Le invisibili. Lo sfruttamento del lavoro delle donne
In un paese in cui si parla tanto di famiglia ma in cui il welfare è ridotto all’osso, da anni gran parte del lavoro di assistenza alle famiglie che hanno anziani non completamente autosufficienti in casa o bambini a cui non si riesce ad accudire, è affidata a persone provenienti da altri paesi. Ma non solo, anche la pulizia della casa, le piccole faccende domestiche a cui non si riesce a far fronte, quando un reddito da lavoro non è sufficiente, ricadono spesso nella ricerca di una assistenza esterna. Secondo i dati IDOS, tratti dal Dossier statistico sull’immigrazione del 2020, si tratta (dati Istat del 2019) di 848987 persone, di cui l’88,7% donne e il 70,3% straniere.
Ma sono solo una parte. Secondo le stime più accreditate sono almeno 2 milioni le persone impegnate in tale comparto, 6 su 10 sono senza contratto e molte senza neanche permesso di soggiorno. In quest’area al nero aumenta la percentuale delle donne e delle persone “non italiane”, le cui condizioni di ricattabilità sono ancora più accentuate. Secondo “Assindacolf” con la pandemia, dal marzo a giugno del 2020 si sono persi quasi 13 mila posti di lavoro regolare ma, contemporaneamente, aumentavano le assunzioni regolari, (+ 40,4 %) con una corsa alla regolarizzazione che permetteva a chi lavorava di spostarsi per comprovate esigenze di lavoro.
Quindi da una parte la necessità di regolarizzare i rapporti per potere, mediante autocertificazione che conteneva anche i dati del datore di lavoro, dall’altra la ricerca spasmodica di baby sitter per quei genitori che, con le scuole chiuse, non potendo usufruire dello smart working dovevano regolarizzare le persone assunte. In pochi mesi sono state effettuate in Italia circa 25 mila assunzioni che gli addetti ai lavori hanno definito “emergenziali”, contemporaneamente almeno 3000 persone, in maggioranza donne, sono dovute tornare a casa perché non potevano sopravvivere senza reddito. E chi è scappato aveva ragione. Le categorie in questione non hanno usufruito del blocco temporaneo dei licenziamenti, al punto che nel solo mese di maggio del 2020 c’è stato un picco di cessazioni di rapporti di lavoro dell’11% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.
Con ritardo è poi intervenuto il cd “Decreto rilancio” che ha permesso di inserire anche i lavoratori e soprattutto le lavoratrici di questo comparto di usufruire della cassa integrazione e dell’indennità covid (500 euro al mese per aprile e maggio) ma il danno era già fatto. Fra le clausole intervenute per dare questo modestissimo ed insufficiente contributo la prova dell’esistenza di un contrato di lavoro di almeno 10 ore settimanali, precedente al 23 febbraio 2020. Si sono in questo modo tardivo garantiti 22 mila posti di lavoro ma intanto se ne erano persi 13 mila. Questi dati dimostrano che dietro alla tanto decantata procedura di emersione dal lavoro nero promossa a giugno dal precedente governo e che avrebbe dovuto permettere la regolarizzazione di lavoratrici e lavoratori impegnati nei settori del lavoro di cura e nell’agricoltura. L’articolo 103 del Dl 34 si muoveva in tal senso ma i risultati, grazie anche alle tante asperità e vincoli contenuti e non affrontati sia per ragioni economiche che politiche non portavano ai risultati dichiarati.
Secondo il Viminale, alla chiusura dei tempi risicati previsti per una emersione temporanea (sei mesi rinnovabili sono in presenza di un contratto), erano state presentate 176.848 domande per emersione per il “settore domestico” (l’85% del totale a dimostrazione che sul settore agricolo il provvedimento non ha avuto impatto), un flop se si pensa alle cifre accennate all’inizio di lavoratrici al nero. La loro contrattualizzazione porterebbe nelle casse dello Stato almeno 3,1 mld di euro all’anno. Soldi che non giungono per omessa dichiarazione dei redditi e mancati versamenti contributivi. Le ragioni di questo fallimento sono molteplici e spesso vanno in contraddizione fra loro. Intanto alle famiglie “non conviene” assumere regolarmente, sia per poter eludere i contributi, peraltro bassi, sia per non dover sottostare ai pochi limiti definiti dai contratti collettivi e sia, soprattutto, perché una parte consistente delle famiglie che ha bisogno di tale supporto non ha i mezzi per poterselo permettere.
