Le incognite dello smart work al tempo dell’emergenza Covid-19
Fra le questioni che l’emergenza Covid-19 sta ponendo ai lavoratori/trici e alle organizzazioni sindacali, vi è il problema del lavoro a distanza. All’interno di una crisi sistemica inedita, che sta già sconvolgendo l’economia reale e ridisegnando i rapporti di forza fra le filiere della catena del valore globale, si intravedono inedite insidie sul modo di lavorare. Fra i punti dell’accordo siglato sabato 14 marzo da governo, sindacati e Confindustria, si raccomanda che «sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese di modalità di lavoro agile». Certo, lo smart work, il lavoro da remoto senza vincoli orari non è affatto una novità in sé, semmai sono le dimensioni e la tipologia dei lavoratori/trici implicati a fare la differenza con il passato: non più solo lavoratori cognitivi, tecnici, ricercatori, professionalità legate al capitalismo digitale o lavoratori occupati in settori “tradizionali” coinvolti nell’Industria 4.0. Nelle prossime settimane, con la parziale sospensione e riorganizzazione di molte attività produttive, solo in Italia milioni di lavoratori cominceranno a sperimentare nuove modalità di lavorare, di comunicare e di produrre.
È necessario che l’organizzazione sindacale vigili in modo attento sul rispetto delle norme che regolano lo smart work, specie sui limiti fissati dagli articoli 2, 3 e 4 dello Statuto dei lavoratori. L’articolo 4 contiene un principio molto rigoroso: l’installazione e l’uso di apparecchiature tecnologiche e di sistemi, come videocamere o software, in grado di controllare a distanza lo svolgimento dell’attività lavorativa del dipendente, non sono permessi salvo sia stato disposto da un accordo sindacale o via sia l’autorizzazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro. Tuttavia, ciò non significa che i datori non possano effettuare controlli sull’attività della forza-lavoro: sono consentiti, purché mirati, laddove vi sia un fondato sospetto che il dipendente stia commettendo illeciti con attrezzature aziendali.
Al di là dei problemi posti dal lavoro a distanza su privacy e sorveglianza, è l’intera organizzazione del ciclo lavorativo e produttivo a essere chiamata in causa. Secondo la responsabile di un’importante società, lo smart work consentirebbe «di conciliare più facilmente lavoro e vita privata, e di conseguenza anche un aumento della produttività. Serve soprattutto un cambio di mentalità che porti le imprese a dare fiducia al lavoratore e a valutarlo non più per la quantità di tempo passato a lavorare ma per gli obiettivi e i risultati raggiunti». Se un orizzonte più o meno imminente di “governance” della forza-lavoro verte sulla valutazione dei risultati, al di là e oltre il tempo di lavoro, si aprono scenari assai inquietanti, che mettono in forte discussione tanto la “misura” del lavoro, quanto la tenuta della tradizionale divisione tra tempo di lavoro e tempo di vita (già compromessa o di fatto resa più fluida in molte professioni). Smart work, invece di lavoro agile e intelligente, potrebbe infatti tradursi come lavoro senza fine, come estensione del tempo di lavoro non retribuito.
Il contesto emergenziale in cui siamo, giocoforza, immersi pone da subito questioni che l’organizzazione sindacale dovrà pianificare e fronteggiare, con nuove proposte e strumenti di contrattazione e di tutela, a partire dal diritto alla disconnessione, dal divieto di imposizione di smart work in caso di malattia e dal rispetto della privacy. Riassumendo il tutto con un acronimo ben conosciuto, si tratta di affiancare ai Dpi, i dispositivi di protezione individuale, i Dpid, i dispositivi di protezione digitali: la tutela della sicurezza, della salute psico-fisica della forza-lavoro non può più fermarsi ai luoghi fisici della produzione, ma deve estendersi ai nuovi modi di lavorare a distanza.
Un altro piano di grande importanza riguarda i comportamenti in questo periodo di isolamento domestico, soprattutto l’uso consapevole delle piattaforme online e dei social network, e la gestione dei dati personali e sensibili. Sarà fondamentale, nelle prossime settimane, vigilare affinché le politiche emergenziali messe in atto dagli stati non comprimano ulteriormente i diritti connessi all’uso della rete. Se il capitalismo della sorveglianza, come mostra Shoshana Zuboff, ha da tempo assunto dimensioni e poteri fuori controllo, è lecito attendersi che le grandi aziende si stiano già attrezzando per mettere a valore il caos provocato dalla pandemia. Un rilevante campo di conflitto potrà riguardare la raccolta, il trattamento e la gestione dei big data connessi al Covid-19. A causa del periodo di isolamento domestico e dei cambiamenti della vita quotidiana e sociale provocati dal “distanziamento sociale”, nelle prossime settimane l’utilizzo della rete in Italia avrà una forte crescita, e con esso l’uso intensivo dei social network.
