Le lotte del Cormôr settant’anni dopo

Per quanto altrove se ne sia persa memoria, nel 1950, in una delle terre più povere d’Italia, la Bassa friulana, donne e uomini misero in piedi una grande protesta collettiva contro la loro povertà. Si autorganizzarono in uno sciopero alla rovescia: lavorarono collettivamente al completamento della canalizzazione del torrente Cormôr che, con le sue piene, allagava le campagne rendendone impossibile la coltivazione. Quello sciopero, che venne definito «garbato», fu represso con grande violenza. Oggi, a settant’anni di distanza, un progetto della sezione Anpi Premoli e del centro culturale Artetica di Muzzana (Udine) ne fa riverberare la memoria.

In questa intervista, dialogo con Lorenzo Fabbro, coautore del videodocumentario Lis lotis dal Cormôr (2010) e di varie di iniziative per il settantesimo anniversario, raccolte sul sito bilingue lottedelcormor.eu. Ad alcune domande risponde anche Renato Rinaldi, autore dell’audiodocumentario sulle lotte del Cormôr del programma di Radio3 Tresoldi.

Siamo nel Secondo dopoguerra, nella Bassa friulana, una striscia di terra alluvionale tra le province di Pordenone, Udine e Gorizia. I tentativi di bonifica fascisti sono rimasti incompiuti; la zona è agricola, non industrializzata, incredibilmente povera e pronta a un’emigrazione colossale. Il Piano del lavoro della Cgil (1950), che dovrebbe rilanciare l’economia, non viene applicato. È in questa situazione di povertà estrema che comincia l’agitazione contadina.

[LF] Negli anni del dopoguerra il Friuli, poi divenuto un pezzo del ricco e dinamico «nordest produttivo», era dal punto di vista economico e sociale una delle regioni più povere e meno sviluppate d’Italia. In particolare, nella Bassa friulana la situazione era davvero critica: il sistema produttivo si basava su un’agricoltura mezzadrile e sulla Saici [Società agricola industriale per la produzione di cellulosa, ndr] di Torviscosa; migliaia erano i disoccupati. Nella zona occidentale, c’erano molte aree paludose da bonificare, tanti campi inutilizzabili, epidemie e povertà dilaganti. La dittatura fascista e la guerra avevano lasciato in eredità problemi socio-ambientali insoluti e, di fronte a una ricostruzione che procedeva stentata, si ripresentava lo spettro dell’emigrazione, una costante in Friuli fino agli anni Settanta. Già tra il 1948 e il 1949 iniziarono le lotte, anche cruente, per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori della terra e l’applicazione del cosiddetto Lodo De Gasperi

[giudizio espresso da De Gasperi nel tentativo di pacificare proprietari
terrieri e contadini, nella cosiddetta vertenza della mezzadria, ndr]

; vennero occupate molte aziende della Destra Tagliamento, come racconta anche Pierpaolo Pasolini nel suo romanzo Il sogno di una cosa. Agitazioni ed episodi di ribellione si susseguirono nella zona dell’agro aquileiese e a Pertegada e Piancada (in provincia di Udine), alla Saici e tra i braccianti di Fossalon e Fiumicello (in provincia di Gorizia). 

In un contesto politico molto problematico per lavoratori, organizzazioni sindacali e sinistre in generale, la Cgil di Giuseppe Di Vittorio elaborò – tra il 1949 e il 1950 – il suo Piano per il lavoro, un programma di interventi finalizzati «a utilizzare la forza lavoro disponibile e le possibilità potenziali di sviluppo della produzione», che prevedeva tra l’altro la realizzazione di una serie di opere pubbliche ritenute strategiche, individuate a livello locale, che il governo avrebbe dovuto finanziare.

