Le Grandi Dimissioni, tra favola e realtà

Ogni estate porta con sé nuovi tormentoni. Nei casi migliori si tratta di motivetti da fischiettare sotto l’ombrellone (almeno per chi si può permettere di andare in vacanza). In altri casi, si tratta di “grandi temi” su cui discettare, spesso a sproposito, invocando i massimi sistemi e ignorando la realtà materiale delle cose.

Sulla scia di un fenomeno osservato negli Stati Uniti, la cosiddetta Great Resignation, su cui studiosi ed esperti dibattono ormai da mesi, anche in Italia è arrivato prepotentemente sulla scena il tema delle Grandi Dimissioni. Prima di andare a vedere qualche numero, è utile provare a tratteggiare come questo tema è stato declinato alle nostre latitudini, soprattutto sui settimanali della borghesia riflessiva e nei circoli della sinistra post-moderna: dopo gli ultimi due anni e mezzo di pandemia, lockdown, restrizioni e sofferenze varie, starebbe finalmente prendendo piede una sempre più diffusa presa di coscienza, che sta spingendo un numero di persone a riconsiderare le proprie priorità. Basta con la ricerca del successo e dei soldi a tutti i costi, la realizzazione passa anche dal perseguire le proprie passioni e dal conciliare lavoro e tempo libero in maniera più virtuosa (nelle versioni più radicali di questa storia, non mancano ovviamente riferimenti a un’imminente fine del lavoro e a un futuro in cui riceveremo tutti un reddito di creatività o cognitariato o qualcosa del genere).

Ma di cosa stiamo parlando, esattamente, quando si parla di Grandi Dimissioni? Un articolo recente di Repubblica fornisce le cifre: nel primo trimestre del 2022 ci sono stati, sul territorio italiano, 316.710 casi di dimissioni volontarie, in crescita rispetto agli oltre 227.000 dello stesso periodo di un anno fa ma anche rispetto ai 237.574 che si osservarono nel primo trimestre del 2019, quindi prima della pandemia. Sono numeri sufficienti per individuare cambiamenti epocali sullo sfondo? Decisamente no, soprattutto se si prosegue con la lettura dell’articolo. Prendendo come esempio il Veneto, si può osservare come, nell’arco di una settimana dalle dimissioni, quasi il 50% delle persone coinvolte abbia trovato già un nuovo lavoro, circa nell’80% dei casi esattamente nello stesso settore dove si lavorava prima delle dimissioni. Ripetiamo: chi si è dimesso – pochi o tanti che siano – lo ha fatto perché di fatto ha già trovato un altro lavoro (e sul tipo di lavoro che si trova ci torneremo fra poco). Parafrasando cioè il titolo di un articolo del New York Times, non è difficile rispondere alla domanda: dove sono le persone che si sono dimesse? Semplice, sono a lavoro.

Due ulteriori elementi contribuiscono a chiarire il fenomeno: l’Italia esce da lunghissimi mesi di chiusure di molteplici attività ai fini del contenimento della pandemia, in cui settori come la ristorazione, l’ospitalità, l’edilizia e molti altri sono di fatto rimasti al palo. Il graduale allentamento delle restrizioni ha portato a un lento e fisiologico rimbalzo, in cui riaperture e ripresa della circolazione e degli spostamenti hanno portato con sé un aumento dei posti di lavoro disponibili. In questo contesto, non sorprende quindi che un numero maggiore di persone decida di cambiare lavoro.

