Le politiche attive del lavoro: il grande affare delle agenzie private
L’articolato processo di riforme voluto dalla Commissione Europea ed agito pedissequamente dal Governo Renzi, ha visto nel 2015 un anno di svolta preoccupante, quello in cui lavoratori e cittadini hanno subito la spinta più severa verso un modello di sviluppo del paese in direzione neoliberista: meno diritti dentro e fuori il mercato del lavoro, meno Stato e più Mercato, meno inclusione sociale e più competizione, meno corpi intermedi e più soggettività, meno libertà (compreso il diritto di sciopero) e più controllo sociale. Il tutto in nome del superamento di una crisi, quella che il sociologo Gallino ha brillantemente definito il colpo di stato della banche e delle multinazionali. Ma il 2015 è stato al contempo, l’avvio dell’attuazione di quella programmazione comunitaria 2014-2020[1] (fondi strutturali) che avrebbero potuto costituire per il nostro paese un importante braccio finanziario (circa 123 miliardi di euro per il settennio), un’occasione di investimento nella costruzione di nuovo lavoro attraverso un coraggioso piano industriale, mitigando al contempo, gli effetti che la crisi ha prodotto in termini di progressive e sempre più laceranti diseguaglianze sociali ed economiche.
Ma a ben guardare la genesi di queste riforme (dal Jobs Act fino alla riforma della PA) e il processo di preparazione della nuova politica di coesione si scopre un unico principio ispiratore: riformare il paese in direzione neoliberista. Un principio che, stante i documenti comunitari, avrebbe dovuto portarci fuori dalla crisi e verso una società più intelligente, sostenibile e inclusiva. Queste le tre priorità del documento strategico “Europe2020” che dal 2011 tesse i legami più forti tra la politica di ogni paese e quella globale europea al punto di cancellare, de facto, la sovranità nazionale. Ma, come al solito, non sono gli obiettivi dichiarati a rendere esplicita la direzione del cambiamento, poiché ciò si coglie step, by step e, dunque, nelle misure e negli strumenti che vengono agiti per il raggiungimento di quegli obiettivi.
Per questo l’UE ha dettato l’agenda ad ogni paese in tema di riforme strutturali. La nuova politica di coesione, che ne avrebbe sostenuto l’attuazione, costituiva il banco di prova della convergenza di tutti i paesi verso un unico modello di sviluppo. Sicché quei fondi strutturali, di cui il nostro paese ha sempre dato un imbarazzante esempio di cattiva gestione e di incapacità di spesa ( nella programmazione 2007-2013 ammontavano a 99,286 miliardi di euro[2]) e su cui i cittadini attendevano ieri – ed ancor oggi – di conoscerne l’impatto in termini occupazionali, oggi sostengono, invece, quel cambiamento che continua ad acuire le disuguaglianze sociali, alla faccia della società più inclusiva.
Parole accattivanti accompagnano i titoli degli 11 obiettivi tematici su cui si articola questa nuova stagione programmatoria, lemmi che celano l’inganno. I nuovi fondi strutturali, in capo alle diverse amministrazioni centrali dello Stato tanto quanto quelle regionali, costituiscono il braccio finanziario per l’attuazione di quelle riforme che ci riconsegneranno un paese con un arretramento importante dello Stato dalla “cosa pubblica” ed un ingresso massiccio del privato nella sua gestione.
Sull’intreccio tra riforme nazionali e fondi comunitari il caso delle riforme delle politiche attive del lavoro (decreto legislativo n.150/2015), previste nel pacchetto Jobs Act, costituisce la road map del nuovo Programma Operativo Nazionale “Sistemi di politiche attive per l’occupazione” su cui vengono allocati 2,177 miliardi di Euro di fondi comunitari. Il Programma sarà gestito dalla Neo Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro (ANPAL), essa stessa frutto del Jobs Act . Ben poca informazione è circolata su questo aspetto della riforma, fatta eccezione per quella narrazione istituzionale sostenuta dai media che la descrive come una riforma chiave per rilanciare l’occupazione, magari in combinato disposto con le ingenti risorse destinate alle imprese per le “nuove” assunzioni.
Ma, come si diceva poc’anzi, le riforme, che costituiscono la messa in pratica dei diktat della Commissione Europea, il cui cronoprogramma è esso stesso oggetto di valutazione nell’ambito dei Piani Nazionali di Riforma[3], muovono tutte dalla stessa esigenza: cambiare il volto di questo paese a prescindere dal costo sociale che tale cambiamento assumerà sulle fasce di popolazione più marginali. A prescindere dal fatto che senza lavoro, con pochi diritti e tanta precarietà queste fasce saranno sempre più ampie inglobando segmenti sempre più estesi di quella che fu la middle class italiana. A prescindere dal fatto che poco è rimasto di quello Stato Sociale che avrebbe potuto e dovuto frenare la caduta libera nello stato di povertà relativa ed assoluta: il 12,9% delle persone residenti, pari a 7 milioni 815 mila persone vivono in condizioni di povertà relativa mentre il 6,8% della popolazione residente pari a 4 milioni 102 mila persone è vittima della povertà assoluta[4]
Entrando nel dettaglio di questo specifico aspetto della riforma a forte impronta centralista, è bene precisare subito che in esso è contenuto un modello di politica attiva del lavoro che ricalca in primis l’esperienza pionieristica sperimentata attraverso gli ammortizzatori sociali in deroga ed, in secundis, l’Iniziativa comunitaria “Garanzia Giovani”.
