Le giornate di Pisa

Sarebbe sbagliato declassare le manganellate agli studenti e le mobilitazioni dei giorni successivi come fatti episodici oppure locali: un racconto e un bilancio della mobilitazione

Storia di scuola, di bombe e manganelli, i fatti del 23 febbraio a Pisa hanno generato un riverbero mediatico cui la città non assisteva da anni. L’occasione è stata una giornata di mobilitazione, in concomitanza con lo sciopero indetto dal sindacalismo di base, sull’onda di una protesta che ormai da mesi in tutta Italia chiede giustizia per la Palestina, in solidarietà della quale studentesse e studenti si erano dati appuntamento in piazza. Le parole chiave e le richieste, chiare fin dall’inizio: un immediato cessate il fuoco a Gaza e lo stop al genocidio del popolo palestinese. 

Quanto è poi successo quella mattina è noto a chiunque, vista l’ampia eco mediatica e la diffusione di video inequivocabili: all’altezza dell’ingresso di Piazza dei Cavalieri e di fronte al Liceo artistico Russoli, il corteo studentesco si è trovato chiuso da ambo i lati e senza vie di fuga da parte della polizia, che ha cominciato a caricare senza alcun motivo violentemente e ripetutamente. Le riprese e le testimonianze descrivono un vero e proprio pestaggio, con una violenza spropositata, ingiustificabile e completamente inedita anche in relazione all’atteggiamento, all’età e al profilo dei manifestanti, e che infatti ha immediatamente provocato l’indignazione della città. Nelle ore successive il bilancio in ospedale è stato di dieci minorenni feriti, con contusioni e varie escoriazioni, di cui due ragazzi anche con dita fratturate, e di tre maggiorenni soccorsi, di cui il più grande di venticinque anni, con vari traumi cranici ed escoriazioni alla testa. 

Nel frattempo, la risposta pubblica si è mossa e per primo – significativamente – il corpo docente del liceo davanti al quale si è verificata la mattanza, con un comunicato di immediata diffusione in cui si denunciava una repressione di polizia inspiegabile quanto brutale contro un corteo pacifico, attraversato anche da studentesse e studenti della stessa scuola; dal racconto dei docenti si ricavano anche dettagli inquietanti quali l’impossibilità per le ambulanze di raggiungere i feriti. Nelle ore successive, prese di posizione e comunicati del mondo della scuola, dell’università, dell’associazionismo, delle forze politiche e sindacali si sono rapidamente andati sommando, con una grande dimostrazione di solidarietà che ha prodotto l’esito, la sera stessa di venerdì, di una reazione collettiva di tutta la città: una piazza composita promossa dai gruppi studenteschi e composta di migliaia di persone, sfociata in un corteo spontaneo che si è infine ripreso quella Piazza dei Cavalieri, che era stata resa inaccessibile dalla polizia.

Le parole impronunciabili

Sarebbe un grave errore raccontare le violenze della polizia avvenute a Pisa come un fatto isolato o un «semplice» episodio di abuso di potere, risarcito dalla risposta democratica e di cittadinanza della sera. In quella stessa giornata, infatti, anche a Firenze si caricavano duramente le studentesse e gli studenti in corteo per la Palestina, e nelle settimane precedenti altre voci, in varie forme, venivano duramente silenziate dal governo. In tutta Italia, assistiamo da lungo tempo a una metodica ed esplicita strategia da parte dei governi tanto di centrodestra che di centrosinistra di dura repressione  nei confronti dei movimenti (casi emblematici sono il movimento No Tav o i movimenti per il diritto all’abitare) e contro ogni forma di dissenso, particolarmente nei confronti di chi oggi manifesta per ciò che sta accadendo nella striscia di Gaza, uscendo dai binari della narrazione mediatica ufficiale. Una cornice complessiva in cui si inseriscono con continuità la restrizione degli spazi in cui si può parlare della Palestina, la censura generale che ha colpito anche il servizio pubblico (prima e dopo l’esplosione del «caso» Sanremo con le dichiarazioni di Ghali) e le cariche ai presidi davanti alle sedi Rai di Bologna e Napoli. Mai come in questi mesi è avvenuta una divaricazione così radicale fra il dissenso della popolazione, che con preoccupazione e rabbia crescente domanda la fine del massacro di civili e condanna le azioni e le retoriche di Israele, e la complicità istituzionale-mediatica, strettamente connessa agli interessi e ai rapporti di forza rispetto al governo israeliano, a partire dal fatto che il nostro paese è un massiccio esportatore di armi in Israele.

