchine, sicché gli esseri umani diverranno sempre più ‘supervisori delle macchine’ piuttosto che ‘produttori attivi’. Allo stesso tempo, le aziende si affideranno sempre meno ad una forza lavoro assunta con contratti a tempo indeterminato e, al contrario, effettueranno assunzioni on demand, ossia solo nei momenti di bisogno. Pertanto, il rapporto di lavoro subordinato finirà per trasformarsi nell’assegnazione di una mansione ed i nuovi posti di lavoro che verranno così a crearsi saranno privi di una chiara collocazione all’interno dell’organizzazione aziendale. In tal modo i legami con l’impresa saranno tagliati e i sindacati avranno difficoltà ancora maggiori di oggi a comunicare con i dipendenti e a rappresentare i loro interessi.
Tutti i lavori di routine, inclusi i processi standardizzabili e anonimi – ed i servizi digitali in particolare – diverranno soggetti a delocalizzazioni (off-shoring) e ad ulteriori pressioni al fine di aumentarne l’efficienza, mentre le attività che comportano un’interazione umana diretta saranno sempre più apprezzate. Tutto ciò comporterà anche il fatto che i servizi digitali verranno perlopiù “spezzettati” in parti sempre più ridotte cosicché il relativo lavoro potrà essere delegato ad una moltitudine di “operai virtuali”. Andrà pertanto ad espandersi il cosiddetto crowd-working ed il lavoro per mezzo di piattaforme cloud.
Come già sappiamo, analogamente a tanti altri tipi di lavoretti più o meno casuali, le retribuzioni dei lavoratori delle piattaforme cloud o dei cosiddetti “click-workers” – i quali svolgono le proprie prestazioni a cottimo – sono spesso molto basse e corrisposte in modo irregolare, mentre i lavoratori sono invisibili e isolati. Anche l’errato inquadramento dei lavoratori come ‘lavoratori autonomi’ non è un nuovo fenomeno; così come in altri settori (vestiario, costruzioni o trasporti) tale ‘falso etichettamento’ ha lo scopo di azzerare i benefits per i dipendenti, evitare il pagamento delle tasse a carico delle imprese e non rispettare le leggi sul lavoro. Inoltre, il carattere transnazionale delcrowd-work rende molto più difficile individuare ed usufruire della giurisdizione nazionale preposta alla regolamentazione dei tempi di lavoro, dei salari e delle disposizioni in materia di sicurezza sociale.
Come se non bastasse, la divisione tra lavoro e vita privata sta scomparendo e ciò farà crescere nuovi fattori di stress, in particolare per le donne. Da questo punto di vista, il futuro mondo del lavoro digitale rispecchia quel “sistema di lavoro su commissione” tipico delle prime fasi del capitalismo, che permetteva ai lavoratori e soprattutto alle lavoratrici una qualche forma di flessibilità col fine di sobbarcarsi e di bilanciare il lavoro domestico e di cura, il lavoro agricolo ed i lavoretti ‘su commissione’.
Vi è poi un aspetto inerente la cosiddetta “economia dei lavoretti” (gig economy) che potrebbe diventare un problema ancora più grave e che non può che riguardare anche i sindacati. Si tratta del fatto che l’ideologia neoliberista è riuscita a catturare le menti della gente comune, specialmente dei giovani. Molti di loro si percepiscono come “micro-imprenditori” o come “padroni di sé stessi”, anche se solo in rari casi lavorano davvero autonomamente. Capita inoltre che l’inquadramento, più o meno volontario, come lavoratore autonomo non sia affatto associato alla possibilità di far carriera o di uscire da una condizione di povertà. Al contrario, sempre più spesso il lavoro formalmente non subordinato o “indipendente” è una trappola per i giovani, i quali finiscono per trovarsi rinchiusi in un circolo vizioso che comprende lavoro autonomo e spesso di scarsa qualità, pessime condizioni di lavoro ed una bassa retribuzione.
In questo contesto, abbiamo buone ragioni per prevedere che l’irregolarità, la flessibilità, l’incertezza, l’imprevedibilità e la presenza di altri svariati tipi di “rischio” saranno la nuova ‘condizione normale’ del mondo del lavoro nell’era imminente del capitalismo digitale globale. Non importa se i lavoratori verranno classificati come “precari”, come “informali”, “atipici” o come lavoratori per conto proprio. Sulla piazza del mercato globale essi saranno condannati ad un’occupazione instabile, a salari o redditi sempre più bassi e a condizioni di lavoro ancora più pericolose; non potranno godere, se non sporadicamente, delle misure di assistenza e previdenza sociale e spesso sarà loro negata la possibilità di prender parte ad associazioni e sindacati. Coloro che ancora svolgeranno il proprio lavoro in fabbriche ed uffici saranno controllati da applicazioni e algoritmi, dove quest’ultimi saranno l’equivalente della vecchia catena di montaggio – ma molto più difficili da interrompere.