La Camera del lavoro friulana pensò alla canalizzazione del Cormôr, un torrente che nella sua parte finale interrompeva il proprio corso in mezzo alla campagna trasformando, nella stagione delle piogge, diecimila ettari di terreno agricolo in un enorme acquitrino. Un’opera di cui avrebbero potuto giovarsi quindici comuni e che, se fosse stata portata a termine così come pensata inizialmente, avrebbe garantito circa due anni di lavoro per millequattrocento disoccupati e la bonifica di undicimila ettari di terreno.

Il Piano venne presentato pubblicamente durante la festa del Primo maggio 1950 a Cervignano (Udine) quando, preso atto della contrarietà del Governo guidato da Alcide De Gasperi a finanziare l’opera, partì una straordinaria mobilitazione popolare: comizi che riempirono le piazze di centinaia di persone, sindacalisti ex-partigiani che percorsero in lungo e in largo le strade della Bassa per organizzare i giovani, i comitati di agitazione, le assemblee dei braccianti. 

Quale forma di lotta e di ribellione sociale venne scelto lo sciopero simbolico alla rovescia, con il quale i protagonisti si impegnavano a realizzare l’opera lavorando senza paga per rispondere alla mancanza dell’intervento governativo. A partire dal 19 maggio, ogni giorno e per diverse settimane, centinaia, spesso migliaia di persone a piedi e in bicicletta provenienti da tanti paesi della Bassa si recarono a lavorare gratuitamente presso lo scavo del canale, nonostante il divieto delle autorità e le botte della polizia. 

La lotta nonviolenta attirava una solidarietà sempre più vigorosa da tutto il Friuli; De Gasperi, in occasione della sua visita a Udine del 4 giugno, annunciò uno stanziamento di fondi per la canalizzazione del Cormôr e, dopo una serie di contrattazioni, alla fine di luglio si decise di assumere i primi mille operai. Fu una mossa dettata sia dalla preoccupazione per la forza del movimento sia probabilmente dalla volontà di prendere tempo e calmare gli animi. Dopo qualche settimana, infatti, i lavori vennero sospesi e gran parte degli operai appena assunti fu licenziata: il 5 agosto persero il lavoro ottocento uomini. In seguito, i finanziamenti arrivarono a piccole dosi, senza risolvere mai i gravi problemi di povertà e disoccupazione della Bassa. Il canale venne completato con l’utilizzo di ruspe ed escavatori e inaugurato il 20 settembre 1955, quando la maggior parte dei braccianti che avevano preso parte a questa lotta aveva intrapreso la strada dell’emigrazione.

[RR] Tutte le interviste presenti nell’audiodocumentario di Tresoldi sono molto concrete, come fu quella lotta: non veniva fatta per nessun motivo che non fosse un concreto pensare che avrebbe portato una qualche forma di benessere. C’era un’idea ottimista di progresso, che allora era tutto in potenza e che avrebbe portato allo sfruttamento industriale di quelle terre, che allora era ancora impossibile da prevedere. Del resto, proprio negli anni Cinquanta – che, a differenza di altri decenni, non hanno nemmeno un attributo che li qualifichi – si può identificare la matrice di molte cose che vennero poi; lì si è impiantata la radice del mondo futuro, del boom economico, ecc..

A questa lotta presero parte tutti: i contadini e le contadine, i braccianti, i ragazzini. Le donne in particolare, oltre a cucinare per i lavoratori, cominciarono presto a sostituirli, quando questi venivano arrestati. Ma chi teneva le fila dell’organizzazione delle lotte?

[LF] Il Piano del lavoro venne discusso al Secondo congresso della Cgil nell’ottobre del ‘49 e presentato ufficialmente in occasione di una conferenza economica nazionale nel febbraio del 1950. Nell’aprile dello stesso anno fu un friulano, Mauro Scoccimarro, a svolgere la relazione sul Piano del lavoro al Comitato centrale del Partito comunista. Il Pci e la Cgil lavorarono in sinergia per la propaganda, l’organizzazione e il sostegno alle iniziative di lotta che presto si svilupparono in tutto il Paese. Anche nella Bassa friulana è innegabile che il Partito e il sindacato giocarono un ruolo decisivo, ma la partecipazione incredibilmente numerosa e il riverbero che ebbero per molti anni quei fatti nelle comunità locali hanno travalicato l’aspetto politico e ideologico. 

