LE RAGIONI DEL NO
L’eventuale riduzione del numero dei parlamentari italiani ha già rappresentato, nei mesi scorsi, una questione intorno alla quale si sono esercitati in molti.
Dalle dotte considerazioni espresse da emeriti docenti di Scienze politiche (vedi Gianfranco Pasquino) e costituzionalisti quali, ad esempio, Salvatore Curreri e Massimo Luciani, a commentatori da “Bar dello sport”; lo stesso Salvini ci si è cimentato!
D’altra parte, non era difficile immaginare l’effetto che avrebbe prodotto, nell’immaginario collettivo, la proposta M5S di “contenere i costi della politica, ridurre le poltrone e aumentare l’efficienza di Camera e Senato”.
In sostanza, le pur comprensibili – ma discutibili – motivazioni addotte dai sostenitori del SI, hanno avviato, secondo il parere di Adriano Biondi (1.) (Vicedirettore di Fanpage.it) “Un processo di percezione distorta del tema, per cui, nel dibattito pubblico, la questione della riduzione del numero dei parlamentari è stato connesso a quello del costo delle attività politiche, confondendo quindi questo piano con quello dei costi della democrazia”.
“Non a caso”, acutamente aggiunge Biondi “Volendo ragionare allo stesso modo dei proponenti, ad esempio, si potrebbe dire che solo il referendum per confermare o meno il taglio dei parlamentari costerà circa 300 Mln di euro; bruciando i risparmi dei primi 5 anni di taglio”!
E, in effetti, nell’approssimarsi della data del referendum (previsto per il 20 e 21 settembre prossimo) la sensazione più diffusa è che, purtroppo, sulla questione del robusto “taglio” (pari al 36,5 per cento; da 945 a 600 parlamentari) sia stata avviata una discussione che, mortificando le motivazioni per un confronto “di merito”, è rimasta confinata nell’angusto ambito del “costo della casta”; un tema molto caro al M5S degli esordi.
Senza alcuna intenzione di voler minimizzare e/o sottovalutare le ragioni del SI, è necessario, però, rilevare che queste si rifanno, di norma, a motivazioni che, oggettivamente, finiscono con l’apparire di carattere “populistico”; se non, addirittura, demagogico.
Rispetto al tema del contenimento dei costi della politica, ad esempio, è, infatti, sin troppo facile rilevare che il passaggio da 630 a 400 deputati e da 315 a 200 senatori – cui andrebbero sempre aggiunti i senatori “a vita” – comporterebbe minori spese (2.) per circa 60 Mln di euro l’anno; cifra ben lontana dai 500 Mln a legislatura indicati da Di Maio ed erroneamente condivisi da Carlo Fusaro (3.) (Professore di Diritto pubblico comparato c/o l’Università di Firenze) e Pietro Ichino (4.)
In questo senso, come già detto, in altra occasione (5.), al fine di – efficacemente ed opportunamente – ridurre considerevolmente le spese dello Stato, sarebbe il caso di rinunciare al programma militare dei famigerati F35 per tagliare – come d’incanto e in un solo colpo – ben 10 Mld di euro.
Altro che 60 Mln l’anno!
Ma c’è di più, perché, di là dall’aspetto meramente economico – certamente non irrilevante, ma da non considerare (rispetto al tasso di democrazia rappresentativa) una “variabile indipendente” – una riduzione, ad esempio, del numero dei senatori da eleggere comporterebbe, automaticamente, che la maggioranza delle regioni italiane, tranne quelle più popolose, non eleggerebbe più di 4 senatori nei collegi proporzionali e solo 3 (fissati per legge) nei collegi uninominali.
In più, non solo per le liste minori, ma anche per quelle che attualmente esprimono tra il 10 e il 20 per cento dell’elettorato, sarà praticamente impossibile – a parere di Adriano Biondi – ottenere eletti al Senato.
Tra l’altro – soprattutto a beneficio di quanti, in buona fede, sono stati emotivamente coinvolti in quella lotta alla casta che, in talune occasioni, si riduce a una vera e propria “lotta alle streghe” – all’approfondimento dei 12 motivi (da me condivisi e, di seguito indicati per “capitoli”) addotti dai sostenitori del No e ben illustrati in un recente testo (6.), sarebbe interessante (e, direi, doveroso) aggiungere una domanda.
“Come mai l’ipotesi di ridurre così drasticamente il numero dei parlamentari è riuscita, per la prima volta, a conseguire il miracoloso risultato di mettere d’accordo tutti i partiti” (a parte alcuni parlamentari che si sono dissociati a titolo personale)?
A questo riguardo, Vincenzo Musacchio – noto giurista e Presidente dell’Osservatorio Antimafia del Molise – dimostra di avere le idee molto chiare quando afferma che la riforma andrebbe respinta, in estrema sintesi, essenzialmente per tre motivi:
a) i nuovi parlamentari, in misura maggiore di quanto già avviene oggi, saranno tutti scelti dalle segreterie dei partiti,
b) la rappresentanza politica sarà concentrata solo nelle zone più popolose del Paese,
c) si amplierà il distacco tra eletto ed elettore e ciò contribuirà a favorire ancora di più il distacco dei cittadini dalla politica; in definitiva, la “casta” diverrà ancora più “casta”!