In poche parole, anche in misura maggiore rispetto ad ora, la maggior parte dei lavoratori digitali saranno coloro che andranno a svolgere quelle mansioni di cui vi è di volta in volta bisogno, in modo permanente o temporaneo, ma a cui comunque sarà negata ogni protezione formale e continuativa – incluse le tutele riconosciute dalle leggi sul lavoro – durante lo svolgimento della loro prestazione. Solo una piccolissima parte della forza lavoro complessivamente impiegata – a livello globale, europeo e nazionale – riuscirà invece ad accedere a lavori regolari e regolamentati, più qualificati e meglio pagati.
Insomma, la questione cruciale non è perché la mancanza di sicurezza sta tornando a colpire anche i lavoratori delle economie avanzate di Europa e Nord America, ma come e perché è stato possibile ridurre tale insicurezza per una piccola parte della popolazione mondiale per un paio di decenni dopo la seconda guerra mondiale.
È ovvio che il crescente disordine dovuto all’attuale meccanismo di accumulazione del capitalismo globale è strettamente legato al dissolversi dello Stato come ‘mediatore’ tra capitale e lavoro nell’era del neoliberismo, un processo quest’ultimo che in tutte le parti del mondo ha contribuito alla crescita delle disparità e delle disuguaglianze. Quella in cui ci troviamo è una fase della globalizzazione di stampo oligarchico, dove solo le nazioni economicamente più forti ed il 20% più ricco della popolazione, ed in particolare l’1%, possono avere aspettative effettivamente positive, dal momento che neppure le politiche di stampo liberale a sostegno del welfare trovano più spazio sull’agenda politica. Di conseguenza, vediamo la dissoluzione delle classi e della coscienza di classe.
Certo, la tutela dei diritti dei lavoratori è rimasta relativamente più forte per i lavoratori con contratti stabili delle grandi imprese del settore manifatturiero, ma milioni di lavoratori sono intrappolati in una condizione segnata da bassi salari e scarsissime possibilità di avanzamento. In Germania questo è dovuto in parte al fatto che a metà degli anni Novanta sono state implementate, con l’appoggio dei sindacati, misure di contenimento salariale a danno dei lavoratori altamente qualificati e ciò ha contribuito a migliorare la posizione competitiva delle imprese tedesche rispetto ai suoi partner commerciali in Europa e non solo. Un altro meccanismo importante che ha permesso all’industria tedesca di battere la concorrenza delle imprese italiane, greche, spagnole e francesi è consistito nel processo di decentramento della contrattazione sindacale senza precedenti che è seguito alla riunificazione tedesca e all’accesso ad un bacino di forza lavoro a basso costo in alcuni paesi dell’Unione Europea. Ciò ha condotto a un drastico calo del costo unitario del lavoro e ad un drammatico declino della forza dei sindacati.
Inoltre, le riforme del mercato del lavoro e del sistema di welfare promosse dalla coalizione rosso-verde sotto la guida del cancelliere Gerhard Schröder nei primi anni 2000 hanno spinto milioni di lavoratori in occupazioni con bassi salari e scarse tutele, mentre al tempo stesso hanno aumentato la concorrenza tra quest’ultimi. Di conseguenza abbiamo oggi in Germania non solo un’industria piuttosto competitiva ma anche uno dei più grandi bacini in Europa di forza lavoro con basso salario. La disuguaglianza, la sottoccupazione e la povertà sono in aumento: circa 12,5 degli 80 milioni di abitanti della Germania si trovano al momento sotto la soglia di povertà relativa, ossia guadagnano meno del 60% del reddito mediano. Anziani, genitori single e ancor più bambini sono le categorie di persone per le quali è più alta la probabilità di scivolare sotto tale soglia di povertà. Una tendenza particolarmente inquietante, infine, riguarda il crescente numero di working poors, ossia di “lavoratori poveri”.
Quali lezioni possiamo apprendere dall’esempio tedesco per quanto riguarda le prossime lotte su “Industria 4.0”?