La scelta di rifiutare la violenza e la carta dello sciopero al contrario la fecero diventare la lotta di tutti, non solo dei disoccupati e dei sotans [letteralmente «quelli che stanno sotto», i subalterni, cioè i braccianti agricoli senza terra, ndr]. Si formò una rete di solidarietà che coinvolse sindaci, alcuni parroci, esercenti e fornai; non solo politici ma anche intellettuali, pittori e scrittori iniziarono a esprimere il loro appoggio alla protesta, talvolta recandosi nei luoghi della lotta. Tra questi, il poeta Mario Cerroni, gli scultori Max Piccini e Dino Basaldella e i pittori Giorgio Celiberti e Giuseppe Zigaina.

Altri aspetti decisivi sono stati il rapporto stretto e simbiotico, potente, fra la gente e il territorio, i boschi, le acque, la terra sulla quale vivevano e che non volevano abbandonare. Paolo Gaspari, autore del primo saggio sulle lotte del Cormôr, scrisse che mentre entrava nelle case e nelle osterie per intervistare i partecipanti non emergeva solo la memoria di trent’anni addietro, ma «la memoria di vite prima delle loro, di esperienze che legittimavano l’agitazione del 1950 attraverso una percezione di rapporti col territorio e di valori di equità riferibili a comportamenti collettivi molto lontani nel tempo». 

Il ruolo delle donne, poi, fu decisivo. Furono protagoniste accanto agli uomini, in maniera quasi paritaria: non solo organizzavano la mensa dei lavoratori allestita a San Gervasio, ma molte lavoravano alla costruzione del canale e affrontavano senza paura la polizia. Il 29 maggio organizzarono una grande manifestazione di appoggio alla lotta alla quale parteciparono centinaia di donne e bambini e che venne dispersa con l’uso dei lacrimogeni. «Torneremo ogni giorno fino a quando ci lascerete lavorare in pace», dissero alle autorità. Qualche testimone afferma che «quando hanno cominciato a venire anche le donne, allora anche i poliziotti hanno iniziato ad avere paura».

In una delle interviste di Paolo Gaspari, una donna dice: «Sapevo che avrebbero anche potuto ucciderci, lo avevano appena fatto a Reggio Emilia, ma io non ragionavo più, non mi interessava più niente». Più probabilmente, visto che nel 1950 mancavano ancora dieci anni alla strage di Reggio Emilia, intendeva i morti dell’eccidio delle Fonderie riunite di Modena il 9 gennaio 1950, quando la polizia sparò sulla folla, uccidendo sei manifestanti. La testimonianza dimostra in ogni caso che c’era una coscienza contadina, popolare, della repressione che stava avvenendo in Italia nei confronti del movimento dei lavoratori: una coscienza antifascista che veniva dalla lotta partigiana, alla quale tante testimonianze fanno riferimento. Del resto, la dispersione violenta di uno sciopero alla rovescia mostra in pieno l’inconsistenza della retorica della repressione, che spesso si ammanta di lavorismo per giustificare la violenza sugli «sfaccendati». Nel vostro documentario, un testimone racconta di essere stato fermato da una guardia che, per assurdo, gli disse: «Ma cosa corri a fare sciopero? Andate a lavorare!». Che tipo di repressione ci fu?

