Le recessioni fanno male alla salute

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“La crisi economica del 2008 ha comportato un aumento dei disoccupati, dei senzatetto e dei poveri, toccando quei fattori – occupazione, reddito, proprietà immobiliare – che costituiscono tra i maggiori determinanti dello stato di salute. Il debito nazionale è aumentato, nel momento in cui i soldi pubblici sono stati utilizzati per prevenire il collasso del sistema finanziario, e molti governi hanno così tagliato i servizi per ridurre tale debito. Ma qual è stato l’effetto di tutto ciò sulla salute?”

Questo è l’inizio di un editoriale apparso a settembre sul British Medical Journal. È un editoriale che, prescindendo dall’interrogazione finale, fa affermazioni piuttosto forti, quasi fossero l’incipit di un Manifesto della Salute ai tempi del Capitale 2.0 di Piketty. Gli autori dell’editoriale/Manifesto, due professori di sanità pubblica rispettivamente dell’Università di Liverpool, Ben Barr, e del Farr Institute della stessa città, David Taylor-Robinson, hanno provato a rispondere alla domanda che si erano posti partendo da due riferimenti: una review (una rassegna degli studi pubblicati sulle riviste scientifiche) e un grafico.
Partiamo dalla prima. La rassegna sistematica di Parmar e colleghi “Health outcomes during the financial crisis in Europe: systematic literature review”[1] appare sulla stessa rivista due mesi prima, e trova come la maggior parte degli studi che hanno investigato il rapporto tra crisi ed esiti di salute abbiano mostrato una relazione avversa tra i due termini dell’equazione. I risultati delle indagini recensite, al di là degli alti rischi di bias nella maggior parte dei lavori, erano più evidenti per i suicidi e i problemi di salute mentale, meno per la salute percepita, la mortalità e gli stili di vita.

A questo punto, gli autori individuano il challenge, ovvero quelli che per noi sono semplicemente problemi e che nella mentalità anglosassone diventano invece appassionanti sfide. Ichallenge nello stimare gli effetti della recessione sulla salute sono appunto due. 

  1. Definire con una certa precisione quali tra i diversi processi socioeconomici innescati dalla crisi, e che si sviluppano nell’arco di decadi, hanno effetti più diretti sullo stato di salute;
  2. Individuare e seguire i suddetti processi “di interesse” nel periodo che intercorre tra l’esposizione alla causa e la registrazione dell’effetto (ad esempio, i cambiamenti degli stili di vita possono avere riscontri di salute nell’arco di diversi anni).

Su queste due coordinate, gli studi recensiti nella review mostrano qualche limite, senza contare il fatto che i risultati riportati potrebbero essere stati influenzati da mirate politiche di governo.

Gli interventi dei governi negli anni della crisi, e in particolare le politiche britanniche, sono state ispirate alla nuda e cruda austerità.  Taylor-Robinson e Barr ripercorrono il caso inglese in una Figura (vedi sotto), il loro secondo riferimento dei nostri autori, ricostruita a partire da dati istituzionali.

Figura 1.  Variazione percentuale di: pignoramenti, disoccupazione, salario, spesa pubblica, suicidi, dal 2002 al 2014.  Aree ombreggiate = periodo di recessione e periodo di promozione delle politiche di Austerity

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(Fonte:  Department for Communities and Local Government, Office for National Statistics. HM Treasury.)

All’irrompere della crisi, fino a metà del 2009, il Governo britannico progressista adotta politiche espansive della spesa; a partire dal 2010 i conservatori promuovono, al contrario, politiche di austerity che coinvolgono in modo diretto l’intero sistema sanitario britannico attraverso la sua riorganizzazione. I soggetti più colpiti da queste politiche, riportano gli autori, sono stati quelli appartenenti ai gruppi più svantaggiati.

Sullo sfondo dei trend emersi dalla tabella e dalla review, gli autori rimarcano l’evidenza dell’effetto negativo sulla salute delle politiche di austerità. In particolare, nel periodo dell’austerity si assiste all’ulteriore crescita dei suicidi, già peraltro aumentati all’irrompere della crisi. Dopo aver citato ulteriori studi osservazionali non recensiti nella review, e che attestano gli effetti mitigatori che le politiche di welfare possono avere sulla salute, gli autori concludono con la raccomandazione, quella di promuovere robusti studi prospettici prima di riscrivere le leggi (o ridisegnare i sistemi sanitari). È il principio dell’Evidence based policy, ovvero delle politiche basate sull’evidenza. Auguri.