A tal proposito, appare fondamentale sviluppare campagne specifiche di uso consapevole della rete, che veicolino pochi e semplici concetti. In primo luogo, è importante che gli utilizzatori limitino il più possibile la diffusione di informazioni personali e di dati sensibili (si pensi a tutto ciò che riguarda la salute), a maggior ragione nelle principali piattaforme private. In secondo luogo, sarebbe opportuno incoraggiare l’uso di piattaforme non proprietarie, basate sui principi della condivisione e del software libero. Terzo, anche per coloro che accedono alla rete usando in prevalenza i servizi delle grandi compagnie, è possibile ridurre il danno, ad esempio installando semplici software che limitano la profilazione e con ciò la raccolta di big data (Cfr. il collettivo Ippolita; su big data, tracciamento e alternative digitali etiche in rete ai tempi del Covid-19, qui un’utile guida.
Guardando alla gestione della pandemia Covid-19 in Cina, appare che l’uso delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale, da parte dei centri decisionali, si è mosso in due direzioni principali. Da una parte, i principali colossi cinesi dell’high tech, su impulso e controllo delle autorità, hanno svolto una funzione fondamentale di monitoraggio e di contenimento del contagio, grazie all’impiego di tecnologie all’avanguardia. Dall’altra, l’invasività di tali strumenti apre scenari preoccupanti di sorveglianza generalizzata, solo in parte mitigati dal controllo statale su tali strumenti. Si pensi ad esempio al monitoraggio in tempo reale degli spostamenti individuali attraverso smartphone e Gps, all’implementazione delle tecnologie di riconoscimento facciale, allo sviluppo di software e applicazioni con funzioni di sorveglianza, al tracciamento delle transazioni finanziarie, al momento focalizzati sul contrasto dell’epidemia e sulla salute dei cittadini, ma il cui uso potrebbe essere presto destinato ad altre finalità.
In Occidente, invece, non si intravede una strategia univoca, e sembra anzi dominare una risposta frammentaria, isolazionista e non coordinata dei vari Stati di fronte al Covid-19. Una differenza essenziale con la Cina rispetto alla gestione della pandemia riguarda la preminenza o il monopolio del settore privato sul pubblico in molti servizi online essenziali, nella ricerca e nella sperimentazione delle tecnologie digitali. Ciò apre due questioni.
In primo luogo, in assenza di una strategia vincolata all’interesse pubblico, è grande il rischio che, approfittando del clima emergenziale a cui andiamo incontro, la macchina dell’accumulazione risponda unicamente ai propri interessi. Un esempio fra i tanti possibili: negli Usa Google sta approntando un sito web per determinare se le persone hanno bisogno di test. Quali garanzie, per i cittadini che ne facessero uso, che i loro dati personali non vengano estratti e utilizzati con finalità commerciali e/o di controllo, quando dovrebbe ormai essere noto che nessun servizio sul web è gratuito, ma si nutre dei nostri dati?
Alcuni grandi gruppi stanno già approfittando delle nuove opportunità che Covid-19 genera: si pensi solo all’industria farmaceutica e della sorveglianza o ai profitti attesi da un ciclo di distribuzione delle merci sempre più trainato dall’e-commerce, che trascina con sé forme di lavoro povere, precarie e de-regolamentate. In questo senso, un compito urgente è ripensare un ruolo centrale dello Stato e della programmazione pubblica nello sviluppo delle infrastrutture e dei servizi digitali.
In secondo luogo, ricollegandosi a quanto già argomentato rispetto alle insidie del lavoro a distanza, l’organizzazione sindacale, i delegati e i lavoratori/trici dovranno attentamente vigilare e lottare affinché le sperimentazione in atto sullo smart work non si traducano in una riduzione dei livelli occupazionali e in un peggioramento delle condizioni di lavoro. L’accelerazione dell’uso delle tecnologie digitali che la pandemia sta determinando porta con sé grandi incognite, riproponendo temi classici (fra tutti, l’uso capitalistico delle macchine e l’incremento dei ritmi di lavoro). Siamo probabilmente vicini a un cambio di paradigma, a cui occorre attrezzarsi, dal punto di vista sindacale e politico, aggiornando parole d’ordine – a partire dalla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario – e strumenti.
Andrea Cagioni
Operatore e ricercatore sociale, Firenze
16/3/2020 left.it
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