Legge di stabilità 2016: un inno al neoliberismo
1. IL RAPPORTO CON I VINCOLI EUROPEI: L’AUSTERITÀ “FLESSIBILE” E IL NEOLIBERISMO
La comunicazione pubblica del governo è tutta centrata alla descrizione di una manovra che finalmente dà e non toglie. Una manovra espansiva con cui si cerca di accreditare anche l’immagine di un premier che mette in discussione le politiche europee.
Non è così. Come viene riaffermato in ogni documento, il governo si muove “nel pieno rispetto delle regole di bilancio adottate dall’Unione Europea”. Nessuna vertenza viene aperta per modificare il quadro delle politiche di austerità, i vincoli su deficit e debito del Fiscal Compact.
Il governo sfrutta invece, concentrandoli nel 2016, i margini di manovra concessi dalla cosiddetta “austerità flessibile”, cioè dalla possibilità di spostare nel tempo il raggiungimento degli obiettivi fissati dalla UE. Deve essere evidenziato come la flessibilizzazione dell’austerità, cioè delle politiche restrittive sia vincolata ad un di più di neoliberismo, perché ad essa si può accedere solo nella misura in cui si fanno le cosiddette “riforme strutturali”. E’ in nome del Jobs Act, della controriforma costituzionale, del taglio della Pubblica Amministrazione e delle privatizzazioni, in sostanza, che la legge di stabilità del 2016 beneficia della “flessibiità” che consente di disinnescare per il 2016 la clausola di salvaguardia. Le clausole di salvaguardia restano per il 2017 e 2018 rispettivamente per 15,1 e 19,6 miliardi di euro, con l’aumento dell’Iva che viene soltanto posticipato, così come è soltanto posticipato, dal 2017 al 2018, il raggiungimento del pareggio di bilancio strutturale.
Nel frattempo le risorse liberate per il 2016 finiscono in larga parte nel taglio rilevantissimo di tasse sulle imprese come nell’eliminazione delle Tasi, e per citare le Corte dei Conti, dato “il carattere temporaneo di alcune coperture e il permanere di clausole di salvaguardia rinviate al futuro”, questo comporterà per il “loro riassorbimento nel 2017 e nel 2018… l’ individuazione di consistenti tagli di bilancio o aumenti di entrate”.
Il governo in sostanza sfrutta la flessibilità nel 2016 approvando provvedimenti che hanno effetti permanenti ma con coperture temporanee, preparando in tal modo tagli supplementari, già chiarissimamente indirizzati nell’ulteriore attacco a tutto ciò che è servizio o patrimonio pubblico.
La manovra non è comunque tecnicamente una manovra espansiva. L’indebitamento netto passa dal 2,6% del 2015 al 2,4% del 2016 (“clausola migranti” compresa), cioè diminuisce. Il saldo primario passa dall’1,7 del 2015 al 2% del 2016, con la previsione di crescere costantemente per arrivare al 4,3% nel 2019 cioè con la previsione di reperire risorse per ulteriori quaranta miliardi attraverso tagli o aumenti di entrate ed arrivare ad un avanzo di 80 miliardi. Un obiettivo folle e insostenibile, che dovrebbe coesistere con una crescita dell’1,6% del Pil nel 2017 -18 e dell’1,3% nel 2019!
La crescita del Pil, determinata da diverse variabili esterne (come la svalutazione dell’euro sul dollaro a seguito del quantitative easing e la diminuzione strutturale del prezzo del petrolio) viene come sempre sovrastimata per far quadrare i conti. Nè il governo tiene alcun conto della consapevolezza crescente, nel dibattito sulle politiche economiche, per cui tagli delle tasse hanno effetti espansivi inferiori agli effetti depressivi del taglio della spesa pubblica.
Dal punto di vista politico è invece evidente come concentrare la “flessibilità” nel 2016 assolva per Renzi ad una funzione di primaria importanza: rafforzarsi nel passaggio delle elezioni amministrative di primavera, assai rilevanti per numero di elettori e realtà interessate, rimontando la crisi di consensi degli ultimi passaggi elettorali.