Oltre all’impronunciabile «genocidio», la stessa parola «pace» è ormai trattata alla stregua di uno slogan potenzialmente sovversivo; soprattutto, quando smette di essere usata come paravento di una posizione «neutrale» e si traduce in una richiesta di azioni concrete. In parallelo, il nostro paese, l’Europa e il blocco delle democrazie occidentali compartecipano da almeno due anni a una generale preparazione mediatica dell’eventualità di una guerra, che si traduce in una parallela conversione dell’economia – si pensi ad esempio alle ultime dichiarazioni della Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen – e, come già in passato, in un’opera di normalizzazione della prospettiva bellica che investa anche il mondo della cultura e del discorso pubblico: quel discorso rotto e interrotto dalle grida e dalla militanza quotidiana di queste giovani generazioni.

Un attacco ai luoghi della formazione

In questa operazione ideologica, nutrita anche dalla volontà di un’educazione alla quieta obbedienza, si inserisce anche l’attacco senza precedenti che la destra indirizza ai luoghi della formazione e del sapere, e in particolare al mondo della scuola e dell’università. Una rapida e importante reazione è arrivata da Pisa proprio dagli studenti medi, che la settimana successiva, sabato 2 marzo, sono riusciti a portare in piazza diecimila persone a fianco della Palestina e con parole d’ordine molto chiare: in quella giornata si può riconoscere uno dei primi segnali di una frattura che finalmente pare compiersi, anche nel mondo della formazione, rispetto alla violenza e pervasività di questa narrazione ufficiale. 

Se la cittadinanza di Pisa si è stretta attorno ai manifestanti manganellati e alle loro rivendicazioni, è anche perché la reazione della polizia ha evidentemente assunto, quella mattina, il profilo di una vera e propria intimidazione, un atto dimostrativo volto a evitare che si ripetesse quanto era successo nel novembre scorso, quando un gruppo di studenti era riuscito a stendere dalla Torre di Pisa una grande bandiera della Palestina: un’immagine potentissima che ha fatto il giro del mondo. La gravità di quanto successo lo scorso 23 febbraio assume così un’accezione – se possibile – persino più preoccupante, a cui si aggiungono due elementi anche simbolicamente importanti: la carica violenta di un gruppo di giovani disarmati e a volto scoperto di fronte a una scuola superiore e uno sbarramento che ha sorprendentemente negato al corteo l’ingresso nella più grande piazza cittadina, che da sempre, con la presenza della Scuola Normale Superiore e numerosi dipartimenti dell’Università di Pisa, rappresenta un luogo di incontro e di cultura.  

Le menzogne eversive

Sia a livello cittadino che nazionale, a conferma della divaricazione crescente fra opinione pubblica e aggressività istituzionale, mentre dalla cittadinanza, dai luoghi di lavoro e della formazione arrivava un’univoca risposta di condanna della violenza della polizia, dal mondo politico si avviava una campagna di notizie false e pericolose: il deputato e consigliere comunale della Lega Edoardo Ziello e l’eurodeputata pisana leghista Susanna Ceccardi hanno fin da subito raccontato una versione mistificata di quanto accaduto in piazza venerdì mattina, difendendo le forze dell’ordine e attaccando prima studentesse e studenti, poi addirittura gli insegnanti e i genitori come responsabili morali di modelli educativi pericolosi; il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli è stato invece fra i primi, con un post sui social, ad attribuire alla manifestazione dei propositi violenti e antisemiti, asserendo che il corteo avrebbe cercato di marciare sulla Sinagoga. Così una pura menzogna, lontanissima dalle intenzioni di chi era in piazza e impossibile da credere per chiunque conosca la topografia di Pisa (la Sinagoga si trova in tutt’altro quartiere e in direzione opposta a quella del corteo), ha trovato legittimazioni nel dibattito nazionale: con alcune variazioni, nei giorni successivi la linea del governo Meloni è stata sostanzialmente quella di attribuire a un corteo pacifico un profilo potenzialmente «terroristico» per giustificare un’ingiustificabile repressione.    

