Le parole sono importanti
Debbo dire che non ho mai molto apprezzato il cinema minimalista di Nanni Moretti, ma mi ha colpito il suo sottolineare, in più occasioni, per esempio in Palombella rossa (1989), che “Le parole sono importanti”, tanto che giunge in una scena a schiaffeggiare la sua interlocutrice perché gli ha attribuito espressioni a lui del tutto estranee come per esempio trend negativo, ribadendo che lui non parla né pensa così. Non solo, ma si incollerisce anche di fronte ad espressioni come kitch, cheap, o di fronte a frasi fatte, ripetute senza immaginazione e prive di qualsiasi tentativo di riflessione, sollecitando a non farsi condizionare dall’ambiente che ci circonda, dalle espressioni giornalistiche più usate, da una maniera stravolta di parlare che ci conduce a pensare e a vivere male. Soprattutto ho condiviso l’idea che le parole contribuiscono a forgiare il nostro pensiero, divenendo così un potente strumento sia di manipolazione che di emancipazione.
Sicuramente l’intuizione di Moretti è intelligente, anche se poi giunge a sostenere una posizione irrazionalistica, quando afferma, in altre sequenze del film, che odia la parola scritta perché in essa un pensiero una volta cristallizzato si trasformerebbe in una menzogna, dimenticando che anche le parole scritte come quelle parlate possono avere un diverso valore di verità e che, d’altra parla, nessuno può esprimersi se non attraverso la mediazione della parola o di altri strumenti comunicativi come per esempio i gesti. Pertanto, non possiamo fare a meno della parola scritta o parlata e dobbiamo sempre valutarne il significato e il contenuto, tenendo presente sia il contesto sociale in cui essa viene pronunciata, sia il ruolo sociale di chi la emette e di chi la riceve. Insomma, ogni forma di comunicazione prevede irrimediabilmente una mediazione, senza quale esiste solo la telepatia o la condivisione mistica, le quali non mi sembrano funzionare molto bene.
Credo che ormai oggi, nell’era dell’informazione mass mediatica pervasiva, definita anche come un aspetto del cosiddetto soft power (potere morbido) [1], sia abbastanza evidente la rilevanza delle parole, sia di quelle che vengono pronunciate ma anche di quelle che vengono consapevolmente o inconsapevolmente omesse. Faccio un esempio significativo che si riferisce ad un servizio televisivo di Rainews 24 proprio di questi giorni. Era dedicato alle conseguenze nefaste per l’ambiente dovute alle guerre balcaniche, di cui non si diceva nulla di più, non si faceva riferimento a chi le aveva combattute e soprattutto non si menzionava chi aveva bombardato le fabbriche abbandonate situate in Serbia, la cui distruzione ha provocato il rilascio di elementi tossici, come l’arsenico, i quali inquinano i terreni e le acque. Quindi, si comunicava una mezza verità, omettendo che era stata la Nato nel 1999, senza alcuna autorizzazione internazionale, e con l’appoggio dell’Italia, a bombardare le infrastrutture serbe, provocando il collasso del paese e cercando di suscitare l’opposizione della popolazione al governo di Slobodan Miloševič [2]. Anzi, si sottolineava addirittura, che l’Unione Europea, e in particolare l’Italia, hanno avviato un programma di monitoraggio del territorio per provvedere al suo risanamento sulla base degli standard europei relativi alla presenza di elementi tossici. E ciò per dare impulso all’ingresso della Serbia nella stessa UE. Insomma, con una semplice omissione, a prima vista irrilevante, il carnefice alla fine diventava il caritatevole soccorritore pronto ad accogliere il vicino bisognoso.
Se in effetti è vero che le parole sono importanti, sia pronunciate che taciute, tuttavia, l’intuizione intelligente di Moretti non ha costituito una vera e propria scoperta, anche perché in ambiti specialistici (filosofia, psicologia, linguistica) tale tema è già stato ampiamente sviluppato e, come sempre accade, da tali ambiti è stato trasferito alsenso comune e all’ideologia quotidiana, che però lo hanno recepito in maniera un po’ semplicistica, spesso contrapponendo tout court la parola falsa alla parola vera.
Non ho intenzione di soffermarmi a lungo su questi aspetti forse per alcuni tediosi, ma ritengo sia utile fare qualche riferimento per inquadrare la questione. In particolare, mi sembra opportuno menzionare l’interesse che ha suscitato lo studio del linguaggio e del significato di cui sono portatrici le parole, concentrandosi in particolare sul parlare come attività autonoma e governata da certe regole a seconda dei contesti. In tale attività le parole ricevono una particolare accentuazione scelta da chi parla nella gamma dei significati possibili, differenti ma uniti da un fattore comune. In questa prospettiva, sviluppata in particolare dalla linguistica sovietica negli anni venti, le parole non sono il luogo in cui si esprime un pensiero soggettivo o si cristallizza un significato immutabile e predefinito, ma esse, o in senso più generale i segni, costituiscono un prodotto dello scambio comunicativo, la cui natura è essenzialmente sociale. Esse conformano la dimensione semiotico-ideologica, nella quale si esprime e si realizza la nostra interiorità, che a sua volta si è costituita sulla base di processi di introiezione. Sotto questo profilo “i processi mentali interni hanno un’origine esterna e “interpsicologica”, sono il risultato di un processo di interiorizzazione, di assimilazione degli aspetti e delle forme sociali di attività formulati storicamente” (A. Ponzio, Introduzione a Marxismo e filosofia del linguaggio, Bari 1976, p. 17).
