LE RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO
Le rassicurazioni e i dati diffusi un po’ a caso dal governo non arrestano la crescita della disoccupazione in Italia. L’ultimo rilevamento Istat, diffuso alla fine di luglio (in attesa di leggere l’aggiornamento del prossimo 1 settembre), sottolinea che nel nostro Paese, a giugno, gli occupati sono diminuiti di 22 mila unità rispetto al mese precedente; rispetto a giugno 2014, l’occupazione è risultata essere in calo di ben 40 mila unità. Cresce il numero dei disoccupati (+55 mila su base mensile; +85 mila su base annua), con un tasso pari al 12,7%. Dati che sono ancora peggiori per quanto riguarda i giovani, rispetto ai quali l’Istat registra un nuovo record del tasso di disoccupazione, che a giugno è stato pari al 44,2%.
Il Jobs act, come abbiamo sottolineato spesso su questo giornale, non è servito affatto a fermare l’emorragia occupazionale. E non è servito nemmeno a migliorare i rapporti di lavoro, che rimangono di grave precarietà e ricattabilità per i lavoratori. I turni massacranti nelle fabbriche, il lavoro nero persistente, la catena dei subappalti, le esternalizzazioni, l’aumento dei ritmi di lavoro, la saturazione dei tempi ciclo, l’insicurezza nei luoghi di lavoro, sono la rappresentazione plastica dello sfruttamento dei lavoratori, cioè della intatta, e anzi accresciuta, capacità del capitale di estrarre profitto spremendo una maggiore quantità di lavoro.
Di fronte a questa situazione, la riduzione dell’orario di lavoro non può che essere una parola d’ordine della sinistra. Ha ragione, in questo senso, Valentino Parlato quando in un articolo su Il Manifesto afferma che «Oggi di fronte alla attuale gravissima crisi e alla disoccupazione in crescita, bisogna rimettere al primo posto (ma per alcuni è un controsenso) la riduzione dell’orario». Ma, paradossalmente, a mio giudizio, lo stesso Parlato cade in una grave contraddizione subito dopo e smetto di conseguenza di essere d’accordo con lui. Parlato, infatti, considera contemporaneamente la necessità «di rovesciare l’uso che il capitalismo fa del progresso tecnico» e la possibilità che «oggi una riduzione dell’orario di lavoro penso che gioverebbe anche ai capitalisti», dal momento che «la riduzione del tempo impegnato nel lavoro dipendente accrescerebbe il cosiddetto “tempo libero”, che oltre a migliorare le condizioni di vita darebbe spazio a nuovi consumi». La questione, posta in questo modo, è eccessivamente riduttiva e gravemente contraddittoria.
Non è scritto da nessuna parte che una riduzione del tempo nominale di ore di lavoro costituisca di per sé un miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori. La sola riduzione dell’orario di lavoro non interviene sull’intensificazione e sulla densificazione del lavoro, sulla disponibilità al lavoro 24 ore su 24 tutti i giorni della settimana, sulla organizzazione del lavoro sempre più portato al just in time, e via di questo passo. La riduzione dell’orario di lavoro già avviene per mano capitalista, senza che ciò, ovviamente, migliori le condizioni di vita dei lavoratori. La crescente diffusione di lavori part-time ne sono una rappresentazione evidente. In un supermercato, nelle grosse catene di distribuzione, spesso i commessi vengono costretti a ridurre l’orario nominale di lavoro e contemporaneamente devono essere disponibili a lavorare ogni giorno, compresa la domenica, la vigilia di Natale, il Primo maggio, ecc. In questo modo, altri lavoratori, magari “liberati” da un certo numero di ore di lavoro, ma altrettanto spesso sempre disponibili, possono dedicarsi, (come auspica Parlato), al consumo nei supermercati sempre aperti, riforniti continuamente da altri lavoratori precari che non hanno un orario di lavoro definito e quindi indefinibile sarebbe la riduzione dello stesso. Intanto, i capitalisti ci stanno guadagnando: dal maggior profitto estratto dal lavoro ridotto nell’orario, ma più sfruttato e dall’acquisto delle merci prodotte con un’organizzazione del lavoro che precarizza sempre più i rapporti di lavoro. Senza scordare, tra l’altro, che nella sfera della circolazione il capitalista realizza il valore ed il plusvalore estratti dallo sfruttamento del lavoro.
Ecco la contraddizione irrisolvibile, che Parlato sbrigativamente aggira. Una contraddizione che rende evidente l’irriducibile antagonismo tra capitale e lavoro, mentre Parlato sostiene che «anche i capitalisti dovrebbero aver capito che se il popolo sta meglio i loro affari miglioreranno». Tanto che, quando si chiede: «Ma vogliamo aspettare che siano i capitalisti a proporre la riduzione dell’orario di lavoro?», non si accorge che i capitalisti l’orario di lavoro lo stanno già riducendo ed è il modo capitalista per uscire dalla crisi e che da comunisti dovremmo chiamare distruzione della forza-lavoro.
Pertanto, il senso della riduzione dell’orario di lavoro, non può che essere anticapitalista e quindi non è possibile, come sostiene Parlato, che possano allo stesso tempo trovarne giovamento sia lavoratori che i capitalisti. Ma affinché la riduzione dell’orario di lavoro possa avere un carattere antagonista con il capitale, essa non può essere considerata isolatamente, ma deve essere parte di una proposta più ampia, che tenga conto della complessità dei rapporti di produzione e perciò dello sfruttamento della forza-lavoro.
Carmine Tomeo
31/8/2015 www.lacittafutura.it
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