Le guerre tra poveri nella pandemia diseguale
Lunedì e martedì scorso i ristoratori sono tornati in piazza a Roma sotto lo slogan #IoApro, per chiedere la fine delle restrizioni legate alla pandemia di Covid-19. Una protesta con leadership poco credibili e fortemente cavalcata dall’estrema destra, ma dietro alla quale esistono sofferenze reali, e che tocca un nodo scoperto della gestione pandemica da parte del governo italiano negli ultimi mesi: un mezzo lockdown a bassa intensità, tutto scaricato sulle occasioni di socialità e sugli spazi culturali, senza avere il coraggio di toccare i luoghi della produzione, a differenza di quanto parzialmente era avvenuto l’anno scorso.
Una volta che si è scelto di far prevalere l’interesse economico sulla tutela della salute, è fisiologico che i pochi interessi economici colpiti facciano sentire la propria voce. Sembrano essere saltati anche quei limitati meccanismi di tenuta collettiva di fronte all’emergenza che avevano retto un anno fa, quel minimo patto sociale su cui si era retto il lockdown primaverile del 2020. La gestione neoliberista della crisi pandemica porta dritti alla guerra tra poveri, con l’emersione di un ceto medio radicalizzato in lotta perenne contro lavoratori e lavoratrici dipendenti, grottescamente considerati «privilegiati». Eppure, lontano dalla retorica dei media che considerano «lavoratori» solo i titolari di un’impresa, le lotte non mancano: dallo sciopero dei rider a quello di Amazon, dalle occupazioni dei teatri da parte dei lavoratori e lavoratrici dello spettacolo alle battaglie per l’accesso alla sanità. Nella logica tutta interna al dibattito tra «aperture» e «chiusure» nel nome dell’interesse economico di settore, non c’è alternativa alla guerra tra poveri. La scelta non è limitata alla dicotomia tra il «lockdown» eterno e l’illusione di ritorno alla «normalità» che la destra vende: l’alternativa è cambiare le cose.
Folklore, negazionismo e un problema reale
Le manifestazioni lanciate in questi giorni sotto lo slogan #IoApro non sono proprio la spontanea espressione di rabbia di chi sta pagando un prezzo troppo alto alla lotta contro il Covid-19 che gran parte dei media racconta. Come ha ben ricostruito il quotidiano Domani, il movimento è nato tre mesi fa a opera di un gruppo di grossi imprenditori della ristorazione, fortemente sostenuto dalla Lega, all’epoca all’opposizione del governo Conte. Il suo sviluppo sui social si è in parte appoggiato alle reti della destra radicale, e ha spesso strizzato l’occhio al negazionismo e alla retorica secondo cui qualsiasi misura di contenimento della pandemia sarebbe «dittatura sanitaria». Inevitabile che in piazza si vedessero anche personaggi il cui look emulava quello dell’assalto trumpiano a Capitol Hill del 6 gennaio. Il messaggio di fondo è «riaprire tutto, subito», per dare ossigeno ad attività economiche che la pandemia ha profondamente colpito.
Due contraddizioni evidenti saltano all’occhio: da una parte, che i titolari di grosse aziende della ristorazione dal fatturato e dal patrimonio personale non indifferente si facciano portavoce delle sofferenze reali e concrete di molti piccoli esercenti non aiuta la credibilità del movimento; dall’altra, il discorso del movimento confonde spesso le perdite dovute alle normative anti-Covid e quelle dovute al Covid stesso, come se, riaprendo i locali, la gente fosse pronta a tornare ad affollare i locali esattamente come prima, in piena pandemia.
Gli incassi ridotti di una catena di pizzerie, una volta che i loro lavoratori e le loro lavoratrici sono pienamente coperti dalla cassa integrazione garantita dallo stato, non possono essere in cima alle nostre preoccupazioni, quando nell’ultima settimana in Italia sono morte di Covid-19 oltre 400 persone al giorno in media. Ma ciò non vale per tutti: al di là dei leader della protesta, è evidente che esista una sofferenza reale tra chi vive di piccole attività. Una birreria a gestione familiare di provincia, un chiosco di panini in una città turistica, un circolo associativo di quartiere: che la pandemia abbia creato difficoltà diffuse è un fatto innegabile. Non tutto, ovviamente, dipende dalle scelte politiche: i centri storici dei maggiori poli di attrazione turistica, da Venezia a Firenze, sono pressoché deserti da mesi, a prescindere dall’apertura o chiusura determinata dal governo. E in un contesto in cui l’80% degli italiani non è ancora stato vaccinato, non tutti sarebbero disposti ad affollare un locale domani. Ma chi vive una situazione di difficoltà raramente perde troppo tempo a discernerne nel dettaglio le cause, e oggi tutte le responsabilità finiscono per ricadere sulle norme di limitazione del contagio. Per non parlare del fatto che il sistema di protezione sociale vigente ha le sue falle: dalla scarsa entità della cassa integrazione alla sua natura non universale, fino alla quantità enorme di lavoro nero che caratterizza questi settori, e che ovviamente non ha alcuna tutela. Lavoratori e lavoratrici della ristorazione e della cultura, spesso esclusi dal sistema di welfare e privi di organizzazione collettiva, finiscono in parte per essere cooptati nella mobilitazione dei loro datori di lavoro, trovando solo nell’impresa e nella sua possibilità di produrre utili la risposta ai propri sacrosanti interessi materiali.
