Le strategie aziendali e le tattiche dei consumatori

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Da sempre inevitabilmente centrale nell’esperienza umana, il consumo ha attraversato drammatiche evoluzioni negli ultimi secoli, con la «rivoluzione dei consumi» che prende le mosse nel XVII secolo, le rivoluzioni industriali, l’affermazione di quella che l’economista americano J.K. Galbraith definì la «società opulenta». La sfera dei consumi si è espansa in modi e direzioni un tempo impensabili, creando nuovi bisogni e abitudini. Il consumatore, da figura terminale nell’era della produzione delle grandi fabbriche, diviene almeno nella retorica attuale più centrale – addirittura chiamato ad assumere una parte semi-attiva di «prosumer». Come ha scritto Niklas Olsen, lo stesso concetto di «cittadino» è stato rimpiazzato da quello di «consumatore». A questi cambiamenti guarda con sempre più attenzione una storiografia interessata a coglierne i diversi elementi – economici, sociali, culturali. Abbiamo fatto qualche domanda su questi temi a Emanuela Scarpellini, professoressa ordinaria di storia moderna all’Università di Milano, autrice tra l’altro de L’Italia dei consumi (Laterza 2008, e Oxford 2011), e curatrice con Stefano Cavazza di un recente volume degli Annali della Storia d’Italia Einaudi dedicato proprio a questo tema.

Come riassume brevemente nell’introduzione all’Annale, la storiografia dei consumi prende l’avvio in qualche modo dalla caduta di un pregiudizio «negativo e senza sfumature». La condanna dei consumi (generati da «manipolazione e illusione», che «costituivano una nuova forma di oppressione ben più sottile e pericolosa di quelle precedenti») trovarono eco in Italia in intellettuali come Pasolini. In che modo queste posizioni sono oggi superate? Come è possibile conciliare una postura critica verso le logiche consumistiche, e al contempo imparare dai consumatori e le loro storie?

Dal punto di vista della politica e degli intellettuali, la rivoluzione dei consumi fu all’inizio un fenomeno del tutto negativo, espressione del capitalismo monopolistico internazionale in grado di manipolare sottilmente i bisogni degli ignari cittadini. Questa posizione, sintetizzata dai teorici della scuola di Francoforte, intendeva contrapporsi al trionfalismo dei teorici del «sogno americano», con la loro promessa di benessere e felicità per tutti. In realtà, a partire dagli anni Sessanta, iniziarono i primi studi sul campo riguardo agli effetti pratici dei consumi, e la situazione in parte mutò. Fu soprattutto la Gran Bretagna attraversata dalle rivolte giovanili e da movimenti come i Mod, i Rockers e vari altri, a interrogarsi sul significato profondo dei consumi. I Cultural Studies, inaugurati da Raymond Williams e Richard Hoggart, cominciarono a rivalutare gli effetti dei consumi, studiando situazioni marginali: prima i proletari inglesi e poi i gruppi giovanili, osservando come questi fossero tutt’altro che «vittime» dei consumi ma li interpretassero invece attraverso le lenti della loro cultura e dei loro bisogni. In altre parole, per la prima volta i consumatori non furono visti come soggetti passivi facilmente manipolabili dalla politica o delle grandi multinazionali, ma come soggetti attivi, in grado di interpretare e piegare, a seconda delle proprie necessità, varie forme di consumo, utilizzando anche queste pratiche per creare una loro specifica identità. Studiosi come Michel De Certeau analizzarono nel concreto questi fenomeni, suggerendo che alle grandi «strategie», pensate dalle istituzioni per ordinare e controllare la vita sociale, i consumatori oppongano proprie «tattiche» come forma di resistenza o anche di creatività sociale nell’ambito della vita quotidiana. La lezione che viene da questi studi è che i consumi, nella loro centralità nella società odierna, non debbano essere considerati pregiudizialmente né come aspetti negativi né come aspetti positivi, ma devono essere valutati nel contesto e nel significato che assumono di volta in volta, considerata la loro flessibilità e adattabilità.

L’Italia, per il suo relativo ritardo rispetto a economie come quelle nord-europee e anglosassoni, in parte accentuato dalle ristrettezze imposte dall’autarchia fascista, visse forse in modo più accelerato l’arrivo e il trionfo della cosiddetta società dei consumi. Sorprende come, per molti versi, un Paese che, nel campo della produzione, vedeva un’espansione dello Stato, abbia contemporaneamente consumato sempre più in modo «americano». In che modo i consumi aiutano a capire l’evoluzione della società italiana dal secondo dopoguerra? Si può identificare una tipicità italiana?