[LF] In quel periodo, la nuova Costituzione della Repubblica e il dibattito aperto sui diritti e sull’esigenza di costruire una società più giusta avevano creato grandi speranze fra la popolazione. Il filo rosso con la straordinaria e peculiare esperienza della Resistenza nel nostro territorio era arrivato fin sul Cormôr: tutti i dirigenti e tanti protagonisti delle lotte erano ex partigiani, questa volta impegnati in una lotta senza armi, per pianificare il lavoro a squadre, gestire i rifornimenti alimentari sul modello delle intendenze, organizzare la difesa dagli attacchi della polizia e una propaganda capillare.

La grandissima partecipazione allo sciopero e alle assemblee che aumentava di giorno in giorno preoccupava molto le autorità che sembravano non tollerare quella forma di protesta e disobbedienza civile. La Prefettura inviò sul posto la celere: in particolare, gli uomini alle dipendenze del famigerato commissario Gallo che si distinsero per episodi di repressione violenta e spesso del tutto gratuita con posti di blocco, inseguimenti, arresti, pestaggi e rastrellamenti non solo nei confronti dei manifestanti ma anche di chi sembrava solamente appoggiare la lotta. Molti furono gli arresti e le persone mandate a processo, difese da un giovane Loris Fortuna, allora avvocato del sindacato [poi deputato socialista per sei legislature e primo firmatario della legge sul divorzio, ndr]. «La polizia ci picchiava e non sapeva perché ci picchiava», racconta un testimone. La repressione non fece che aumentare il consenso sociale allo sciopero alla rovescia tanto che, poco prima che le autorità cedessero, annunciando il primo finanziamento dell’opera, anche il commissario Gallo venne allontanato a seguito delle denunce dell’onorevole del Pci Gino Beltrame.

La scelta dello sciopero alla rovescia forse fu particolarmente azzeccata perché attecchiva bene anche in un certo habitus di quei territori; tuttavia è anche vero che fu una scommessa, una pratica inedita, e forse proprio per questo così efficace. Anni dopo, Danilo Dolci – che peraltro era nato non troppo lontano dalla Bassa, a Sežana, sul Carso sloveno – proporrà lo sciopero alla rovescia come metodo di lotta nonviolenta (attiva, non attendista) contro la povertà e la disoccupazione delle campagne della Sicilia. La lezione di Danilo Dolci è ancora studiata, cosa resta invece dell’esperienza (meno nota) del Cormôr, in quei territori e altrove?

[LF] Gli «scioperi al rovescio» o «scioperi all’italiana» in quegli anni rappresentarono una forma di lotta contro la disoccupazione che fu adottata in diverse zone d’Italia, in Veneto, Abruzzo, Piemonte e molti altri luoghi. Più o meno nello stesso periodo, nell’altopiano del Cansiglio, tra Pordenone e Belluno, ci fu uno sciopero al rovescio per la realizzazione di una strada. Lo sciopero alla rovescia guidato da Danilo Dolci nelle campagne di Partinico alcuni anni dopo è indubbiamente tra i più conosciuti e studiati come esempi di metodi di lotta nonviolenta per il lavoro, soprattutto per l’eco che ha avuto il processo che ne seguì. Quello del Cormôr, nonostante la grande partecipazione popolare, ciclicamente rischia di cadere nell’oblio. Per molti anni la memoria degli uomini e delle donne del Cormôr ha rappresentato un pezzo importante del patrimonio collettivo di valori sui quali si sono create le basi non solo del movimento sindacale ma anche di un’identità del territorio fatta di rispetto per la terra, solidarietà e coesione sociale, consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri. 

Secondo un libriccino di Marco Scardigli, citato nell’audiodocumentario di Tresoldi, un avvenimento trasla dal dominio della memoria a quello della storia dopo settantacinque anni da quando è accaduto. A settant’anni dalle lotte del Cormôr, sul crinale tra storia e memoria, in che modo avete provato a ri-raccontare quella vicenda, cercando di non cadere nel rischio di una mitizzazione e di renderla per quello che è stata, vita vera?