E così la destra, in Italia come in gran parte del mondo, specula sulle paure e sui disagi della gente in tempi di pandemia agitando la bandiera dell’interesse economico individuale come sacro principio regolatore di tutti i processi sociali: un passo in più sulla strada del liberismo autoritario. Ma la risposta liberal non funziona, interna com’è alla stessa logica di superiorità del profitto su ogni altra cosa. Sicuramente non sarà con la parola d’ordine della riapertura di tutto a prescindere e con le teorie cospirazioniste sull’invenzione del Covid-19 che le molte attività in difficoltà reale troveranno una soluzione ai loro problemi, rischiando anzi di alienarsi la simpatia di molti e molte che solidarizzano con loro. Ma il tema esiste, e tocca un nodo scoperto: la gestione della pandemia da parte del governo.
La lunga pandemia diseguale
Il punto è che un sacrificio individuale nell’ottica del bene collettivo, come la limitazione delle occasioni di contagio, funziona se è comprensibile, limitato nel tempo ed equamente ripartito nella popolazione, accompagnato dalla sensazione che il governo stia lavorando per un obiettivo se non universale (da marxisti siamo abituati a dubitare delle unità nazionali posticce) quantomeno ampiamente condiviso. Un anno fa, il governo italiano, allora guidato da Giuseppe Conte e dalla sua bizzarra coalizione di centrosinistra Pd-M5S-Leu, fu il primo in Occidente ad applicare a vasto raggio norme di distanziamento sociale per limitare il contagio da Covid-19. Norme molto pesanti sulla vita quotidiana delle persone, ma circoscritte nel tempo (otto settimane) e che includevano, caso pressoché unico in Occidente, il blocco delle attività economiche, accompagnato da cassa integrazione e blocco dei licenziamenti.
Per la verità, dietro al lockdown primaverile di Conte, si nascondevano disuguaglianze profondissime: i lavoratori e le lavoratrici non coperti dalla cassa integrazione, quelli a cui è arrivata con settimane di ritardo, i sostegni insufficienti sull’abitare e la cura nei confronti di anziani e bambini, la facilità con cui una quota significativa di aziende è stata fatta passare come «essenziale» per impedire a lavoratori e lavoratrici di stare a casa, per non parlare delle assurde campagne mediatiche contro chi usciva a fare una passeggiata o a portare i bambini al parco, additato come untore e causa di contagio. Dietro alla retorica dell’inno nazionale cantato dai balconi, c’erano gli squilibri e le ingiustizie della nostra società, e di un governo tutt’altro che socialista. Eppure, la maggioranza delle persone si è adeguata senza particolari problemi a un sacrificio se non universale almeno condiviso, e il patto sociale ha retto, quantomeno il necessario perché i numeri iniziassero a calare (dai 969 morti del 27 marzo ai 99 del 18 maggio) e si potesse gradualmente riaprire.