12 motivi per un convinto No, così come illustrati da Becchi e Palma, sono rappresentati:
1) carattere oligarchico della riforma,
2) Commissioni in sede deliberante al Senato costituite da soli 4 componenti,
3) elezione del Capo dello Stato affidata alla sola maggioranza parlamentare,
4) liste minori che al Senato non potranno partecipare alla distribuzione dei seggi su base regionale,
5) peso dei parlamentari eletti all’estero che, pur se ridotti da 18 a 12, potrebbe risultare decisivo nella tenuta del governo, a dispetto della volontà del voto nazionale,
6) al taglio dei senatori avrebbe dovuto accompagnarsi una riduzione – da 5 a 3 – dei senatori a vita,
7) alla compressione della rappresentanza popolare all’interno del Parlamento, non corrispondono norme di contrappeso istituzionale,
8) eventuali revisioni costituzionali saranno demandate alla volontà di un esiguo numero di deputati e senatori,
9) ferma restando l’attuale legge elettorale, le prossime legislature saranno composte da parlamentari quasi esclusivamente indicati dalle segreterie di partito,
10) rispetto agli altri paesi dell’Ue, l’Italia sarà tra quelli con il minor numero di deputati in proporzione alla popolazione di riferimento,
11) si concentra la rappresentanza politica nelle aree più popolose del Paese e non si tutelano le minoranze linguistiche,
12) un Parlamento con meno eletti allargherà ancora di più il solco tra eletti ed elettori e finirà per essere, ancora di più, percepito come qualcosa di molto distante dalle istanze dei comuni cittadini.
Certo, nel dare credito al Prof. Fusaro, quando afferma che la riduzione del numero dei parlamentari non potrà che produrre benefici perché “Saranno meno quelli che fanno proposte, interrogazioni, che devono parlare e intervenire” e ancora “nelle Commissioni si ragionerà meglio e le votazioni saranno più rapide e semplici”, si potrebbe anche concordare e lasciarsi indurre a esprimere un grande SI al taglio dei parlamentari; se, però, non ci fosse da rabbrividire al solo pensiero di un Parlamento privato delle voci di dissenso, nel quale fosse estremamente ridotto il confronto dialettico e di Commissioni (deliberanti) nelle quali, in particolare al Senato, i gruppi minoritari – quasi sempre gruppi di opposizione – non avrebbero i numeri per essere presenti.
“La democrazia non funziona così”! È questo il laconico commento espresso da Salvatore Curreri.
In questo contesto, nel quale appare veramente difficile riuscire a fare breccia nei convincimenti di coloro che ritengono di dover esprimere un SI convinto, senza se e senza ma, a prescindere da qualsiasi tipo di considerazione diversa dalla volontà di ridimensionare la “casta” e, illusoriamente, di snellire i lavori parlamentari, ben venga quindi l’irrituale (nei toni) ma fondamentale (nei contenuti) contributo di Nadia Urbinati (7.).
La docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York non usa mezzi termini nell’esporre la sua contrarietà alla riduzione del numero dei parlamentari italiani.
“Non è saggio, ragionevole e razionale dare il nostro assenso a una riforma costituzionale la cui coerenza con i principi della democrazia rappresentativa è condizionata a una legge ordinaria (riforma del sistema elettorale) che, per giunta, ancora non c’è e forse non riuscirà ad esserci”!
E ancora: “Si tratta di una riforma in tutto scellerata: è figlia di una logica aberrante, quella che crede (che vuol far credere) che rimpicciolendo il numero dei rappresentanti si rimpicciolisca la casta. Ma sarebbe vero proprio il contrario”.
“I forti vinceranno con più agio in una gara con minore numero di concorrenti. Solo gli sprovveduti possono credere che il taglio dei parlamentari sia la strada vincente per abbattere la casta. Vero è il contrario: la casta dei notabili che si formerà sarà ancora più autoreferenziale, famelica e corrotta”!
E concludendo:” Se davvero vogliamo che la rappresentanza valga per noi cittadini, non possiamo volere che per eleggere un rappresentante occorra quasi il doppio dei voti che servono oggi. Perché dovremmo votare contro il nostro interesse”?
Cos’altro aggiungere?
Resta solo da invitare tutti a meditare su di una scelta che, comunque, sarà ricca di conseguenze e non può essere affrontata ricorrendo a semplicistici slogan o, peggio – come già anticipato in altra sede – riducendo il tutto a una questione di carattere esclusivamente economico.
NOTE
1) Fonte:” Fanpage.it” del 12 luglio 2019; “Perché il taglio dei parlamentari non è una buona idea”
2) Fonte: “fanpage” del 12 luglio 2019; articolo di Adriano Biondi
3) Fonte: “QuiAntella”, del 29 febbraio 2020
4) Fonte: “News Pietro Ichino”, nr. 517
5) Fonte: “Se dodici No sembrano pochi”, pubblicato da “Micromegablog”, in data 13 marzo 2019
6) “Una riforma sbagliata. Dodici motivi per dire NO al taglio dei parlamentari”, a cura di Paolo Becchi e Giuseppe Palma; Editore GDS
7) Fonte: “Huffpost” del 5 agosto 2020; “L’illusione che il taglio dei parlamentari punisca la casta”
Renato Fioretti
Esperto Diritti del Lavoro. Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
Pubblicato sul numero 8/9 settembre 2020 www.lavoroesalute.org
Puoi leggerlo anche in versione interattiva: http://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-settembre-2020/
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