In primo luogo, dobbiamo ricordare che in una fase storica del tutto particolare (quella che si dispiega dopo la caduta del muro di Berlino e che vede l’economia mondiale in forte espansione) i sindacati hanno accettato riforme improntate all’aumento della flessibilità del mercato del lavoro, con l’effetto di favorire la parte datoriale. Questo ha portato a ridurre le ore lavorative, a rendere i lavoratori maggiormente precari ed a ridurre le loro retribuzioni. Questo insieme di misure si è rivelata molto vantaggiosa per i datori di lavoro, poiché ha contribuito ad aumentare la competitività delle loro imprese – rispetto a molti dei loro partner commerciali europei.
In secondo luogo, vi è stata una enorme mancanza di tutele a difesa dei lavoratori e dei loro delegati: a livello aziendale, con rapporti di forza sfavorevoli, i sindacati ed i rappresentanti dei lavoratori hanno dovuto contare solo su sé stessi. In questo contesto, costoro sono stati disposti ad accogliere i cambiamenti peggiorativi richiesti dai datori di lavoro – a scapito soprattutto dei lavoratori meno garantiti.
In terzo luogo, a seguito dell’euforia suscitata dalle nuove prospettive di crescita economica, anche i sindacati – insieme a mass media, mondo accademico, rappresentanti del governo e uomini d’affari – hanno accolto con entusiasmo la possibilità di conseguire grandi incrementi di produttività grazie ai processi di cambiamento tecnologico, forieri – seppur nel lungo periodo – di crescita economica e magari anche di domanda di lavoro da parte delle imprese.
Infine, soffermandoci ancora sulle le relazioni tra “Industria 4.0” e il mondo del lavoro, domandiamo: in che misura i sindacati (in Germania o altrove) dovrebbero fare affidamento su questa prospettiva, apparentemente progressista, che racconta di un tanto inevitabile quanto desiderabile futuro digitalizzato dell’industria? Eppure dovremmo aver imparare la lezione: l’automazione verrà introdotta solo laddove ciò sarà profittevole per le aziende. Ma affinché tali profitti si materializzino le imprese hanno bisogno, in primo luogo, di materie prime a buon mercato e, in secondo luogo, di un mercato che esprima una domanda per i loro prodotti. Se si tiene conto di questo è facile mettere in luce i punti critici di questo disegno di sviluppo: se i robot andranno a sostituire un gran numero di lavoratori, così come previsto da numerose istituzioni internazionali da svariati think tank, creando in tal modo una disoccupazione di massa ancor più grave dell’attuale, e se i salari subiranno un’ulteriore spinta al ribasso dal momento che solo i lavoratori altamente qualificati potranno sperare di ricevere una retribuzione decente, sorgono immediatamente due domande: primo, le imprese a chi venderanno tutti questi “prodotti intelligenti”?; e secondo, le materie prime e l’insieme degli inputs necessari ad avviare i processi produttivi come potranno non aumentare notevolmente di prezzo nel momento in cui tutte le economie avanzate del pianeta intraprenderanno la stessa strada in direzione dell’Industria 4.0?
Vincoli ecologici e vincoli geopolitici di Industria 4.0
A questo punto non possiamo fare a meno di affrontare, seppur brevemente, la questione degli inputs necessari alla digitalizzazione dell’economia. Si tratta di un problema che finora non è stato affrontato in maniera adeguata né dai responsabili della politica economica, né dai rappresentanti dell’industria, né dai sindacati. Anche se i costi della transizione verso “Industry 4.0” sono considerati tali da poter essere gestiti senza grossi problemi perlomeno da parte delle più grosse aziende – e anche se l’impatto sui lavoratori è in gran parte ignorato sia dai governi che dai sindacati – è necessario sottolineare che il futuro di “Industria 4.0” dipenderà molto da come i prezzi dei metalli e di tutti i materiali necessari alla produzione dei prodotti tecnologici, nonché del petrolio, si comporteranno quando le economie di tutto il mondo investiranno in modo sempre più massiccio 1) nella produzione di energia rinnovabile; 2) nella mobilità elettrica; 3) nella produzione digitale; mentre 4) i consumatori continueranno ad acquistare ogni tipo di dispositivo mobile (come smartphone e tablet); 5) i governi proseguiranno ad investire nel comparto militare (con tanto di acquisto di moderni droni e simili). Non va dimenticato infatti che tutte queste nuove tecnologie, e dunque le industrie che le producono, dipendono in modo cruciale dalla disponibilità di petrolio e di ‘metalli rari’ come il rame, il nichel, l’argento, l’uranio, il piombo e in particolare dalle cosiddette “terre rare” come l’indio, il gallio, il germanio, il litio e molti altri.