Come chiarito in molte occasioni anche da chi si occupa direttamente del tema – ad esempio la relatrice Onu Francesca Albanese – questa strategia di delegittimazione allarmistica, anche senza alcun rapporto con la realtà, di chiunque provi a parlare di Palestina è una delle strategie del discorso pubblico nazionale e internazionale almeno dal 2001 in poi, e ha stavolta assunto, nelle posizioni del governo e della destra pisana, i tratti di una menzogna eversiva, con l’obiettivo di produrre preoccupazione e panico nella cittadinanza. Il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, alla stampa e poi in Parlamento, ha ribadito la posizione e ripreso le stesse false notizie, promuovendo inoltre la retorica del «corteo fuori legge», in cui la responsabilità di venerdì è attribuita totalmente ai manifestanti. Nonostante la presa di posizione di condanna e le parole di monito del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la giustificazione dell’azione della polizia è stata rimarcata, da ultimo, anche dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che ha avviato così una vera frattura anche sul piano istituzionale sui fondamenti dello stato di diritto del nostro paese. 

In questo clima appare evidentemente sotto attacco anche la libertà stessa di manifestare; come ricordato, fra gli altri, dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky in una recente intervista, questo è il primo diritto a essere colpito nei regimi autoritari. In tutti questi anni abbiamo assistito a ripetuti tentativi di manomissione dell’impianto democratico e costituzionale in modo bipartisan fino ad arrivare alla proposta di riforma per il modello presidenzialista del governo Meloni non si può considerare se non alla luce di quest’idea di uno stato di diritto fondato sull’uso del manganello. Sono del resto queste premesse ad aver dato l’agibilità politica e retorica che lo scorso gennaio, proprio di fronte a un corteo pro-Palestina, ha permesso a un funzionario in divisa di dichiarare senza scomporsi: «Mattarella non è il mio presidente». La frattura è infine plasticamente incarnata nelle proposte che la destra fin da subito ha gettato non a caso nell’agone mediatico di quei giorni: dal Daspo per i manifestanti fatto aleggiare come ipotesi nelle primissime ore dal deputato Ziello, a una nuova riforma «lampo» e ad hoc delle regole dei cortei che da allora serpeggia nelle dichiarazioni di vari esponenti del Governo, sulla scia di quanto fatto attorno al tema dei rave party.

Come fu per il G8 di Genova, l’atteggiamento della destra è stato di totale e a tratti macchiettistica difesa tout court delle forze dell’ordine, mirata a generare un contesto di potenziale impunità dei membri della polizia. A molte persone non è sfuggito il dettaglio, contingente o meno, della presenza a Pisa ai vertici della catena di comando di Sebastiano Salvo, oggi questore della città toscana, ma vicequestore 23 anni fa nel capoluogo ligure. 

La frattura democratica e le contraddizioni sono arrivate anche in consiglio comunale a Pisa dove, da una parte, si assiste alla situazione paradossale che quello della città è uno dei pochi consigli comunali che non ha ufficialmente condannato la violenza della polizia, dall’altra che l’assemblea cittadina ha bocciato un ordine del giorno presentato dal nostro gruppo consiliare dal titolo «Difendiamo il diritto a manifestare nella nostra città. Solidarietà agli studenti e alle studentesse scese in piazza venerdì a Pisa per il cessate il fuoco a Gaza e violentemente ed ingiustificatamente picchiati dalle forze dell’ordine», per approvare invece, coi soli voti della maggioranza, un ordine del giorno promosso dalla giunta, in cui non si condanna in alcun modo la violenza e anzi si esprime vicinanza alle forze dell’ordine. 

