Le ipocrisie sui voucher
La discussione pubblica che si è sviluppata a seguito della proposta di referendum abrogativo della disciplina sul lavoro accessorio e sulla responsabilità solidale negli appalti ha fatto emergere le ipocrisie delle forze politiche che hanno approvato il Jobs Act.
L’opportunità di mantenere in vigore la normativa sul lavoro accessorio viene sostenuta, nella sostanza, con la necessità di fare emergere dal lavoro irregolare una miriade di prestazioni di lavoro che, altrimenti, non avrebbero alcun inquadramento normativo e, soprattutto, nessuna copertura di carattere contributivo.
La realtà, tuttavia, è ben altra.
Il lavoro accessorio, retribuito mediante voucher, è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento dagli artt. 70 e segg. del d.lgs. n. 276 del 2003, impropriamente ricordato come “legge Biagi”. La normativa, poi, è stata più volte modificata senza, tuttavia, perdere le sue caratteristiche fondamentali. In estrema sintesi, in base alla legge del 2003, era possibile ricorrere al lavoro accessorio in ragione di precisi requisiti di carattere oggettivo ed soggettivo. Da un lato, infatti, la legge richiedeva che le prestazioni dovevano essere di carattere meramente accessorio, con riferimento, quindi, al tipo di attività svolta dal datore di lavoro. Dall’altro lato, era possibile utilizzare mediante voucher esclusivamente le prestazioni di lavoro di disoccupati, studenti, casalinghe, disabili ed extracomunitari. Il tutto nel limite di 5.000,00 euro l’anno con riferimento alla totalità dei committenti e di 2.000,00 euro, poi aumentato a 3.000,00, con riferimento ad un unico datore di lavoro.
Il d.lgs. n. 81 del 2015 ha confermato sostanzialmente le modifiche intervenute con la riforma Fornero, che, oltre ad estendere la possibilità di utilizzazione dei voucher da parte delle pubbliche amministrazioni, aveva eliminato i requisiti soggettivi prima ricordati. La conseguenza è che, dal 2012, tutti possono essere utilizzati mediante voucher. Il Jobs Act, in piena continuità, ha modificato il tetto dei compensi percepibili nel corso dell’anno, in virtù di una pluralità di committenti, fino a 7.000,00 euro, aumentando, in tal modo, la possibilità di ricorso a questa modalità di acquisizione di forza lavoro.
Il lavoro accessorio, in pratica, è stato reso maggiormente conveniente rispetto al passato. Ma vi sono ulteriori ragioni che rendono questo istituti, di fatto, fungibile rispetto d altre tipologie contrattuali o modalità di assunzione dei lavoratori. La retribuzione dovuta, intanto, non è oggetto di pattuizione individuale né collettiva, in quanto stabilita direttamente dalla legge in misura inferiore a quella prevista dalla generalità dei contratti collettivi. Mediante il ricorso al lavoro accessorio, quindi, l’imprenditore od il professionista od un datore di lavoro non imprenditore possono evitare l’applicazione del contratto collettivo, con riferimento ai minimi salariali ed altri istituti che regolano i rapporti di lavoro. Non solo. L’eliminazione di ogni tipo di requisito soggettivo consentirebbe di creare un organico aziendale variabile di giorno in giorno. Si pensi al caso di un imprenditore che ha bisogno di poche unità di lavoratori per soddisfare le proprie esigenze produttive. Egli, anziché assumere, per così dire, stabilmente cinque persone, potrebbe avvalersi di decine di lavoratori, chiamati a prestare la loro attività per brevissimi periodi, e sottarsi in tal modo dall’ambito di applicazione della disciplina in materia di licenziamenti individuali e collettivi, così come dai limiti, ormai molto più elastici rispetto al passato, in materia di mansioni. I fatti di cronaca di questi ultimi mesi dimostrano che questo scenario non è soltanto frutto di immaginazione.
Tutto ciò, però, viene giustificato dalla necessità di contrastare il lavoro irregolare. Questa ragione, che pure è stata esplicitata nella legge delega, nasconde una vera e propria ipocrisia per “coprire”, in realtà, la richiesta di ulteriori dosi di flessibilità nella gestione dei rapporti di lavoro e di deresponsabilizzazione del datore di lavoro avanzata da determinati settori del mondo imprenditoriale.
Nel nostro ordinamento, infatti, sono già presenti istituti che consentono di ricorrere a prestazioni di lavoro subordinato per brevi periodi. Si pensi al contratto di lavoro intermittente, la cui disciplina è stata confermata con il d.lgs. n 81 del 2015, e che consente di avvalersi delle prestazioni lavorative “a chiamata” e per soddisfare esigenze discontinue del datore di lavoro. Si pensi, inoltre, al fatto che, da sempre, è possibile assumere a tempo determinato senza necessità di stipulare un contratto per iscritto quando la durata del rapporto non è superiore a dodici giorni, così come è utile ricordare che la disciplina in materia di contratto a tempo determinato, anch’essa liberalizzata dal Governo Renzi in continuità con quello Monti, non si applica al settore del turismo e dei pubblici esercizi.
Esistono, quindi, molteplici modelli contrattuali che possono essere utilizzati per instaurare rapporti di lavoro di breve durata. E se a questo aggiungiamo che oggi, in ragione della natura della prestazione, è possibile instaurare collaborazioni coordinate e continuative, senza aver più la necessità di indicare il progetto specifico che giustifica il ricorso a questo tipo di rapporto, le tipologie contrattuali a disposizione per avvalersi di forza lavoro regolare sono molteplici e prevedono tutele, se pur poche, in favore di chi lavora.
Il ricorso al lavoro accessorio mediante voucher, quindi, trova la propria ragione essenziale di consentire l’utilizzo di manodopera in assenza di quelle pur minime tutele rimaste nel mondo del lavoro, lasciando in ombra, se non nella irrilevanza statistica, l’obiettivo di contrastare il lavoro irregolare.
Enrico Raimondi
consigliere comunale L’Altra Chieti, avvocato giuslavorista
17/3/2013 www.rifondazione.it
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