“L’economia delle piattaforme” si regge solo con salari da fame
Le parole di Gianluca Cocco, l’amministratore delegato di Foodora Italia, chiariscono meglio di un ponderoso saggio economico dove stia il segreto del successo dell’”economia delle piattaforme”:lavoro pagato poco, nessun diritto, nessuna responsabilità aziendale.
«Se fossero vere le anticipazioni del decreto dignità che il ministro Di Maio ha fornito alle delegazioni di rider incontrate, dovrei concludere che il nuovo governo ha un solo obiettivo: fare in modo che le piattaforme digitali lascino l’Italia. Quella che filtra è una demonizzazione della tecnologia che ha dell’incredibile, quasi medievale e in contraddizione con lo spirito modernista del Movimento 5 Stelle».
Per essere ancora più esplicito: «Il decreto ingessa la flessibilità, parte dal riconoscimento dell’attività dei rider come lavoro subordinato. Così gli operatori saranno costretti ad assumere tutti i collaboratori, chiuderanno i battenti e trionferà il sommerso. Secondo una ricerca condotta in collaborazione con l’Inps solo il 10% dei rider lo considera un lavoro stabile. Il 50% sono studenti, il 25% lo esercita come secondo lavoro e un altro 10% lo considera un’attività di transizione. La durata media è 4 mesi, non di più».
Sorvoliamo sul dato psicologico (“i riders lo considerano un’attività di transizione”), perché un lavoro va valutato oggettivamente: faccio questo, in queste condizioni, e mi paghi tot. Soffermiamoci invece sui dai strutturali. E’ un’attività che non dà ai “collaboratori” di che vivere, richiede freschezza fisica e abilità nel traffico urbano, si fa nell’orario di pranzo e cena (“spezzato”, si dice normalmente), quindi non ci si può costruire una prospettiva di vita.
Per mr. Cocco il problema non è la forma contrattuale o il sistema di calcolo della paga (attualmente è il cottimo, ricompensa a consegna effettuata): «Non abbiamo problemi a sostituire il pagamento a consegna, con altre forme come il minimo garantito, la paga oraria oppure sistemi misti con base oraria più parte variabile. Oggi un nostro fattorino guadagna 5 euro per ciascuna consegna e in un’ora ne può fare anche tre. In busta paga gli entrano 3,60 euro, il resto è contribuzione Inps e Inail. Se ne può discutere rispettando però la sostenibilità del conto economico delle nostre aziende».
Il problema sono i margini di profitto, come sempre. Se possono continuare a pagare pochissimo, allora va bene tutto; ma se si contrattualizzano i fattorini allora ci si deve sobbarcare una serie di costi aggiuntivi che potrebbbero esser coperto solo con l’aumento del prezzo finale al cliente. Il che, ovviamente, ridurrebbe di molto l’attrattività di quello che è e resta un “servizio”, non un’attività produttiva (il cibo lo confezione qualcun altro, Foodora lo consegna e basta).
Possiamo dunque tirare agevolmente le somme. Questo ramo della “economia delle piattaforme” può funzionare solo se il lavoro umano fisico viene pagato quasi nulla. Non è possibile delocalizzarlo, perché è un servizio. Si può fare ovunque, in qualsiasi paese con metropoli abbastanza grandi, dove le persone non hanno il tempo di rientrare a casa per mangiare. Esiste persino in India, con prezzi “competitivi” per quell’economia. Ma se si vogliono introdurre diritti e salari “veri”, salta tutto. E’ un’attività economica interstiziale, fondata su un bisogno reale ma risolvibile in cento modi (gli operai Fiat degli anni Sessanta, che non avevano la mensa, si portavano la “schiscetta” – un contenitore – da casa). Dal punto di vista dell’”imprenditore”, o il prezzo imposto è marginale, oppure scompare.
Non è modernità (se non dal lato della tecnologia utile a risparmiare su impiegati e telefonisti), ma medioevo tecnologizzato.
Claudio Conti
18/6/2018 http://contropiano.org/
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