Tale considerazione ci aiuta a comprendere perché le ideologie hanno una “lunga durata”, dato che esse sono depositate all’esterno nei segni dalla natura materiale (anche una chiesa è un segno), ma nello stesso tempo sono penetrate dentro di noi, divenendo una parte intima di noi stessi, che spesso non può esser espunta se non con un’immensa fatica e talvolta con un doloroso travaglio.
Questa prospettiva, sostenuta da autori come L. S. Vygotsky e V. N. Vološinov, scomparsi tragicamente negli anni trenta, ci permette di superare anche la dicotomia tipicamente liberale tra individuo e società, dato che, come si è visto, anche il contenuto della psiche è sociale e l’individuo considerato come persona non è soltanto un essere biologico e naturale, ma anche e soprattutto un prodotto sociale. Più nel dettaglio così scrive Vološinov: “La coscienza prende forma e sostanza nei materiali dei segni creati da un gruppo organizzato nel processo del suo rapporto sociale…La logica della coscienza è la logica della comunicazione ideologica, dell’interazione segnica di un gruppo sociale”. (Marxismo e filosofia del linguaggio, p. 63).
Questa un po’ lunga premessa per soffermarmi brevemente sull’uso assillante di una serie di parole accomunate da significati assimilabili con cui si indicano gli strati inferiori della popolazione mondiale: mi sto riferendo a espressioni quali i più deboli, i più vulnerabili, i poveri. Espressioni che hanno avuto un così grande successo che papa Bergoglio ha addirittura pensato di istituire la Giornata mondiale dei poveri, celebrata domenica 19 novembre e organizzata dal Dicastero per la nuova evangelizzazione. Questo evento avrebbe visto la partecipazione di 4.000 bisognosi, dei quali solo 1.500 sono stati invitati a pranzare con il papa.
Cerchiamo in poche parole di disvelare il meccanismo ideologico che sta dietro l’utilizzo di queste espressioni, che non costellano solo i mass media del nostro paese, ma che sono diffuse a livello internazionale, spesso accompagnate da una serie di frasi fatte che non corrispondono ad alcuna azione praticabile e concreta, come per esempio “non dobbiamo lasciarli indietro”. La cosa probabilmente non è poi così complicata se la Rivista Nigrizia dei missionari comboniani, pubblicata dal 1883, afferma che non esistono i poveri, ma solo gli impoveriti, ma qui si ferma lasciando aperti degli interrogativi: chi sono gli impoveriti e chi li ha impoveriti? Anche in questo caso, come nel precedente relativo alle guerre balcaniche, manca il colpevole, per cui sembrerebbe che si tratti più di una constatazione che di una denuncia.
Naturalmente, per rispondere alle domande su formulate bisogna cambiare registro e parlare di oppressione e di sfruttamento, perché solo queste nozioni ci possono far comprendere come si è prodotta la povertà, che non è né uno stato connaturato all’essenza di certi individui, né ineliminabile, come invece farebbe pensare l’assimilazione ai più deboli. D’altra parte, gli stessi organizzatori della campagna “Dichiariamo illegale la povertà”, con la quale si mira a far approvare il prossimo anno una risoluzione dall’ONU, in occasione del 70° anniversario della Dichiarazione dei diritti umani, riconoscono che la povertà non è un fatto naturale. Tuttavia, non trovano di meglio che proporre una dichiarazione formale, che lascerà le cose esattamente come stanno attualmente e che non migliorerà certo le condizioni degli impoveriti del mondo (circa il 13% della popolazione mondiale che vive con 1,90 dollari al giorno). Essi richiedono con forza “una Risoluzione che dichiari l’illegalità di norme, istituzioni e pratiche all’origine della povertà”, la quale si aggiungerà alla lista delle tante disattese risoluzioni dell’ONU. Ma anche questo gesto ha un’origine tutta ideologica, nel senso che mette al posto di rivendicazioni concrete e praticabili, sia pure non in maniera indolore, la dichiarazione di un organismo che di fatto, nell’insieme delle attuali relazioni internazionali, non è in grado di andare oltre le parole. Parole che però convinceranno molti che qualcosa contro la povertà si sta veramente facendo.
Note
[1] Anche l’uso degli anglicismi non è mai casuale, perché da un lato serve ad impedire la comprensione di ciò di cui si parla ad un’ampia parte della popolazione, dall’altro consente a chi le utilizza di identificarsi con un certo gruppo privilegiato. Inoltre, se analizziamo gli anglicismi più usati, come per esempio stakeholders (portatori di interessi), competitor (rivale), essi fanno parte dell’armamentario linguistico del pensiero neoliberale.
[2] En passant, ricordo che nel 2016 Miloševič, morto in carcere perché non fatto curare adeguatamente, è stato riconosciuto non colpevole delle stragi dei bosniaci dal Tribunale Penale Speciale per la ex Yugoslavia.
Alessandra Ciattini
25/11/2017 www.lacittafutura.it
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