L’emergenza umanitaria come tattica di guerra
Le Ong italiane assieme a una delegazione di parlamentari sono state al valico di Rafah, dove i camion di aiuti restano bloccati. A testimoniare l’altra faccia dei bombardamenti israeliani
Il valico di Rafah si trova nel bel mezzo del deserto del Sinai, a poca distanza dalla barriera di separazione innalzata oltre vent’anni fa con Gaza, con l’obiettivo dichiarato di aumentare la sicurezza della popolazione israeliana e di prevenire attacchi da parte di gruppi armati palestinesi.
Siamo arrivati qui a inizio marzo con la missione organizzata dall’Associazione delle Ong Italiane, di cui Oxfam Italia fa parte, con Assopace Palestina, Arci e una quindicina di parlamentari italiani. Dopo quanto accaduto il 7 ottobre scorso trovarsi di fronte a questo «muro» provoca dolore e incredulità, e dà l’esatta dimensione del fallimento politico a cui stiamo assistendo e della necessità di una profonda riflessione – nel nostro paese come in tutta la comunità internazionale – sulla legittimità, e in ultima analisi sull’efficacia, della strategia e dei mezzi usati nei decenni dai governi di Israele per ottenere questa «sicurezza».
La fame usata come arma di guerra
Il governo israeliano, dopo l’attacco sferrato da Hamas, ha usato nella sua risposta militare un’intensità inedita e senza precedenti nel XXI secolo, ma agisce in continuità con il suo obiettivo primario: rendere invivibile la vita dei palestinesi, annettendo di fatto, un pezzo alla volta, tutti i Territori palestinesi occupati. Prima del 7 di ottobre infatti sono continuate senza interruzione le pratiche israeliane a seguito dell’occupazione militare che dura dal 1967: in Cisgiordania legge marziale e arresti arbitrari, colonizzazione dei territori attraverso avamposti e nuove comunità di coloni, controllo delle risorse naturali, violenze e impunità; a Gaza blocco e assedio dal 2007 e 6 operazioni militari che hanno causato, prima del 7 ottobre, oltre 6.400 morti palestinesi e poco più di 300 israeliani. A Gaza va ricordato che il 42% della popolazione ha meno di 14 anni e il 67% meno di 30 anni, il che vuol dire che 2/3 della popolazione non è mai uscita da quel territorio e ha conosciuto solo le difficili condizioni dovute a quella che internazionalmente è riconosciuta come una punizione collettiva, ovvero vivere la propria vita dentro un carcere a cielo aperto.
È in questo quadro che va letta la risposta agli efferati crimini – compreso il rapimento di centinaia di civili – commessi dai gruppi armati palestinesi: blocco totale dell’ingresso a Gaza di acqua e cibo, taglio dell’elettricità, entrate razionate di carburante e medicinali, fame usata come arma di guerra, sfollamento forzato della popolazione civile, bombardamenti a tappeto in territori densamente popolati. Si tratta di crimini di guerra che hanno prodotto oltre 31 mila morti, di cui 13 mila bambini e 9 mila donne.
Tali decisioni smentiscono, una volta per tutte, i tentativi di confondere l’opinione pubblica affermando che l’occupazione israeliana a Gaza sia terminata con il ritiro delle colonie. L’art. 42 della Convenzione dell’Aja infatti chiarisce che «un territorio è considerato come occupato quando si trovi posto di fatto sotto l’autorità dell’esercito nemico». Quel «di fatto» significa che non è necessaria una presenza militare, ma lo è la capacità di avere un controllo effettivo su quel territorio, e Israele controlla i confini terrestri, marittimi, aerei, le telecomunicazioni e le anagrafi (quando ancora i loro data base non erano stati spazzati via dai bombardamenti).