2. I SOLDI CI SONO: PER LE IMPRESE, I CETI ABBIENTI, LE SPESE MILITARI.
IRES, decontribuzione, super-ammortamento…
Vale 2,6 miliardi per il 2016 e 4 miliardi a regime nel 2017 il taglio dell’IRES, cioè della tassa sui profitti. La sua applicazione nel 2016 è subordinata all’approvazione in sede europea della cosiddetta “clausola migranti”, quella per cui in nome dei costi dell’accoglienza per “l’emergenza migranti” si tagliano per l’appunto le tasse all’imprese! Ma nel 2017 il taglio dell’Ires ci sarà comunque e le risorse saranno reperite “da tagli alla parte corrente delle spese della Pubblica Amministrazione”, come recita la relazione tecnica.
580 milioni sono destinati al superammortamento al 140% per gli investimenti attuati entro il 2016, che diventano 1 miliardo negli anni dal 2017 al 2021.
831 milioni sono destinati alla reiterazione, ridotta al 40%, degli sgravi contributivi per le assunzioni o le trasformazioni di contratti preesistenti nel “contratto a tutele crescenti”, che diventano 2,1 miliardi per il 2017.
Solo per queste misure si va dai 4 miliardi aggiuntivi nel 2016 agli oltre 7 miliardi nel 2017. Ma accanto alle voci principali ci sono una miriade di altri micro provvedimenti che o stanziano direttamente risorse per le imprese o come nel caso della detassazione dei premi di produttività (quasi 600 milioni a regime) e del sostegno al cosiddetto welfare aziendale, mirano tanto a promuovere la sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con quella aziendale e territoriale, quanto all’aziendalizzazione delle prestazioni sociali mentre si smantella il welfare pubblico e universalistico.
Si deve inoltre avere presente che la scorsa legge di stabilità (come anche le leggi di stabilità dei governi Letta e Monti) aveva già significativamente ridotto il prelievo fiscale sulle imprese con i 5 miliardi di riduzione dell’IRAP per il 2015 (4,3 a regime dal 2016) ed ulteriori 4 miliardi nel triennio 2015-2017attraverso una serie di provvedimenti minori.
Mentre per la decontribuzione decisa sempre dalla scorsa legge di stabilità, estrapolando dai dati forniti dalla relazione tecnica, le risorse pubbliche utilizzate ammontano a 2,5 miliardi per il 2015 e 6,3 miliardi per il 2016 (4,6 se si considerano le stime su quanto dovrebbe rientrare per le tasse sulla nuova occupazione che tuttavia valgono solo per l’occupazione aggiuntiva) . Risorse molto ingenti che sono servite e serviranno per promuovere il contratto “a tutele crescenti”, cioè nella maggior parte dei casi per finanziare la trasformazione di vecchi contratti a termine, in nuovi contratti a termine, dato che il Jobs Act ha sancito la possibilità di licenziare arbitrariamente sempre e comunque.
Dunque sono tanti i soldi per le imprese, dati “a pioggia” cioè senza finalizzazione alcuna: dagli oltre 8 miliardi (tra Irap, decontribuzione e altre misure) del 2015, ai circa 15 miliardi per il 2016, complessivi degli interventi della legge di stabilità dello scorso anno e di quella attuale.
E’ invece totalmente assente qualsiasi strategia di politica industriale, e si prevede addirittura una contrazione degli investimenti pubblici. Questo a fronte di una riduzione complessiva degli investimenti nel periodo 2008-2014 del 30%.
Dal punto di vista dell’occupazione, va sottolineato, come le continue dichiarazioni del governo, sugli effetti benefici delle proprie politiche nella creazione di lavoro, vadano demistificate per quella che sono: un’operazione di propaganda.
L’Italia vede una crescita dell’occupazione inferiore rispetto al resto d’Europa. Con le risorse ingentissime mobilitate con la legge di stabilità 2015 nel mentre che si faceva tabula rasa dei diritti per in neo assunti, l’occupazione aggiuntiva “permanente” a settembre 2015 rispetto a settembre 2014 è di sole 113.000 unità, mentre sono 192.000 gli occupati complessivi in più (dati Istat): davvero poca cosa considerando l’esplosione di forme iper-precarizzanti come i voucher.
Restano oltre i 3 milioni i disoccupati ufficiali, mentre sono il doppio quelli effettivi, considerando cioè coloro che non ricercano attivamente lavoro perché scoraggiati, ma che sarebbero disponibili a lavorare se un lavoro ci fosse. Il governo peraltro non ritiene un problema che nei propri stessi documenti il tasso di disoccupazione sia anche nel 2019 sopra il 10% con la disoccupazione giovanile intorno al 40%.