Numerose tecnologie informatiche del tutto essenziali per lo sviluppo di “Industria 4.0” – come i sensori, i microchip di nuova generazione, le tecnologie di visualizzazione (display technologies) e i cavi in fibra ottica – richiedono enormi quantità dei suddetti minerali rari.
Questi minerali sono diventati “rari” per una serie di ragioni:
- perché alcuni di questi (ad esempio il rame) sono già esauriti e non è affatto scontata la possibilità di trovare nuove miniere ricche di tali metalli da cui attingere;
- perché la produzione di molti di questi metalli non aumenterà, anzi più probabilmente potrebbe ridursi, e diverrà sempre più concentrata nei siti produttivi esistenti;
- perché i prezzi dei metalli rari e altamente richiesti sperimenteranno un sostanziale aumento nel prossimo futuro;
- in queste circostanze, si attingerà sempre più dalle miniere con una concentrazione via via più bassa dei suddetti metalli rari. Tuttavia, quanto minore è la concentrazione, maggiori sono le quantità di sostanze chimiche tossiche nonché di acqua e di energia che saranno necessarie per l’estrazione dei minerali – sicché sempre più deleterio sarà l’impatto dei processi di estrazione mineraria sulla natura, i lavoratori e le popolazioni locali;
- infine, ciò che peggiora ancor di più le cose è che i metalli rari hanno un tasso di riciclaggio molto basso; addirittura le ‘terre rare’ hanno un tasso di riciclaggio inferiore all’uno percento.
In poche parole, solo un manipolo di ignoranti potrebbe negare che stiamo affrontando, per svariate ragioni, dei limiti alla crescita economica. Ne consegue che dovremmo evitare di costruire il nostro futuro sullo stesso modello socio-economico ed ambientale quale quello sviluppatosi fino ad oggi. Tuttavia, i limiti alla crescita derivanti dagli attuali livelli di inquinamento prodotti dal capitalismo vengono ignorati, e probabilmente continueranno ad essere ignorati fino a che non verrà raggiunto un “punto di non ritorno” tale da far collassare l’intero sistema economico, sociale e naturale. Limiti alla crescita economica potrebbero però manifestarsi anche prima di tale crollo a causa di stringenti vincoli inerenti alla disponibilità delle risorse naturali e ciò potrebbe avere un impatto sul processo di accumulazione capitalistico – come in passato, tale scenario sarà accompagnato da tensioni geopolitiche che sfoceranno in conflitti e guerre violente.
Mentre ci avviciniamo al raggiungimento del “punto critico” per il sistema ecologico e ad un picco di produzione con relativo consumo di numerose risorse naturali – inclusi i metalli rari necessari allo sviluppo di “Industria 4.0” –, chi volesse muovere una critica radicale a questo stato di cose dovrebbe fare i conti con la conclusione che non sarà possibile costruire ampie e potenti alleanze internazionali tra i movimenti sociali e dei lavoratori (contro il potere globale di miliardari e multinazionali) finché continueremo a riesumare modelli e soluzioni politiche proprie del secolo scorso (basati sulla crescita infinita in un pianeta finito) al fine di risolvere le attuali catastrofi planetarie.
Sì, ora possiamo acquistare un selfie toaster, che abbrustolisce il toast imprimendogli sopra un’immagine della nostra faccia; oppure un porta-carta igienica che invia un messaggio al nostro cellulare quando la carta igienica sta per terminare. E di certo “Industria 4.0” riuscirà, tramite operazioni di marketing, a far sì che tutti noi compreremo beni e servizi di cui non abbiamo alcun bisogno. Ma i sacrifici ecologici e sociali che dovremo sopportare per questo tipo di “progresso” non sono evidentemente accettabili. Ciò di cui abbiamo invece estremo bisogno è uno sforzo politico finalizzato a superare il divario globale tra lavoro formale e informale, tra lavoratori ‘garantiti’ e precari, tra persone eccessivamente ricche ed abitanti poveri, esclusi e marginalizzati del nostro comune pianeta Terra.
(traduzione di Andrea Coveri)
Il testo pubblicato è la traduzione della relazione al convegno “Il futuro dell’industria e del lavoro, Industria 4.0” organizzato da FIOM / CGIL, Torino 28 settembre 2017
2/10/2017 http://sbilanciamoci.info
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