L’Italia arrivò alla rivoluzione dei consumi in maniera tardiva e accelerata rispetto ai principali paesi europei. Non dimentichiamo che paesi come Gran Bretagna, Germania e Francia avevano goduto di un elevato standard di vita già tra le due guerre mondiali, al contrario dell’Italia. Ancora nel 1950 Italia era l’ultima delle grandi nazioni europee, con appena 3.500 dollari di reddito pro capite, confrontati ai 6.900 della Gran Bretagna e ai 5.200 della Francia.

Il miracolo economico iniziato nel 1958 cambiò rapidamente le cose e nel giro di 15-20 anni portò l’Italia a ridosso della media europea sia come reddito sia come consumi. In realtà nella politica italiana la crescita del reddito e della prosperità economica, legate alla crescente industrializzazione e alle performance del «triangolo industriale», non furono letti come un ingresso nella società dei consumi. Anzi, da più parti si ritenne che questa nuova ricchezza dovesse essere risparmiata, come suggerivano ad esempio i retaggi dell’austera cultura cattolica, o quantomeno investita in imprese e opere pubbliche a vantaggio della collettività. Si assistette quindi a una spinta politica di contenimento del consumo individuale, condivisa da molte correnti politiche, dai cattolici ai comunisti, passando attraverso repubblicani come Ugo La Malfa (contrario ad esempio all’adozione della televisione a colori perché simbolo di consumismo sfrenato).

Dal punto di vista pratico, tuttavia le cose andarono diversamente. Lo sviluppo stesso dell’economia italiana fu trainato, oltre che dalle esportazioni, dalla crescita dei consumi interni, che per la prima volta non furono legati ai soli beni di prima necessità (soprattutto cibo, ma anche casa e abbigliamento), e si poterono allargare ai primi mezzi di mobilità spaziale (motocicli e automobili), ai divertimenti, agli acquisti di mobili ed elettrodomestici. In effetti, si potrebbe dire che solo in questa fase storica gli italiani abbiano scoperto molti consumi che oggi consideriamo tipici, a cominciare da quella famosa «dieta mediterranea», teorizzata a metà anni Settanta dal dietologo americano Ancel Key, che in realtà era stata fino ad allora appannaggio di una ristretta élite. E c’è chi ritiene che un certo deficit di democraticità nella società italiana, inteso come controllo ristretto delle leve di potere politico ed economico, sia stato controbilanciato da una democratizzazione economica e dalla diffusa estensione di un modello di vita migliore grazie ai consumi individuali. La politica così scoprì che il tenore di vita era decisivo per acquisire il consenso nelle società moderne.

Ancora uno scrittore come Italo Calvino poteva vedere con «soddisfazione» il gesto di «mettere fuori l’immondizia»: in un’epoca in cui, anche per i benestanti, il benessere moderno era ancora una cosa nuova, il «congedo delle spoglie» era il momento in cui celebrare «l’appropriazione avvenuta e irreversibile» – il consumo per l’appunto. In pochi decenni, la crisi ambientale ha ribaltato la prospettiva. In che modo è cambiato l’approccio, degli italiani in particolare, al consumo? E, pensando a quanto spesso la questione venga ridotta ai corretti comportamenti individuali, quanto anche questi cambiamenti sono stati una reazione a iniziative da parte di agenti statali, movimenti sociali e altre organizzazioni?

Uno scrittore visionario come Italo Calvino aveva saputo cogliere per tempo gli sviluppi del consumo. Se da una parte osservava come la produzione di spazzatura, vista come ultimo momento del consumo, segnasse simbolicamente la nuova opulenza raggiunta, negli stessi anni segnalava già le possibili conseguenze sull’ambiente. Nel suo libro Le città invisibili del 1972, dedica un capitolo a Leonia, modernissima città consumistica che vive in un’atmosfera di perfetta igiene e di prodotti tecnologici continuamente rinnovati, ma così crea alla sua periferia, al di fuori dello sguardo dei cittadini, immense montagne di rifiuti, quasi un nuovo desolato paesaggio che confina con le cataste di scarti create a loro volta dalle città vicine.

Le montagne di rifiuti a cui Calvino si riferisce erano dovute anche alla crescente diversificazione dei budget familiari per i consumi che si è verificata via via nel tempo, con un conseguente aumento del numero e della tipologia di prodotti utilizzati. Questo processo ha risentito di motivazioni economiche legate ai costi di produzione (che in alcuni casi hanno reso beni di lusso come le automobili alla portata di tutti), come pure di nuovi valori sociali, legati alle forme correnti di status, allo sviluppo della tecnica e alle mode culturali. Così il consumo di energia, ma anche quello di prodotti tecnologici e per la mobilità, sono fortemente cresciuti nel tempo.