TASI-IMU
Accanto a questi provvedimenti l’altro piatto forte come è noto è l’eliminazione della TASI-IMU per l’abitazione principale (3,7 miliardi). 530 milioni sono destinati alla riduzione dell’IMU sugli “imbullonati”, 405 milioni per l’IMU agricola.
L’eliminazione generalizzata dell’imposta sull’abitazione principale, va a vantaggio dei più ricchi con 1,4 miliardi regalati a chi possiede abitazioni di pregio maggior, che pur essendo solo il 10% del totale concorrevano per il 37%al gettito complessivo. Questi proprietari godranno di uno sgravio in proporzione maggiore di chi ha una casa più modesta, mentre persino chi ha ville e castelli (su cui alla fine la Tasi resta perché il governo ha fatto retromarcia per puri motivi di immagine), in virtù della diminuzione dell’aliquota massima godrà di uno sconto medio di 1.000 euro.
Il taglio indiscriminato della Tasi mette inoltre i Comuni nella condizione di dipendere dai finanziamenti centrali, e non è davvero esercizio di fantasia prevedere che quelle risorse saranno oggetto di contrattazioni continue e di ulteriori riduzione.
LE SPESE MILITARI
I soldi ci sono anche per le spese militari. Nonostante la risoluzione approvata dal Parlamento nel settembre 2014 che poneva l’obiettivo di dimezzare lo stanziamento per gli F35, la legge di stabilità conferma i 13 miliardi per il programma pluriennale di acquisto dei 90 cacciabombardierida attacco in grado di trasportare ordigni nucleari. Sono incrementati i fondi Mise per Fremm, Vbm, Eurofighter. Non viene mantenuto l’impegno ad aumentare le risorse per il servizio civile.
I tagli che investono pesantemente ogni funzione pubblica, lasciano indenne il comparto militare.
3. I SOLDI NON CI SONO: COME TAGLIARE TUTTO CIÒ CHE È PUBBLICO
A fronte delle cospicue risorse destinate a imprese e ricchi, spesa militare, stanno nuovi pesantissimi tagli a tutto ciò che è funzione pubblica: dalla sanità, alle regioni, a ministeri e società pubbliche, al pubblico impiego, che vede una mancia scandalosa invece del rinnovo del contratto, e un nuovo blocco del turn over. Complessivamente le “minori spese” ammontano a 8,4 miliardi nel 2016, 8,6 miliardi nel 2017 e 10,6 nel 2018. E’ evidente la volontà di distruggere la funzione pubblica ed insieme i diritti sociali.
I tagli alla sanità.
Il finanziamento per il Servizio Sanitario Nazionale viene rideterminato in 111 miliardi, ivi compresi gli 800 milioni finalizzati all’aggiornamento dei LEA (Livelli essenziali di assistenza).
Il Patto per la salute siglato da governo e regioni poco più di un anno fa (luglio 2014) prevedeva in 115,4 miliardi il finanziamento per il 2016. Il decreto legge 78/2015 aveva già ridotto il finanziamento di 2,352 miliardi portandolo a 113,097. Ora la riduzione ulteriore è di 2,097 miliardi. In sostanza in poco più di un anno i finanziamenti previsti a luglio 2014 sono stati tagliati di 6,7 miliardi. In questo modo la spesa pubblica per la sanità si collocherà al 6,6% del Pil, cioè ad uno dei livelli più bassi in assoluto in Europa.
Va ricordato che, anche prima degli ultimi tagli, quando la spesa pubblica per la sanità era al 7% del Pil, questo livello era inferiore di 1,7 punti di Pil e di 632 euro in termini di spesa pro-capite (1793 euro contro 2425) rispetto alla media dell’Unione Europea a 15. Dopo di noi ci sono solo Spagna, Grecia e Portogalllo (Rapporto sullo Stato Sociale 2015).
Gli ulteriori tagli alla sanità, in un paese in cui, come conferma l’ultimo rapporto del Censis, in quasi la metà dei nuclei familiari, almeno una persona in un anno ha dovuto fare a meno di una prestazione medica per l’insostenibilità delle liste d’attesa o/e per l’onerosità dei ticket, rende evidente la volontà di distruggere la sanità pubblica ed universalistica e di spingere progressivamente verso modelli assicurativi. Una regressione sociale gravissima ed inaccettabile.