In questa dinamica è particolarmente significativa la posizione del sindaco di Pisa Michele Conti, che all’indomani dei fatti aveva pubblicamente condannato la violenza della polizia, in apparente contrasto con la propria maggioranza e i partiti che lo sostengono, ma che ha invece dato prova di un completo voltafaccia in consiglio comunale, ricomponendosi con gli esponenti della sua maggioranza, abbracciando in pieno le loro parole di complicità e le loro mistificazioni. 

Un fiume in piena

Nel frattempo, cosa è successo in città nei dieci giorni fra il 23 febbraio e la grande manifestazione cittadina del 2 marzo fino al corteo promosso da Non una di meno l’8 marzo? Le varie componenti studentesche si sono mobilitate immediatamente, dimostrando ancora una volta un’estrema maturità, respingendo al mittente anche certa solidarietà paternalista e di principio e riportando invece al centro il merito del dibattito, cioè non le sole dinamiche della piazza del venerdì, quanto le motivazioni per cui erano scesi in piazza. Di fronte alla pressione del «circo mediatico» che per giorni ha visto la nostra città al centro dell’interesse nazionale, studentesse e studenti hanno saputo insistere nel ripetere con fermezza che bisogna continuare a mobilitarsi per fermare il genocidio del popolo palestinese. Non si sono fermati neanche i momenti di discussione, che sono stati molto più che partecipati, come quello organizzato dal neonato Coordinamento dei collettivi degli studenti medi, che ha lanciato il corteo del 2 marzo, o quello promosso dai gruppi universitari nell’aula magna di uno dei poli dell’Università di Pisa, in cui al centro di un dibattito complessivo sono state poste anche le questioni del ruolo della ricerca nelle dinamiche di guerra (con la consapevolezza che Pisa è una città in cui hanno sede tre università) e del boicottaggio delle multinazionali finanziatrici e sostenitrici di Israele. 

Una piazza convocata dagli studenti «contro bombe e manganelli» dalla quale è emersa in maniera inequivocabile la posizione della città: migliaia di persone si sono mobilitate seguendo la testa di un corteo di studentesse e studenti medi che ha chiesto in modo chiaro sia le dimissioni di Piantedosi, del Questore Salvo e di Ziello, sia che si fermi subito il genocidio in atto a Gaza, sia che vengano inseriti i codici identificativi nelle divise delle forze dell’ordine.

Tema, quest’ultimo, portato avanti con estrema urgenza da movimenti e associazioni ormai da decenni, ma sempre e sistematicamente ignorato dai governi di centrodestra e centrosinistra, dal Partito democratico al Movimento 5 Stelle, al di là della retorica di circostanza e delle dichiarazioni, che sempre più spesso durano il tempo di un tweet.

Di fronte al tentativo del governo e non solo di attivare una macchina della menzogna sulla presenza di manifestanti fuori legge e infiltrati nei cortei, e di un’operazione che ha provato strumentalmente a dividere in manifestanti «buoni» e manifestanti «cattivi» da criminalizzare, la città ha scelto ancora una volta da che parte stare, ha deciso di non lasciarsi trasportare da questa retorica, e anzi l’ha contestata e ribaltata.

A Pisa, nei giorni passati, c’è stato un fiume in piena, dal grandissimo valore politico ed emotivo: sono stati creati spazi collettivi di confronto, sono stati avviati e ripresi percorsi e discussioni sulla Palestina, si sono incontrati e messi in dialogo pezzi di cittadinanza con altri del mondo variegato dell’associazionismo cittadino e politico, essendo capaci di tenere insieme l’urgenza del fermare il genocidio del popolo palestinese e la lotta per la democrazia e contro la repressione. Dalle scuole e dalle università sta nascendo un movimento che rilancia in modo chiaro una nuova prospettiva di lotta a partire proprio da una discussione sui luoghi della formazione e della ricerca. 

Ciccio Auletta è consigliere comunale della lista Diritti in comune: Una città in comune-Unione Popolare.

12/3/2024 https://jacobinitalia.it/

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