Quando il welfare diventa privato in un paese in cui il lavoro di cura, considerato ad esclusivo appannaggio femminile, è considerato dovuto e gratuito da consumare nell’ambito interfamiliare, si ottengono questi risultati. Infatti la soluzione potrebbe venire da un consistente investimento pubblico per sostenere le famiglie in difficoltà pagando almeno una parte del salario da corrispondere alle lavoratrici e/o potendo permettere non solo una deduzione parziale del costo del lavoro domestico, cosa che c’è già, ma anche di parte dello stipendio, del Tfr, della tredicesima mensilità. Si è calcolato che provvedimenti del genere permetterebbero l’emersione di almeno 340 mila rapporti di lavoro in essere ma ancora al nero e nuova occupazione nel settore. Accade nel Regno Unito, accade in Francia dove con provvedimenti del genere il 70% dei contratti risultano regolari, perché utilizzando la spinta del Recovery plan non potrebbe accadere anche da noi?
Basterebbe questo? La risposta è no.
Un no convinto che parte da una analisi dei contratti collettivi per come sono configurati e che diventa ancora più inaccettabile quando si va a vedere come vengono applicati. Un caso tipo, quello di un contratto a tempo determinato per 40 ore settimanali in cui alla lavoratrice si chiede anche di vivere con la persona o la famiglia da accudire è retribuita con uno stipendio lordo di 960 euro mensili laddove si richiedono nozioni di infermieristica, di capacità di accudimento anche per persone non autosufficienti, di disponibilità pressoché totale. Si ha diritto a vitto ed alloggio e teoricamente al giovedì pomeriggio e alla domenica liberi ma nei fatti, per una cifra minima, si distrugge ogni possibilità di vita sociale e relazionale di chi lavora.
Pur esistendo una vasta domanda per tali impieghi, c’è una sorta di cartello non dichiarato secondo cui, al di là dei contratti, si diventa spesso segregate in una casa con un impegno lavorativo non calcolabile in termini di ore impiegate. Se ci si occupa di una persona anziana o con gravi patologie i tempi di lavoro sono quelli stabiliti dallo stato di salute del beneficiario e non da chi lavora. Yelena si sente una privilegiata, è romena e quindi comunitaria, non rischia l’espulsione e può sempre cercare un datore di lavoro migliore: «Faccio questo mestiere da 20 anni – racconta- quando ero una ragazza ne ho subite parecchie. A mie amiche è capitato di essere molestate e di non poter neanche reagire.