I tagli a regioni, ministeri, società pubbliche.
Il quadro diventa più grave se ai tagli al finanziamento del servizio sanitario nazionale si sommano quelli alle regioni, che hanno nella sanità, la voce di intervento e di spesa di gran lunga prevalente.
La Legge di stabilità prevede tagli alle regioni per 3,98 miliardi di euro nel 2017, 5,48 miliardi nel 2018 e 2019. Non sono compresi in questi tagli gli effetti del blocco del turn-over di cui si dirà più avanti, mentre è compresa la riduzione di spesa derivante dalla centralizzazione dell’acquisto di beni e servizi che pesa tuttavia per soli 480 milioni . Come sottolineato in sede di audizione parlamentare della presidenza delle regioni, tuttavia, il quadro diventa drammatico se alle misure previste dalla attuale Legge di Stabilità, si sommano le misure derivanti dalle passate finanziarie e da diversi tagli di settore. In questo modo “nel 2016 l’insieme dei tagli che cadono sul sistema Regioni, ordinarie e straordinarie, derivanti da tutte le leggi di stabilità del passato e anche da leggi di settore, ammontano a circa 9 miliardi e mezzo, se si esclude il pareggio di bilancio di quest’anno, e che arrivano a più di 11 se si include il miliardo e 850 milioni di risparmio del sistema Regione che viene trattenuto come copertura a livello dello Stato… La situazione sul pluriennale è poi particolarmente preoccupante con altri cinque miliardi nel 2017 e sette nel 2018. Ormai i margini di manovra delle Regioni si vanno esaurendo”.
E’ evidente che sulla sanità e sui trasporti pubblici in particolare, ma più complessivamente sul sistema regionale siamo ad una destrutturazione complessiva di diritti e possibilità di intervento.
Anche i tagli a ministeri e società pubbliche, sono pesanti. Ammontano a 3,1 miliardi nel 2016, 2,4 nel 2017, 1,7 nel 2018, di cui per il 2016 1,6 miliardi di riduzione delle spese in conto capitale, cioè degli investimenti. Anche in questo caso al netto della riduzione di spesa derivante dalla centralizzazione degli acquisti di beni e servizi, che vale circa 160 milioni l’anno, e dei “risparmi” derivanti dal blocco del turn-over.
Proseguono dunque massicciamente i tagli, la riduzione del perimetro e la destrutturazione complessiva della funzione pubblica. A tutto questo va aggiunto da un lato quanto previsto nelle stessa legge di stabilità per il pubblico impiego, con il blocco del turn-over e della contrattazione, dall’altro il programma di privatizzazioni programmate dal DEF con introiti previsti per lo 0,41 % del Pil nel 2015, lo 0,5 nel 2016 e 2017 e 0,3 nel 2018, pari complessivamente a quasi 30 miliardi.
Il nuovo blocco del turn-over e della contrattazione nel pubblico impiego.
Sotto il titolo di involontario (o volontario?) scherno “esigenze indifferibili”, la Legge di Stabilità si occupa del contratto delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici. Nonostante la sentenza della Corte Costituzionale, per il “rinnovo” del contratto vengono stanziati 219 milioni di euro per 1,3 milioni di lavoratori contrattualizzati a livello centrale (circa 12 euro mensili lorde di incremento), 81 milioni di euro per i 500.000 lavoratori del comparto sicurezza, mentre per altri 1,2 milioni di lavoratori le risorse per il “rinnovo” contrattuale sono in carico alle singole amministrazioni!
Questo dopo 6 anni di blocco della contrattazione!
Le risorse stanziate sono poco più della metà di quanto destinato alla riduzione dell’IMU sugli imbullonati, meno di un dodicesimo di quanto varrà a regime la nuova riduzione delle tasse sulle imprese… e si potrebbe continuare.
Ma c’è di più: a fronte di pochissime e settoriali assunzioni è previsto un nuovo blocco del turn-over. Per le amministrazioni dello Stato, le agenzie, gli enti di ricerca, le regioni e gli enti locali, le assunzioni a tempo indeterminato possono avvenire solo entro la misura del 25% del budget derivante dalle cessazioni di personale con la medesima qualifica avvenute nell’anno precedente. La norma è sospesa per regioni ed enti locali per 2017 e 2018 per riassorbire il personale delle province, ma la nuova stretta è pesantissima.