Riguardo alle conseguenze di quello che apparve a molti come un iperconsumismo, già dagli anni Settanta i primi movimenti ambientalisti avevano attirato l’attenzione dell’opinione pubblica sulle ricadute in termini inquinamento e sfruttamento pervasivo del pianeta. Va detto che in Italia la politica e l’azione legislativa hanno storicamente riservato scarsa attenzione all’aspetto dell’inquinamento, così come a quello in parte collegato della protezione del consumatore. La priorità è sempre stata quella di favorire la produzione industriale per promuovere lo sviluppo, quasi a ogni costo. Il risultato è che il paese è rimasto in retroguardia sui temi dell’ambiente fino a tempi molto recenti, e varie norme sono state recepite soprattutto per due differenti stimoli. Il primo è stato quello delle scelte di acquisto dirette dei consumatori, si trattasse di conseguenze di campagne di stampa che denunciavano scandali legati a forme di inquinamento o sfruttamento di cose e animali, oppure di mobilitazioni spontanee. Va però aggiunto per inciso che i movimenti dei consumatori non hanno mai conosciuto nel paese un grande sviluppo, al contrario di quanto è avvenuto altrove, a causa dell’invadenza dei partiti politici che hanno cercato di assumere al loro interno ogni istanza rappresentativa (i famosi catch-all parties teorizzati da Otto Kirchheimer).

Il secondo stimolo al cambiamento delle regole è venuto dalle normative dell’Unione europea, sotto la spinta soprattutto dai paesi del nord Europa molto attenti alle questioni ecologiche e ambientaliste, che hanno obbligato l’Italia ad assumere comportamenti più sostenibili.

Resta il fatto che, anche riguardo all’impatto dei consumi, il cambiamento potrà avvenire solo con una reale sinergia tra le grandi agenzie decisionali a livello sovranazionale e i comportamenti individuali.

Il cibo, che per tanti versi rappresenta una componente ineludibile di qualsiasi tentativo di definire un’«identità italiana», è forse più di altri un consumo legato a doppio filo a temi come la sostenibilità. La nuova sensibilità ambientalista sta cambiando l’approccio degli italiani a questi consumi, e in che modo? Nuove tendenze possono veramente cambiare, e in meglio, le filiere produttive di un pezzo comunque importante dell’economia italiana?

Si dice giustamente che il cibo sia una parte importante dell’identità italiana, come pure dei consumi. È quindi naturale che le nuove spinte ecologiste e ambientaliste abbiano influenzato profondamente questo ambito – peraltro spesso colpito da gravi scandali produttivi (basti pensare alla mucca pazza, ai prodotti con metanolo, alle mozzarelle blu, alla frequente comparsa di escherichia coli ecc.). La prima reazione dei consumatori, alla ricerca di un cibo italiano e sicuro, è stata la valorizzazione dei marchi di origine di produzione, come Docg e Igp, considerati una garanzia per la qualità del prodotto e per la sua provenienza. Un secondo comportamento osservabile negli ultimi tempi è la diversificazione del luogo di acquisto. A fianco dei tradizionali negozi alimentari e dei supermercati, si moltiplicano luoghi alternativi come i mercati degli agricoltori, i negozi con prodotti del commercio equo e solidale, come pure iniziative di acquisto collettivo come i Gas (gruppi di acquisto solidali). In questo modo il consumatore aumenta la sua capacità di controllo sulla filiera e nel contempo ottiene spesso sconti rispetto al prezzo standard di vendita, considerato che tuttora la filiera alimentare completa prevede numerosi passaggi, anche fino a otto o nove, dal momento della produzione fino a quello del consumo. E si va diffondendo anche un acquisto mirato presso piccoli produttori tramite i canali online, magari a seguito dei viaggi sempre più comuni lungo gli itinerari del turismo enogastronomico.

Quanto alle filiere produttive, si è già visto come una nuova domanda da parte dei consumatori abbia fatto crescere l’offerta di prodotti biologici anche all’interno di luoghi di consumo tradizionali, come supermercati e ristoranti, a dimostrazione dell’impatto delle scelte dei consumatori.

In un articolo per la Fondazione Feltrinelli ha analizzato come i consumi hanno riflesso le politiche thatcheriane, mostrando anche nel generale incremento un allargarsi dei divari, e nel contempo la scomparsa o la diluizione di una autonoma «identità operaia». Quali fenomeni possiamo osservare dall’analisi dei consumi delle famiglie italiane, nella lunga stagnazione iniziata negli anni Novanta e nella crisi dell’ultimo decennio? In particolare, come ci aiutano a indagare le storie – da quelle delle donne, a quelle delle comunità migranti – tenute nascoste dalla retorica di una nazione compatta e omogenea?