Niente di tutto ciò è avvenuto dopo l’estate. Non solo il governo non è stato in grado di mettere in campo le misure di tracciamento necessarie a circoscrivere la probabile seconda ondata, segnalando quanto decenni di tagli avessero messo in difficoltà i servizi di igiene pubblica e prevenzione. Ma soprattutto, l’offensiva lanciata da Confindustria e dai suoi referenti politici nei mesi estivi ha fatto tassativamente escludere che si potesse nuovamente intervenire sulla produzione e sui luoghi di lavoro. «Evitare a tutti i costi un nuovo lockdown» è diventato il mantra ripetuto continuamente dal presidente del consiglio. E così, quando l’Italia è tornata a superare la soglia simbolica dei 100 morti di Covid-19 al giorno, in ottobre, il governo ha optato per una serie graduale di limitazioni alla vita sociale. Al di là delle particolari restrizioni in vigore per periodi limitati nelle zone rosse, sono state sostanzialmente chiuse le attività di ristorazione, se non da asporto e in determinati orari, e spettacolo (cinema, teatri) ed è stato imposto un coprifuoco dalle 22 alle 5. Il cambio di governo non ha cambiato granché da questo punto di vista. La grande maggioranza delle persone ha continuato ad affollare uffici e fabbriche, ad accalcarsi su mezzi pubblici che nessuno ha potenziato, a frequentare scuole di cui nessuno ha ridotto l’affollamento e le carenze strutturali, mentre il coprifuoco resta in vigore come anche le limitazioni alla vita in comune. E così, sei mesi dopo, ci sono ancora oltre 400 morti di Covid-19 al giorno. E le persone, in particolare quelle che la normativa anti-Covid mette maggiormente in difficoltà, non vedono una fine realistica per tutto ciò, in un contesto in cui in Italia, come nel resto dell’Unione europea, la disponibilità di vaccini resta bassissima.
Misure a bassa intensità, e probabilmente a efficacia limitata, ma prolungate nel tempo, e distribuite in modo nettamente più diseguale rispetto all’anno scorso: è tanto strano che creino scontento? Se la logica dell’interesse economico vale per tenere aperte le aziende e farci accalcare tutti i giorni sulla metropolitana, è bizzarro che chi vende caffè e panini in un bar di provincia si senta discriminato? O si ha il coraggio di difendere il principio della difesa della salute delle persone, e di imporre una distribuzione più equa possibile dei disagi che ne conseguono, o è evidente che ogni categoria rivendicherà legittimamente il proprio interesse a scapito di quello altrui. Il peculiare centrosinistra di Conte su questo ha tenuto per qualche mese, per poi cedere all’offensiva confindustriale. Il mandato di Draghi sembra essere quello di non provarci neanche, tanto che il ministro della sanità Roberto Speranza, spesso identificato con l’opposizione alle riaperture indiscriminate, è costantemente preso di mira dall’ala destra della maggioranza. Sarà un caso se l’Italia, dopo un anno di pandemia, ha numeri di decessi da Covid-19 per milioni di abitanti più simili a quelli registrati dagli Usa di Donald Trump, dal Brasile di Jair Bolsonaro e dal Regno Unito di Boris Johnson che ad altri?
In questo contesto, c’è alternativa alla guerra tra poveri? Non sembra, tanto che a questa guerra ha deciso di partecipare lo stesso presidente del consiglio Draghi: durante una conferenza stampa, la settimana scorsa, è arrivato a dare la colpa della mancata vaccinazione degli anziani ai giovani che si sono fatti vaccinare, senza ricordare che chi l’ha fatto è stato chiamato a farlo dalle autorità pubbliche perché appartenente a determinate categorie, come gli operatori sanitari e gli insegnanti. La logica è chiarissima: scaricare ogni responsabilità sui comportamenti individuali delle persone per distrarre l’attenzione dai processi generali in atto. E non mettere in discussione nulla dell’esistente, lasciando le categorie in difficoltà, ristoratori compresi, ad avere la riapertura e il ritorno alla «normalità» precedente come unico orizzonte.
Il ceto medio radicalizzato e le alternative
Le legittime rivendicazioni delle attività economiche colpite dalla pandemia faranno il loro corso, probabilmente aiutate dall’innalzamento delle temperature, che dovrebbe permettere a breve un maggiore utilizzo degli spazi all’aperto, o magari da un’inaspettata accelerazione della campagna vaccinale. Ciò che preoccupa è l’emersione, dietro alla campagna #IoApro, di una retorica violentemente borghese, che identifica i lavoratori e le lavoratrici protetti da un contratto di lavoro dipendente come «privilegiati» con i #CuliAlCaldo, per citare un hashtag trending nel Twitter italiano nei giorni scorsi. Il consigliere economico della ministra per il sud, Piercamillo Falasca, nei giorni scorsi ha proposto una tassa flat del 5-10% sugli stipendi dei lavoratori dipendenti per finanziare il sostegno agli autonomi. Ci vuole veramente poco, nell’attuale clima politico, per trasformare le legittime rivendicazioni di chi subisce determinate limitazioni in uno spietato episodio di lotta di classe verso il basso, con lo stato impegnato in una redistribuzione della ricchezza al contrario, che invece di colpire grandi patrimoni e rendite da capitale in maniera progressiva, impone una flat tax su lavoratori in gran parte a reddito medio-basso.