I “risparmi” complessivi previsti per il blocco del turn over, vanno dai 44 milioni del 2016 a quasi 1 miliardo (919 milioni) nel 2019, 3 volte quanto stanziato per il “rinnovo” del contratto.
Come sottolinea il dossier del servizio studi del Senato “andrebbero richieste adeguate rassicurazioni in merito alla effettiva e piena sostenibilità dell’irrigidimento del blocco parziale del turn over, dal momento che negli anni più recenti le amministrazioni hanno subito già un blocco drastico dei reclutamenti che potrebbe averle già messe nella condizione di non poter assicurare i livelli minimi di servizio.” Va ricordato anche che dal 1 gennaio 2017 non sono più attivabili contratti di collaborazione e che nel 2018 scadranno i circa 80.000 contatti a tempo determinato di durata ultratriennale.
Va ricordato più in generale come il numero di dipendenti pubblici ogni 100 abitanti in Italia nel 2010, prima dei tagli e del blocco del turn-over degli ultimi anni, fosse abbondantemente sotto la Francia e l’Inghilterra (5,9 contro 8,5 della Francia e 9,2 del Regno Unito – dati della Ragioneria Generale dello Stato). La vulgata di un settore pubblico ipertrofico nel nostro paese è totalmente falsa. Accanto a perduranti elementi di inefficacia che certo non si affrontano con nuovi tagli, in generale siamo alla messa in discussione della capacità di erogare i minimi servizi essenziali.
4. QUALCHE MANCIA PER GLI ESODATI, LE POVERTÀ, LA CONDIZIONE DI DISAGIO SOCIALE.
Se per quel che riguardava imprese e ricchi, gli interventi sono in termini di miliardi sonanti, per esodati, povertà, disagio sociale, le risorse sono pochissime, centellinate solo per le emergenze, e spesso coperte da tagli all’interno dello stesso comparto.
Le pensioni
La legge di stabilità non contiene nessuna misura di flessibilizzazione della controriforma Fornero. I provvedimenti previsti riguardano il varo della settima salvaguardia per gli esodati, la cosiddetta “opzione donna” e il modestissimo aumento della no-tax area, le cui coperture sono interne al comparto, in particolare attraverso un nuovo intervento sulle rivalutazioni delle pensioni medie rispetto al costo della vita o attraverso l’accesso a fondi come quello per i lavori usuranti.
La settima salvaguardia per gli esodati copre 26.300 lavoratori, mentre secondo i dati Inps le lavoratrici e i lavoratori da garantire sono 49.500. Ne restano scoperti oltre 23.000. Restano esclusi tanto i cosiddetti quota 96 della scuola, quanto i macchinisti.
Per quel che riguarda “opzione donna” si prevede, a chiusura della sperimentazione, che l’opzione (cioè la possibilità di andare in pensione con 57 anni e 3 mesi, se lavoratrici dipendenti, e 58 anni e 3 mesi, se lavoratrici autonome, con 35 anni di contributi versati ed accettando il ricalcolo della pensione con il solo metodo contributivo) sia estesa alle donne che maturano i requisiti entro il 31 dicembre 2015 anche se la decorrenza del trattamento pensionistico è successivo a quella data.
Per quel che riguarda l’estensione della no-tax area, da 7500 a 7750 euro per i pensionati sotto i 75 anni e da 7750 a 8000 per i pensionati sopra i 75 anni, questa scatta soltanto dal 2017 ed è di portata assai modesta (intorno ai 5 euro mensili).
Come è modestissima la sperimentazione del part-time in uscita per i lavoratori che maturano entro il 2018 i requisiti per la pensione di vecchiaia con risorse previste per 60 milioni nel 2016.
La copertura di queste misure è comunque tutta interna al comparto pensionistico. Proviene dalla riduzione delle rivalutazione delle pensioni superiori a 4 volte il minimo, dalle somme non spese del Fondo Esodati, dall’indecente saccheggio del Fondo per i lavori usuranti. Come afferma la relazione tecnica si tratta di un fondo sottoutilizzato. Il che è certamente vero dopo che la controriforma Fornero ha peggiorato in modo gravissimo la condizione di questi lavoratori!