[LF] È una riflessione interessante quella sulla storia e la memoria; certo, le nostre motivazioni partono dalla seconda, da un patrimonio ideale che ci è stato trasmesso e che si è trasformato in elemento identitario. Io per esempio ho la fortuna di aver conosciuto direttamente molti dei protagonisti delle lotte del Cormôr in una stagione in cui loro sono stati – per noi giovani di allora – maestri e compagni, esempio di impegno politico e civile iniziato sul greto del Cormôr e durato per tutta la vita. Sono stati i nostri «imprescindibili», per dirla con Bertold Brecht. Il percorso affinché questa memoria iniziasse a farsi storia è iniziato con le interviste e la pubblicazione del saggio di Paolo Gaspari alla fine degli anni Settanta e si è consolidato con l’opera, piena di passione e militanza, di Pierluigi Visintin, Giancarlo Velliscig e Alessandra Kersevan nel 1991. È successo anche nel 2010, quando io e Adriano Venturini realizzammo un videodocumentario per il 60° anniversario dello sciopero, nel pieno della tremenda crisi economica iniziata nel 2008. In tutte le occasioni, queste vicende emergevano prepotenti e coinvolgevano emotivamente e politicamente nuove generazioni. 

[RR] È una vicenda talmente lontana nel tempo che è rimasto un solo testimone con cui si può parlare, quindi il rischio di strumentalizzazione è abbastanza grande. Noi abbiamo avuto la fortuna di accedere all’archivio di Paolo Gaspari [che ha registrato le interviste nel 1979, ndr] e questo ha, a mio avviso, schivato il problema: quelle persone parlano della vicenda in un modo per noi oggi inconcepibile, con una passione terrena, per niente ideologica… o meglio, di un’ideologia diversa: c’era una grande purezza nella fede con cui credevano nelle cose. Recuperare quell’archivio ci ha permesso di accedere alla storia in una maniera diretta, che oggi non sarebbe possibile: senza quelle interviste avremmo avuto solo il racconto di chi quella cosa l’ha sentita raccontata da altri e per forza l’ha filtrata. Si tratta evidentemente di un materiale già parzialmente filtrato dal tempo – nel ‘79 erano passati ventinove anni dal 1950 – ma comunque molto più in presa diretta di qualunque altro materiale si possa trovare oggi. 

Nel documentario, cito questo libriccino che mi ha regalato Paolo Gaspari, ma non so se sono d’accordo sul fatto che a settantacinque anni si passa da aneddoto a storia. Io non mi pongo in una prospettiva accademica di riflessione sulla disciplina; piuttosto, mi sembrava interessante che, rispetto alla periodizzazione di Scardigli, ora siamo esattamente sul crinale: e questo ci lascia col dubbio che tutte le cose che si sentono nelle interviste non vanno prese per certe. La storia orale procede per aneddoti, non c’è una narrazione inconfutabile; uno ricorda una cosa, un altro un’altra, tutto è molto più ricco, non complicato ma complesso. Le vite di queste persone erano ricche, anche di contraddizioni e, nelle interviste, i testimoni non si preoccupano di dissimulare per sembrare coerenti: per esempio, c’è chi dice «io sono comunista, ma prima di tutto viene la mia famiglia».

Oggi c’è molto fermento nell’ambito della storia orale. Ci sono molti archivi come questo che aspettano di essere aperti, portati all’attenzione degli storici, per essere «consacrati» a storia vera. Il processo è a catena: per esempio, io sono stato contattato da un’associazione del territorio, legata a quell’evento da vincoli affettivi, e insieme ci siamo rivolti a Paolo Gaspari, per accedere al suo archivio. È questa catena, che parte da un legame affettivo, che ha permesso che questa storia tornasse a galla – e così potrebbe succedere per molte altre.

Lorenzo Fabbro, Michela Pusterla, Renato Rinaldi

28/12/2020 https://jacobinitalia.it

Michela Pusterla è dottoranda in italianistica all’Università di Trieste.

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