Il racconto mediatico di questi giorni, del resto, fa perfettamente eco a questa retorica, descrivendogli imprenditori come «gente che lavora», in guerra contro lavoratori dipendenti «garantiti e privilegiati». La retorica dell’imprenditoria come unico vero lavoro, e come rappresentanza simbolica e politica di chi si sente lavoratore, mobilitando in particolare i lavoratori del settore privato contro quelli del pubblico, è stata al centro del discorso politico della destra italiana degli ultimi trent’anni. Silvio Berlusconi e la Lega Nord di Umberto Bossi hanno costruito gran parte del loro consenso, in particolare nelle regioni settentrionali, sulla costruzione simbolica di un blocco sociale tra media borghesia e una parte dei lavoratori del settore privato, uniti dal mito del piccolo imprenditore e dall’identificazione dell’interesse dell’impresa come elemento unificante tra le classi. Mobilitazioni costruite per settore produttivo e non per classe, in nome della libertà di fare profitti e non del diritto ad avere una vita degna, sono esattamente l’elemento di attivazione sociale su cui normalmente le peggiori destre costruiscono la propria proposta politica.
Rompere queste false unità è un compito difficile ma necessario per la sinistra. Il rischio che l’inevitabile stanchezza per i lunghi disagi connessi alla gestione della pandemia venga cooptata dalla destra in nome del «ritorno alla normalità» e della superiorità dell’interesse economico sulla vita delle persone è forte, e non può essere combattuto in una logica tutta interna alla difesa del Pil, scaricandone i costi su alcuni settori invece che su altri. Provare a sottrarre le rivendicazioni dei tanti lavoratori autonomi in reale difficoltà all’abbraccio mortale con Confindustria nel nome della «riapertura a ogni costo», e costruire invece piani di mobilitazione comune su interessi ampiamente condivisi: l’accesso ai vaccini sottraendoli al rigido controllo di poche multinazionali, il potenziamento del servizio sanitario nazionale, la dignità di lavoratori e lavoratrici considerati essenziali quando serve a mandarli al lavoro ma non quando si tratta di assicurare loro un salario dignitoso, una riforma del welfare in senso universalistico, la messa in sicurezza della scuola per evitare il continuo ricorso alla didattica a distanza, l’utilizzo dei fondi europei del piano Next Generation Eu per una transizione ecologica che somigli più al Green New Deal che all’ennesima occasione di greenwashing per i colossi del fossile.
Le ultime settimane hanno visto il susseguirsi di mobilitazioni tutt’altro che irrilevanti: lo sciopero delle donne dell’8 marzo, lo sciopero di Amazon il 22 marzo, lo sciopero dei rider del 26 marzo. E poi il ritorno in piazza del movimento per la giustizia climatica il 19 marzo, le battaglie per sanità e accesso ai vaccini, quelle per la messa in sicurezza delle scuole, per non parlare dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, attivi ormai da un anno e che nelle ultime settimane hanno occupato i teatri da Milano a Roma a Napoli. Le battaglie dei lavoratori e delle lavoratrici dello spettacolo, in particolare, indicano una direzione ben precisa: «riaprire» come prima, in un settore segnato da sfruttamento e assenza di tutele, non sarebbe una soluzione. Un dato comune emerge da queste lotte: il punto non è «riaprire» per tornare alla «normalità» di prima: il punto è cambiare il mondo che ci ha portato alla pandemia e a una sua gestione segnata dall’interesse dominante del profitto.
L’antidoto migliore alle piazze del risentimento sono le piazze della giustizia e della speranza, non la negazione dei motivi reali per essere risentiti. Un anno di pandemia ha stancato, disgregato, impoverito. Ha creato un terreno fertile per operazioni ambigue e pericolose come quella di #IoApro. Ma ha anche reso evidente a sempre più persone le assurdità del neoliberismo, la necessità di un sistema di welfare in grado di assicurare la protezione sociale, il bisogno di un nuovo intervento pubblico nell’economia per guidare la transizione ecologica. Tra le mille battaglie nell’uscita dalla pandemia e l’immaginazione socialista di un mondo nuovo sta lo spazio della proposta politica di cui oggi l’Italia ha bisogno.
Lorenzo Zamponi ricercatore in sociologia, si occupa di movimenti sociali e partecipazione politica. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino).
15/4/2021 https://jacobinitalia.it
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