Va ricordato anche in questo caso il dato di fondo. I contributi pensionistici vengono usati da anni in Italia per finanziare il bilancio dello stato e non viceversa. Dal 1996 ad oggi il saldo tra contributi versati e pensioni erogate al netto delle ritenute fiscali (che rientrano nelle casse dello stato ) è sempre stato in attivo. Nell’ultimo anno l’attivo è stato di 21 miliardi di euro.
Qualche mancia per le povertà
Gli interventi per il contrasto alle povertà sono totalmente inadeguati rispetto alla situazione di sofferenza sociale cresciuta esponenzialmente in questi anni.
Secondo i dati Istat relativi al 2014, infatti, sono 1 milione e 470 mila le famiglie in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4 milioni 102 mila persone, 2 milioni 654 mila famiglie e 7 milioni 815 mila persone sono invece in condizione di povertà relativa. I dati sono stabili rispetto all’anno precedente e concentrati geograficamente: la povertà assoluta si attesta al 4,2% al Nord, al 4,8% al Centro e all’8,6% nel Mezzogiorno.
A fronte di questa situazione il governo stanzia 600 milioni aggiuntivi per il 2016 portando le risorse complessive a 1,6 miliardi e 1 miliardo per il 2017 portando le risorse complessive per quell’anno a 1,5 miliardi. Dei 600 milioni aggiuntivi 220 sono destinati a finanziare l’Asdi, l’assegno di disoccupazione, e 380 il Sia (Sostegno per l’inclusione attiva, misura attivata dal governo Letta e rivolta esclusivamente ai nuclei familiari con un minore). Il finanziamento complessivo per il Sia raggiunge complessivamente la cifra di 750 milioni per il 2016 (tra quanto era stato già stanziato e le nuove risorse) e di 1 miliardo per il 2017.
Se fossero distribuiti sulla sola platea dei poveri assoluti, non dando nessuna risposta alla condizione di povertà relativa, le risorse stanziate dal governo comporterebbero 15 euro lorde mensili, conteggiando invece la sola platea dei nuclei familiari in povertà con un minore che sono circa 600.000, questo significa 104 euro mensili lorde per nucleo familiare.
Va ricordato che la proposta di reddito di inclusione sociale avanzata dall’Alleanza contro la Povertà (Acli e Caritas) prevede risorse per 7 miliardi, mentre il reddito di dignità sostenuto da Libera per quanto non quantificato precisamente, nel prendere a riferimento le proposte esistenti in Parlamento (quella del Movimento 5 Stelle e quella di iniziativa popolare proposta da Bin, Sel, Prc ed altri, quantificate dall’Istat rispettivamente in 14,9 e 23,5 miliardi) si situa approssimativamente sulla cifra di 20 miliardi.
La miseria delle risorse stanziate per il contrasto alla povertà è ancora più grave considerati i tagli complessivi a cui è sottoposto il sistema di welfare, l’assenza di un piano per il lavoro, l’assenza di un piano per il Sud.
5. L’EVASIONE ED ELUSIONE FISCALE
La legge di stabilità 2016 prevede una serie di misure che favoriscono l’evasione fiscale. Con la scusa di sostenere i consumi, il governo ha innalzato l’uso del contante da 1000 a 3000 euro, invece di agire per rendere più semplice e meno costoso l’uso di carte e bancomat.
Una scusa evidentemente giacchè nessuno va in giro con 3000 euro in contanti per poter meglio acquistare un televisore o una lavatrice. La volontà di favorire l’evasione è resa evidente dal fatto di aver innalzato l’uso del contante anche per il pagamento dei canoni di locazione e nella filiera dei trasporti, dove la tracciabilità è un elemento decisivo per prevenire e reprimere attività legate a traffici illegali: dal caporalato al riciclaggio.
Il governo con i decreti di settembre scorso in attuazione della cosiddetta delega fiscale ha peraltro depenalizzato l’elusione fiscale praticata soprattutto dalle grandi imprese.
Ricordiamo che l’Italia con un’evasione fiscale pari a circa 130 miliardi l’anno è il paese con la più alta evasione in Europa: il recupero soprattutto della grande evasione ed elusione dovrebbe essere un obiettivo prioritario.
Roberta Fantozzi
segreteria PRC
25/11/2015 www.rifondazione.it
— PDF DEL TESTO DA STAMPARE: legge stabilità 2016 def —-
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