Posto che in entrambi i casi non sussistono evidenze empiriche che ne legittimino l’efficacia in termini occupazionali, sorprende che tale modello sia stato assunto ed esteso a tutta la platea dei disoccupati e percettori di forme di sostegno al reddito. Si tratta invece di evidenze empiriche quelle presentate dal Ministero del lavoro e delle Politiche sociali sul monitoraggio del Programma che, tralasciando gravemente il dato sul numero degli occupati in esito a Garanzia Giovani, si sofferma sulle registrazioni dei giovani al programma (780.994[5]), sulle prese in carico (5.975 presi in carico) e su quelli cui è stata proposta una misura (248.604) che rappresentano lo sconsolante 31%. Insomma, performance assai poco rassicuranti per costoro e, tra breve, per tutti quei disoccupati che dovranno seguire lo stesso percorso.
Il modello di cui Garanzia Giovani è il precursore fa proprio il postulato che il problema della non occupazione sia determinato da un mismatch tra domanda ed offerta di lavoro, prevedendo che l’offerta si attivi secondo diverse misure (orientamento, bilancio di competenze, formazione, tirocini, autoimprenditorialità ecc) in funzione di quella che è la domanda di lavoro. Tutto ciò nella assoluta consapevolezza che la domanda di lavoro è evidentemente in flessione a causa della caduta della domanda interna di beni. Insomma, il lavoro non c’è e senza una politica industriale collegata alle politiche del lavoro non saranno le skills a preservare dai rischi di disoccupazione o dalla precarietà sine die. Ciononostante, tutti coloro che non sono occupati, beneficiari di ammortizzatori sociali o di sostegno al reddito, devono dimostrarsi attivi, sottoscrivendo la loro disponibilità al percorso attraverso i nuovi Centri per l’Impiego (ex servizi per l’impiego).In caso contrario si avvia un set progressivo di sanzioni.
Si giunge così al secondo aspetto della riforma e, dunque, al destino dei servizi pubblici per l’impiego e alla loro partnership con le agenzie private del lavoro. Soffermandoci sui primi, peraltro interessati dalla “riforma Delrio” (visto che dipendono dalle province), il decreto 150/2015 gli riconosce un peso specifico rilevante, visto che è attraverso tali centri che si avvia la procedura di politica attiva, ma poi trascura gravemente l’annoso problema dell’esiguo numero di operatori in forze presso tali servizi, non prevedendo alcun investimento specifico in tal senso[6]. Per avere un’idea delle condizioni in cui versano tali uffici, basti pensare che il rapporto tra disoccupati e operatori è in Italia di 254:1, 26:1 in Germania; 20:1 nel Regno Unito, 65:1 in Francia[7]. Considerato poi che tutto il processo di politica attiva si avvia proprio attraverso tali servizi (almeno a partire dalla DID[8], alla profilatura del livello di occupabilità fino al patto di servizio), appare chiaro che questo mancato investimento nei servizi pubblici è da ricercare nella volontà di aprire definitivamente questi servizi a favore dei privati su un tema e su una funzione che non può essere sovradeterminata dalla asimmetrica logica del mero profitto. Non casualmente, il dispositivo sancisce definitivamente l’accreditamento delle Agenzie Private del lavoro (APL), alle quali il disoccupato o cassaintegrato dovrà rivolgersi per l’attuazione del “contratto di ricollocazione”.
Questo inesorabile arretramento della componente pubblica, cui di fatto è lasciato il mero lavoro burocratico, è già esperito in Garanzia Giovani, dove le misure di politica attiva ( orientamento, bilancio di competenze, formazione, tirocini, ecc) vengono prevalentemente erogate dalle APL accreditate, cui il disoccupato, o percettore di una qualche forma di sostegno al reddito dovrà rivolgersi a seguito di una profilatura del suo livello di occupabilità.
E’ questo il terzo elemento chiave del modello, poiché a quella profilatura corrisponde un “assegno di ricollocazione” tanto più alto quanto più basso è il profilo di occupabilità che, evidentemente, costituirà il nuovo core business delle Agenzie private poiché quell’assegno potrà essere speso solo presso tali Agenzie accreditate. Insomma, un ottimo momento per gli operatori del mercato dell’intermediazione, visto che oggi, in presenza di una crisi della domanda di lavoro, il nuovo committente – lo Stato – si presenta assai più generoso e la platea dei “clienti” – disoccupati – assai più folta e a minor rischio di contrazione nel breve e medio periodo.