Quando riviste prestigiose riportano tali e tante considerazioni, viene quasi da gioirne per il buon vecchio motivo del mal comune. Soprattutto quando guardiamo a casa nostra, dove le dinamiche britanniche ci sono piuttosto familiari: austerity, debito pubblico, bisogni di salute, finanziamento del servizio sanitario nazionale, sostenibilità dei livelli essenziali di assistenza (LEA), tagli ai servizi, aumenti di ticket, liste di attesa, ricorso al privato, sono tutti temi che non mancano mai dalle rassegne stampa quotidiane.
Eppure non bisogna dimenticare qual era il nostro punto di partenza per l’analisi degli effetti della crisi sulla salute, ovvero l’editoriale di Barr e Robinson-Taylor. “Tutti gli autori del Ssn – rincara la dose Mario Calandriello di Crea Sanità dalle colonne del Sole 24 Ore del 20 settembre – si confrontano e spesso litigano sull’anello finale della catena della distribuzione dei finanziamenti. Nessuno interviene invece sul meccanismo che strozza il rubinetto dei finanziamenti al Ssn. […] La cosiddetta crisi dovrebbe essere chiamata con un nome che rifletta maggiormente la realtà: la determinata e chiara volontà di far pagare agli Stati (quindi ai cittadini) i risultati di una politica irresponsabile di gestione degli investimenti da parte degli speculatori finanziari”[2].

Questa affermazione merita un esempio concreto, uno di quelli che dovrebbe innescare riflessioni radicali in tutti coloro che, di cultura liberista, hanno storto il naso di fronte alla citazione iniziale di quello che abbiamo ribattezzato affettuosamente “Manifesto della Salute ai tempi del Capitale 2.0”.Prendiamo il caso del milione e più di italiani portatori cronici del virus dell’epatite C, un terzo dei quali con cirrosi. Prendiamo il farmaco attraverso cui essi possono essere curati, il Sovaldi ™ prodotto dalla Gilead.

Immaginiamo di andare in farmacia ad acquistarne una scatoletta per un trattamento.

“Quanto le devo?” ci vediamo chiedere al farmacista, il quale a sua volta passa lo scanner sul codice a barre e legge il prezzo sul video del computer: “sono settantaquattromila euro…”

Dopo aver ripetuto mentalmente quattro o cinque volte la parola settantaquattromilaeuro chiediamo timidamente, ancora, al farmacista: “Ma com’è possibile che costi così tanto?”

“Costa così tanto perché lo acquista in farmacia… il trattamento all’ospedale, sempre che glielo passino, costa meno: solo quarantunmila… E se la contrattazione tra AIFA e detentori del brevetto andasse a buon fine potrebbe costare ancora meno, e quindi essere disponibile non solo per i pazienti più gravi… Comunque mi scusi, ho altri clienti… Paga in contanti o mi fa un assegno?”[3].

Insomma, è la speculazione finanziaria che porta a massimizzare i profitti da parte della Gilead, fissando per un farmaco un prezzo che ha una relazione diretta non con i costi sostenuti per l’investimento ma con la felicità degli azionisti quotata a Wall Street[4], e rendendo disponibile la cura solo per una minima percentuale di malati; ed è sempre della speculazione finanziaria che c’è da sperare che vada a buon fine, perché se poi va male poi ci vogliono i soldi pubblici per riparare i buchi, col risultato che rimangono ancora meno soldi per assicurare le cure a quei già pochi pazienti a cui la speculazione finanziaria ha assicurato una cura irragionevolmente costosa. Ma questo, al farmacista non lo diciamo.

La domanda che invece, a questo punto, viene spontaneo porgerci è: stiamo anche noi sacrificando la sanità sull’altare del debito pubblico? Come possiamo capirlo? Per capire bisogna misurare, ma le variabili sono tante, gli indicatori molteplici, il ragionamento complesso.