Una lettura che terminasse qui fornirebbe un quadro tutto sommato abbastanza idilliaco, restituendo l’immagine di un mercato del lavoro dinamico, in cui è possibile migliorare la propria posizione e magari la propria remunerazione. Come però andiamo scrivendo e documentando da mesi, la parvenza di ripresina che ha coinvolto l’economia italiana, almeno fino allo scoppio della guerra in Ucraina, si è nutrita di contratti precari e salari da fame. Come ci ricordano anche gli ultimi dati sul mercato del lavoro in Italia, i lavoratori con un contratto a termine hanno raggiunto un record assoluto e sono ormai pari a 3 milioni e 176 mila, una cifra mai raggiunta prima. Una situazione figlia di scelte politiche precise e deliberate, volte ad indebolire ulteriormente la classe lavoratrice per ingrossare i profitti, e che mostrano la loro faccia più truce in questi mesi di conflitto bellico: tra maggio e aprile, il numero di lavoratori con un contratto a tempo indeterminato è calato di quasi 100.000 unità, solo in minima parte compensato dall’aumento di 14.000 contratti a termine. Ecco, quindi, che il fenomeno delle Grandi Dimissioni può essere inquadrato in una prospettiva adeguata: in massima parte, chi si dimette abbandona un lavoro di merda, precario e sottopagato, per andare a fare un altro lavoro (si spera almeno un po’ meno) di merda, precario e anch’esso sottopagato.

Una volta appurato che il tema delle Grandi Dimissioni non è poi questo grande tema, rimane da capire perché sia tanto sbandierato dalle colonne dei giornali della borghesia italiana

Non è difficile, in realtà, capire che la favoletta messa in giro da Repubblica e dal Sole24Ore rientra nel solito racconto di un mondo parallelo in cui i giovani non vogliono il posto fisso, la stabilità e il contratto a tempo indeterminato. I giovani di oggi sarebbero dunque dinamici e propensi al cambiamento, proprio per questo presentano le dimissioni quando un mercato del lavoro più flessibile come quello attuale lo consente. Questa storiella è dunque utile ai padroncini italiani per dire che la precarietà è apprezzata dai lavoratori, che avrebbero così la possibilità di cambiare di tanto in tanto, perseguendo le proprie passioni e conciliando meglio la propria attività lavorativa con la propria vita privata, anche accettando retribuzioni più basse! Come abbiamo argomentato, una marea di panzane messe in fila.

Le motivazioni dei cantori di un mondo liberato dal lavoro a suon di scelte individuali e della sinistra ‘redditista’ sono ovviamente differenti, ma non per questo l’analisi non risulta problematica. Secondo queste interpretazioni, la ‘cultura tossica del lavoro‘ starebbe incontrando l’inizio della propria fine e le grandi dimissioni sarebbero la manifestazione di un insieme di scelte individuali riconducibili a un’ideologia anticapitalista, che porta gli individui a voler abolire non il lavoro salariato e lo sfruttamento, ma tutto il lavoro. Qui siamo secondo noi di fronte a un fenomeno di wishful thinking, in cui ci si rifiuta di osservare i dati che abbiamo di fronte, che restituiscono un quadro in cui è elevata la probabilità che chi si dimette lo faccia per ottenere un nuovo impiego, solo un poco meno odioso del precedente. Se così è, questa prospettiva anti-lavorista rischia purtroppo di risultare anch’essa funzionale allo status quo e alla definitiva accettazione della precarietà nel mondo del lavoro. E del resto, un tasso di disoccupazione ancora superiore all’8% (a voler essere prudenti) ci ricorda che ci sono soprattutto milioni di persone che vorrebbero lavorare, cercano lavoro e non lo trovano…

Nessuno può negare che in Italia vi sia un problema di qualità del lavoro, di sfruttamento, di turni di lavoro infiniti e basse retribuzioni. Questo, però, si affronta ponendo la piena occupazione, l’innalzamento dei salari, la stabilità contrattuale, la riduzione dell’orario di lavoro e la trasformazione della struttura produttiva complessiva come bussole dell’azione collettiva, senza per questo negare la centralità delle misure di supporto al reddito. Le Grandi Dimissioni, che poi tanto grandi non sono, andrebbero lette all’interno di questo quadro generale.

CONIARE RIVOLTA

Colleettivo di economisti

9/7/2022 https://coniarerivolta.org

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