Altri principi aggravano il quadro generale di questa riforma, da quello che rende qualsivoglia forma di sostegno al reddito condizionata dalla disponibilità del soggetto a seguire un percorso di politica attiva, alla definizione di “un’offerta congrua” di lavoro decisa unilateralmente dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali fino all’introduzione del principio secondo cui i titolari di trattamenti di integrazione salariale in costanza di rapporto di lavoro possono essere chiamati a svolgere lavori di pubblica utilità.
Infine, la nuova Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro ( ANPAL) la cui istituzione apre il 2016 rappresentando un esempio tangibile del processo di “agenzializzazione” che sta investendo molte strutture pubbliche dello Stato, sottraendo funzioni, risorse economiche e personale a Ministeri, enti di ricerca ecc. Il decreto 150/2015 dedica ad essa un ampissimo spazio, trasferendo funzioni strategiche, di coordinamento e monitoraggio sulle politiche del lavoro nonché personale prima di competenza del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Un cambiamento inedito nel nostro paese poiché dietro la falsa esigenza di coordinare il sistema e tutti gli attori interessati, si attua uno svuotamento sostanziale delle funzioni chiave del Ministero del lavoro e delle politiche, cui resterà solo la residuale funzione di indirizzo.
Evidentemente non era necessaria alcuna nuova Agenzia poiché se quel coordinamento non è stato agito nei 15 anni che ci separano dall’ultima riforma dei servizi per il lavoro (Il D. Lgs. 469/97), le ragioni non sono certo da ricercare nell’assenza di un’Agenzia, quanto nel mancato investimento economico, infrastrutturale e di personale da dedicare al sistema dei servizi per l’occupazione.
Ma l’Anpal è anche lo spazio della ripresa concertazione del Governo con le parti sociali (sindacati confederali e rappresentanti datoriali), i quali, conclamando definitivamente la mutazione genetica di cui sono stati oggetto, grazie al Jobs Act e alla sua neo Agenzia, entrano a pieno titolo nel suo Consiglio di Vigilanza “…dettando le linee di indirizzo generali, proponendo gli obiettivi strategici, vigilando sul perseguimento degli indirizzi e degli obiettivi strategici adottati dal consiglio di amministrazione ( art.7 e art 6 del decreto n. 150/2015)”. Insomma, le stesse parti sociali che sui territori svolgono azioni attraverso le loro agenzie, i loro enti di formazione e i loro fondi interprofessionali, costituiscono parte integrante della direzione politica dell’Agenzia.
Non basta. L’Anpal costituisce anche l’unico caso in Europa, in cui sarà un’Agenzia, e non un Ministero, a gestire il Fondo Sociale Europeo e, dunque, quel fondo comunitario la cui missione è la creazione di occupazione ed inclusione sociale. L’Anpal è già oggi l’Autorità di Gestione di quel Programma Nazionale per l’Occupazione, che come anticipato nell’introduzione, collega la politica comunitaria con la riforma nazionale del mercato del lavoro.
Ma chi valuterà le politiche del lavoro, la riforma e il Jobs Act nel suo insieme? Ancora una volta l’inganno poiché il dispositivo da un lato, riconosce queste funzioni ad Isfol, unico ente pubblico di ricerca che si occupa di temi legati al mercato del lavoro, inclusione sociale e formazione e dall’altro, ne prevede il trasferimento di personale ( circa 100 unità su 350 a TI), del turn over e delle risorse economiche. E tenuto poi conto che l’Istituto vive delle risorse finanziarie collegate al Fondo Sociale Europeo – di cui ANPAL è oggi il titolare – è plausibile domandarsi quale grado di libertà possa avere un Istituto di ricerca ad esercitare il suo ruolo di terzietà nella valutazione dell’operato di un’Agenzia che è poi il suo committente.
Ma a fronte di una pessima riforma che piace tanto all’UE ed entusiasma l’animo dei renziani, dei sindacati confederali, delle Agenzie private del lavoro e degli enti di formazione resta ancora un nodo da sciogliere, e cioè l’esito finale della Riforma Costituzionale attraverso cui ri-centralizzare le competenze in materia di mercato del lavoro e chiudere definitivamente quel processo federale sulla cui base fu impiantata la precedente riforma. Insomma, un anno ancora in cui si giocheranno i rapporti di forza tra Stato e Regioni mentre i cittadini avranno già avuto modo di abituarsi alla privatizzazione di un altro segmento dello Stato.
Viviana Ruggeri
8/1/2016 www.usb.it
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