Forse, allora, per rispondere alla domanda precedente potremmo provare a ribaltarla, riformulandola in questi termini: la garanzia di un accesso equo e universale ai servizi essenziali per il cittadino è ancora sostenibile dal nostro sistema delle cure e dell’assistenza?
La risposta non è ancora immediata. Prima bisogna definire quali siano i servizi essenziali, e quindi cosa si intenda per accesso equo (in un secondo momento potremo ragionare anche di efficienza ed efficacia dei servizi). È ormai ovvio che il ragionamento si sviluppa intorno ai LEA, che il Ministero della salute ha recentemente aggiornato con un’aggiunta di 110 nuove prestazioni da garantire al cittadino. Il dibattito si è acceso sulla loro sostenibilità, in virtù di uno stanziamento strutturale di 800 milioni di euro, legati a loro volta a doppio filo con un aumento di due miliardi del Fondo sanitario nazionale[5], il quale peraltro rischia di dover essere rivisto a seguito delle recenti note del Ministero dell’economia e delle finanze sugli ingenti deficit dei bilanci sanitari regionali (1,2 miliardi, ante-tasse locali)[6].

Insomma, l’analisi del contesto risulta complicata, ma non c’è dubbio che sarà dal livello di garanzia dei Lea che potremo vedere se il sistema tiene, o se il Servizio sanitario nazionale si starà effettivamente sacrificando sull’altare del debito pubblico, e quindi dell’austerity.

Eppure dietro ai Lea non c’è solo una questione di sostenibilità. C’è anche il problema dell’equità. È a questo che fa riferimento l’editoriale di Barr e Taylor-Robinson, quando afferma che le politiche di austerità in UK sono state pagate dai gruppi svantaggiati.

Allora, il monitoraggio dell’erogazione dei Lea attraverso il calcolo degli indicatori standard, questo problema di equità non riesce a rilevarlo. Infatti, ottimi risultati riportati a livello di regione, o di Asl, non garantiscono il fatto che tutti i richiedenti assistenza, non uno di meno, siano riusciti ad ottenerla (il caso epatite c docet).

Allora un programma di osservazione dei Lea dovrà arricchire la propria potenza di calcolo, andando a declinare le informazioni sugli accessi ai servizi secondo le caratteristiche socio demografiche di coloro che li richiedono. In assenza di questo ulteriore sforzo, non avremo mai la certezza che anche alle persone che vivono in aree o in condizioni di “deprivazione” possano essere garantiti i servizi essenziali.

Riassumendo, in un’era in cui gli insuccessi degli investimenti finanziari internazionali hanno costretto gli stati a costosissimi interventi per tappare le falle, i regimi di austerity, promossi a cinici guardiani del debito pubblico, hanno contenuto gli investimenti in salute. Diventa così sempre più necessario dotarsi di strumenti in grado di monitorare in modo tempestivo ed efficace la “tenuta” dei sistemi. Osservare che l’accesso alle prestazioni assistenziali essenziali sia garantito a tutti i cittadini, in modo equo e universale, può essere un’azione strategica, ed etica, per evitare che quello che resta del celebre pollo di Trillussa venga addentato dai soli pochi fortunati.

Giacomo Galletti, Agenzia Regionale di Sanità, Regione Toscana.

Bibliografia

  1. Parmar D, Stavropoulou C, Ioannidis JPA. Health outcomes during the financial crisis in Europe: systematic literature review. BMJ 2016;354:i4588.
  2. Mario Calandriello.   Il taglio di beni e servizi serve a pagare gli interessi sui titoli di debito. IlSole24Ore 20-26 settembre 2016 
  3. Petizione: Epatite C il diritto alla cura. Saluteinternazionale.info, 20.07.2016
  4. Roberto Satolli. Epatite C. Prezzo dei farmaci, Ordini dei medici e Nazioni Unite.Saluteinternazionale.info, 28.09.2016
  5. Barbara Gobbi. I nuovi Lea e la guerra dei 2 miliardi. Radicali.it, 13.09.2016
  6. Luciano Fassari. Torna lo spettro del deficit. Quotidianosanita.it, 26.09.2016

Giacomo galletti

2/11/2016 www.saluteinternazionale.info

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