Oggi questo rischio non lo corro, la fatica ti fa invecchiare e non sei più una preda. Ma poi ti affezioni ad anziani di cui ai figli non frega un cazzo. Si prendono la loro pensione, li minacciano di mandarli in case di riposo e conosci la loro solitudine, la loro tristezza, ti ci affezioni insomma. A quel punto come fai a pensare di lasciarli da soli perché è il tuo turno di riposo? L’anziano con cui vivo ora, ed è complicato in pandemia, ha quasi novanta anni ed una storia assurda di cui spesso mi racconta alcune parti. È simpatico, anche allegro a modo suo ma non può più camminare per una frattura e quindi lo porto in giardino, sulla sedia a rotelle. Ha due figli sposati, sia loro che le loro mogli sono str… scusa la parolaccia, aspettano che muoia per dividersi la casa che è grande e quando mi pagano sembra mi stiano dando l’elemosina. Il risultato è che, soprattutto la domenica, io esco al massimo per pranzo ma torno presto perché mi preoccupa lasciarlo da solo. Altro che quaranta ore»
Altra storia quella di Amita che tutti storpiano in Anita, viene dal sud dell’India ed è a Roma da 6 anni. «Pensavo di poter anche studiare qui in Italia ma allora ero giovane. Si ho una figlia che è rimasta con i nonni a casa e a cui riesco a mandare metà del mio stipendio. Lei studia e la mia famiglia vive abbastanza bene, mia figlia la vedo crescere via skype, ora ha 10 anni ed è bellissima». Ha le lacrime agli occhi ma non perde un sorriso profondo: «Ce la debbo fare anche per lei. Il padre se ne è andato e non c’erano altre soluzioni. Ora lavoro in una casa in cui sto anche bene. Ci vive una signora con la madre che non ci sta più con la testa ma sono gentili. Certo con gli orari non ho pace e cucinare per una che mangia solo cose italiane non è facile. Ma almeno qui si fidano e mi pagano puntualmente. Nella casa in cui stavo prima controllavano pure se mangiavo troppo. E poi ho il contratto, la tredicesima, il permesso di soggiorno e se un giorno volessi potrei tornare anche a casa. Sono contenta di non essermi fatta convinta dalle mie amiche ad andare a lavorare in Arabia Saudita».
Già Arabia Saudita e Paesi del Golfo, sono quelli le mete del lavoro di cura e più in generale di ogni lavoro di fatica. India, Pakistan, Bangladesh, Nepal, tanti i paesi da cui arrivano schiave e schiavi, il tutto senza alcuna interferenza internazionale. Infondo quelli sono i paesi dell’”Islam moderato”, con cui si fanno buoni affari e a cui il senatore Matteo Renzi invidia il modo con cui si è ridotto il csto del lavoro. Il sistema si chiama kafala (sponsorizzazione) e consiste nel fatto che degli sponsor che spesso sono anche i datori di lavoro, “comprano” i contratti di lavoro. Fanno entrare persone che da quel momento ricadono sotto la esclusiva responsabilità dei padroni, dal pagamento del salario, all’orario di lavoro, ad ogni forma di libertà. Nell’intera Penisola Arabica vivono almeno 35 milioni di lavoratrici e di lavoratori sottoposti alla kafala che oggi alcuni paesi, per ragioni economiche, vorrebbero solo ammorbidire.
Dal 2015 in poi, quando si sono conclusi accordi con alcuni Paesi del Golfo e paesi di emigrazione, sono state centinaia le segnalazioni di suicidi, di abusi sessuali, di salari non corrisposti, di torture. L’attività sindacale è proibita quindi per chi protesta o tenta di disobbedire arrivano le condanne a pene corporali, 300 frustate per una giornata di sciopero. Ma se siamo andati nel Golfo per parlare di sfruttamento del lavoro migrante, in particolar modo femminile è per una ragione che ci riguarda da vicino. C’è un paradigma rispettato in tutti i paesi di immigrazione e che si sviluppa su due linee.
Da una parte la legislazione sui movimenti migratori è unicamente strutturata sul mercato del lavoro tanto da sovrapporsi – si fanno entrare regolarmente le persone che servono e si tengono irregolarmente quelle da poter maggiormente ricattare – dall’altra ci si rifiuta di ratificare anche norme internazionali come la Convenzione Onu per la protezione dei diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie (18 dicembre 1990). Un testo che non fa altro che ribadire i diritti fondamentali della persona, che non incide direttamente sui rapporti di lavoro ma che è visto come un ostacolo e un freno al mercato.
Il calo dei diritti danneggia tutte e tutti, rendere più fragili quelli delle lavoratrici e dei lavoratori migranti si ripercuote sull’intero mercato del lavoro, non è un semplice slogan. Secondo i dati Istat e malgrado il cosiddetto blocco dei licenziamenti, sono andati persi 101 mila posti di lavoro, di questi 99 mila riguardano donne. È casuale?
Una domanda retorica
Stefano Galieni
13/3/2021 https://www.intersezionale.com
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