La crisi ha portato allo scoperto alcune dinamiche sociali e culturali già evidenti a partire dalla globalizzazione degli anni Novanta. E cioè che era definitivamente terminata la fase di avvicinamento dei redditi e dei consumi tra le diverse classi sociali, iniziata in Italia nel secondo dopoguerra e che aveva fatto sognare uno standard di vita progressivamente migliore per tutti. Dalla recessione dei primi anni ’90 si assistette a una inversione della curva che indica le disuguaglianze (basata su indici come quello di Gini): se prima erano in diminuzione, da allora ripresero a salire e a determinare crescenti diversità di vita tra gli strati sociali. Se aggiungiamo a questo fenomeno, comune a molti paesi occidentali, il fatto che in Italia le disuguaglianze sono storicamente marcate, si comprende come la nuova crisi del 2008 abbia peggiorato un quadro già difficile.

I consumi lo mostrano con chiarezza. Le spese «obbligate» si sono allargate rispetto a un secolo fa: ora non comprendono più solo cibo, casa e vestiario ma riguardano anche spese sulla mobilità e le comunicazioni, elementi necessari nella vita urbana moderna, e quindi assorbono risorse a scapito di voci come quelle della cultura e dell’educazione. Il reddito e i consumi di lusso si concentrano nelle fasce sociali superiori, con un vero picco nei percentili più elevati, mentre perdono colpi le classi medie e quelle popolari, segnate dal ristagno economico, da un lavoro precario o anche stabile ma povero, dalla caduta di forme di mobilità sociale. Con riferimento al 2017, l’Istat stima che il decimo delle famiglie più ricche abbia aumentato i propri consumi del 13 per cento dal 2013; nello stesso periodo, il decimo delle famiglie più povere ha perso il 2 per cento.

Nel complesso, sempre per il 2017, l’Istat segnala per l’Italia un consumo familiare medio pari a 2.564 euro, ancora al di sotto del livello registrato nel 2011, solo in lieve rialzo rispetto all’anno precedente (ma è un rialzo nominale, dovuto all’inflazione, in termini reali c’è stata una discesa). Queste medie nascondono poi molte differenze. Alcune sono storiche, come quelle legate al dualismo geografico nord/sud, con un divario massimo tra le aree del nord-ovest (2.875 euro di spesa per consumi in ogni famiglia) e le Isole (1.983 euro), con una differenza quindi di ben il 45 per cento e un conseguente ripiegamento dei consumi nelle aree più povere su quelli obbligati. Altra differenza importante è tra le fasce sociali marcate dai differenti mestieri, con famiglie di imprenditori e professionisti a 4.030 euro di spesa media mensili, dirigenti e impiegati a 3.278, lavoratori autonomi a 2.992 e infine operai a 2.347.

La situazione peggiore è legata alle nuove forme di povertà, non sempre registrate adeguatamente nelle statistiche ufficiali, come pure alla situazione degli immigrati. Le famiglie composte da stranieri, ad esempio, spendono al mese 1.679 euro, con un forte divario quindi con quelle italiane; le loro spese si concentrano su cibo, abitazione, elettricità, gas e combustibili – anche se è forte la presenza dei beni di comunicazione, a dimostrazione di uno stile di vita globalizzato.

Il quadro che emerge dai consumi è molto chiaro: mostrano un’estrema stratificazione, dove le classi medie e popolari sono scivolate verso il basso come qualità della vita, e i ricchi, e meglio ancora i super-ricchi, hanno guadagnato moltissimo. In molti casi non si può parlare di povertà come era intesa nel secolo scorso, ma di «povertà relativa», che incide sulla capacità di integrazione sociale. Inoltre le situazioni più marginali, come quelle di immigrati, disoccupati e altri, sono presenti solo in parte in queste fotografie di un relativo benessere. Ancor più che se vista dalla parte della produzione e del reddito disponibile, l’Italia vista dall’angolazione dei consumi è un paese dotato di grandi potenzialità e capacità creative, ma zavorrato da squilibri vecchi e nuovi.

Emanuela Scarpellini

Giacomo Gabbuti

*Emanuela Scarpellini è professoressa ordinaria di storia moderna all’Università di Milano. Tra le sue pubblicazioni recenti, Storia della moda in Italia dal 1945 a oggi (2017), L’Italia dei consumi. Dalla Belle Époque al nuovo millennio (2008, 2018 quinta edizione rivista), entrambi editi da Laterza, e Storia d’Italia. Annali 27. I consumi, curato con S. Cavazza (Einaudi, 2018). Giacomo Gabbuti è dottorando di storia economica all’Università di Oxford. 

5/11/2019 jacobinitalia.it

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