L’eccezione conferma la corruzione
Ogni società ha, per così dire, la corruzione che si merita. Oggi, in un mondo sempre più globale, la corruzione sembra proliferare in una varietà di comportamenti illeciti e trasgressioni. Ubiqua e multiforme, sembra essere dappertutto: nelle lobby dei poteri forti, nelle organizzazioni economiche mafiose e della criminalità organizzata, nelle transazioni economiche degli appalti pubblici e nella vita quotidiana. La presenza a ogni livello politico, sociale ed economico può essere spiegata come conseguenza della progressiva centralità dell’informalità dell’economia, accelerata dalla crisi globale scoppiata nel 2008 a cui sono seguiti aggiustamenti alle economie nazionali, privatizzazioni delle imprese pubbliche, il rafforzamento della proprietà privata e la progressiva deregolamentazione del lavoro. Uno dei tratti del nostro tempo, infatti, è la condizione di crescente informalità del mercato del lavoro precario e dell’economia in generale che sta caratterizzando le società occidentali.
In questo scenario, i mercati, piuttosto che essere turbati, sembrano nutrirsi di corruzione e il capitalismo finanziario appare fortemente impregnato di corruzione da quando i rapporti sociali sono segnati dalla rendita alla base di nuove concentrazioni di ricchezza.
Eppure, paradossalmente, la corruzione è il fenomeno contro il quale oggi tutti pretendono di lottare. Difficilmente troverete qualcuno che sostenga di essere a favore della corruzione, men che meno i corrotti. Questa battaglia mette sullo stesso piano posizioni apparentemente antitetiche e lontane, tiene insieme il discorso del populista e quello del tecnocrate. Se per i primi la condizione di povertà e di crisi di molti paesi è dovuta alla corruzione delle classi dirigenti – piuttosto che ai dispositivi economici del neoliberismo –, per i secondi l’infrazione delle regole è un fatto ancora più grave perché praticata da coloro che dovrebbero tutelare e proteggere le norme. Ma ciò che trova tutti d’accordo deve metterci in allerta e questa trasversalità dovrebbe essere interrogata e non accettata in maniera acritica.
L’indagine sulla corruzione “pulviscolare” che vede oggi indagate 24 persone tra cui l’imprenditore Parnasi, l’avvocato Lanzalone e gli esponenti politici coinvolti nella costruzione del nuovo stadio della Roma parla di furbetti e piccoli opportunisti, di illeciti che deviano l’attività delle istituzioni dai propri scopi ufficiali al fine di soddisfare interessi particolari non consentiti. L’uso reazionario di questo discorso contrappone alla corruzione la purezza all’interno di una narrazione tutta ideologica, slegata da ogni contesto materiale, di critica della forma di governo e delle cose esistenti. È questa la retorica dei Cinque Stelle, nutrita da una sorta di giustizialismo post-democratico che afferma la strana equiparazione tra democrazia e legalità. Questa posizione, che fonda la democrazia nella legalità e rende di fatto impossibile pensare a procedure democratiche che non siano puramente ed esclusivamente formali, dimentica come, in realtà, sia proprio la democrazia ciò che dovrebbe esaminare la legalità e giudicarne la revocabilità.
È in questo vuoto di possibile che sui giornali, a partire dal caso dello stadio della Roma, si descrive la corruzione come una sorta di disfunzione, corpo alieno da rimuovere attraverso la cura della Magistratura per ridare salute al corpo sociale.
Ma la corruzione, in realtà, non riguarda alcuna deviazione dal corretto uso del potere, poiché è una delle modalità principi del suo esercizio come ci ricorda Montesquieu con sua nota formula: «il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente». Il potere corrompe sia chi lo esercita sia chi lo subisce in una relazione gerarchica che divide attraverso l’arbitrio e il ricatto.
Facendo buon uso di quanto Machiavelli ci ha insegnato nel dare conto della crisi della repubblica fiorentina del suo tempo sulla soglia di una nuova modernità fondata dall’individualismo proprietario e dalla nascita di una situazione mercantile/capitalistica, potremmo affermare che la corruzione, piuttosto che una malattia passeggera, rivela oggi la crisi dell’ordine politico rappresentativo. Senza insegnarci misure specifiche, l’approccio disincantato di Machiavelli è inaspettatamente adeguato al contemporaneo nesso fra diseguaglianza socio-economica crescente e corruzione strutturale delle istituzioni sociali, politiche economiche moderne. La corruzione dev’essere infatti intesa in senso densamente politico: in altre parole vi è corruzione quando le forme della politica non corrispondono più al vivere civile, quando le istituzioni non sono più adeguate alle effettive dinamiche sociali.
Assumendo questo punto di vista, possiamo definire la corruzione come quell’elemento che precede e presuppone, determinandola, ogni possibilità degli ordini sociali, delle leggi e delle forme di governo. È ciò che descrive la degenerazione di un corpo, individuale o collettivo, secondo la lezione aristotelica del De generatione et corruptione metaforizzato con il ciclo statuale, e quella lucreziana della perpetua aggregazione e disgregazione degli atomi del De rerum natura. Non c’è mai corruzione da un inizio puro: qualsiasi sezione operata nel corso storico fotografa in qualche punto una transizione, positiva o negativa che sia.
Possiamo aggiungere che, nella misura in cui dà una mano al sorgere e consolidarsi di un nuovo ordine e regime, la corruzione prepara il suo proprio declino. L’uscita dalla corruzione è sempre una scommessa, non è qualcosa di garantito, e se nel periodo di interregno tende a generalizzarsi questo è il segno della difficoltà di un effettivo processo di cambiamento sociale.
Non si combatte la corruzione mediante processi di rifondazione e il reengineering istituzionale che, nel cercare di mettere in scacco un sistema di poteri o istituzioni corrotte, finisce in realtà con il rafforzarlo e stabilizzarlo. La lotta alla corruzione nel neoliberalismo, in un modo più o meno paradossale, sembra rafforzare i suoi elementi più intimi e il funzionamento del sistema nel suo insieme. Questo perché non c’è alcuna lotta contro la corruzione che non sia anche lotta contro ciò che è costituito: non si tratta di ricondurre una situazione a principi più o meno nobili a cui si richiama, di riportarlo a un processo iniziale che è supposto funzioni bene, ma di passarlo al vaglio della critica e assumerne come oggetto di trasformazione questi stessi principi. Non si tratta di difendere la norma dello status quo contro l’eccezione, ma di andare alle spalle di queste norme, della loro legalità e legittimità, esaminarle criticamente e trasformarle.
Paolo Do
27/6/2018 www.dinamopress.it
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