A questo si aggiunge il piano che prevede lo sfollamento della popolazione di Gaza nel Sinai. Si tratta di una vera e propria deportazione di massa, che il Governo Netanyahu si sta apprestando a mettere in atto e che potrebbe costituire anche una rappresentazione diretta di pulizia etnica. A pochi metri da dove si trovava la nostra missione, infatti, sono nati nuovi muri e i bulldozer stanno preparando le nuove aree, fuori da Gaza, che potrebbero essere usate come campi profughi qualora partisse l’operazione di terra su Rafah e la pressione sulla frontiera divenisse insostenibile.
Il blocco degli aiuti umanitari
Nel frattempo a Rafah abbiamo visto migliaia di camion di aiuti fermi e interi magazzini pieni di aiuti che hanno ricevuto il divieto di ingresso, nel nome di alquanto discutibili motivi sicurezza. Mentre oltre il valico più di un milione e mezzo di sfollati rischiano di morire letteralmente di fame e sete.
Le autorità israeliane infatti consentono l’ingresso degli aiuti solo attraverso due valichi a Gaza – Rafah e KaremAbu Salem/Kerem Shalom – nonostante abbiano il controllo e la capacità per aprirne altri, creando così punti di strozzatura evitabili per gli aiuti e i beni di carattere commerciale. Stanno inoltre guidando un sistema composto da procedure burocratiche onerose e da ispezioni disfunzionali che comprendono numerose tipologie di controlli, fattore che contribuisce a mantenere gli aiuti bloccati, obbligando i camion a fare code gigantesche, con una media di 20 giorni di attesa, con alcuni che restano fermi per quasi due mesi.
Un altro fattore di rallentamento dell’ingresso degli aiuti riguarda la pratica della dual use list, ovvero gli aiuti potenzialmente «a doppio uso (militare)», vietando del tutto l’ingresso di carburante e dei generatori che sono vitali, insieme ad altri articoli indispensabili, per una risposta umanitaria significativa, come l’equipaggiamento medico, il disinfettante e i kit igienici. Molti degli aiuti rifiutati devono passare attraverso un complesso sistema di «pre-approvazione» o finire in un limbo nel magazzino di Al Arish. Peccato che questi articoli siano spesso essenziali per la sopravvivenza delle persone o per curare i civili feriti dai bombardamenti. I container respinti sono pieni anche di incubatori per neonati, bombole di ossigeno, stampelle, disinfettanti per le sale operatorie e molti altri strumenti di questo tipo.
L’assedio israeliano della Striscia sta causando una catastrofe umanitaria senza precedenti, con il nord di Gaza rimasto completamente isolato rispetto al resto del territorio. Pochissimi sono i convogli che sono riusciti ad arrivare e abbiamo visto come spesso siano diventati occasione di violenza diretta da parte dell’Idf, le forze di difesa israeliane, verso i civili assembrati per poter prendere qualcosa di cui nutrirsi. Purtroppo tali attacchi non vanno letti come fatti isolati, ma parte di una strategia volta ad affamare la popolazione: non si fanno arrivare gli aiuti e quando arrivano si creano condizioni di pericolo per indurre la popolazione a rinunciare per non rischiare la vita, come successo nelle oramai rinominate «stragi del pane».
Nei giorni della missione abbiamo incontrato numerose organizzazioni umanitarie e agenzie delle Nazioni unite: tutte ci hanno descritto un quadro apocalittico. Solo nel nord vivono, o meglio sopravvivono, oltre 300 mila persone che, se va bene, consumano un pasto ogni quattro giorni. C’è chi è costretto a nutrirsi con cibo per animali ed erbe selvatiche. I numeri nella Striscia, che presto saranno aggiornati, ci parlano di oltre 500mila mila persone che soffrono di carestia e 1,1 milioni al livello immediatamente precedente. Più in generale tutta la popolazione soffre di insicurezza alimentare e i bambini iniziano a morire di malnutrizione e disidratazione: 25 solo nella giornata di lunedì 11 marzo e il trend è in crescita.
Secondo uno studio della John Hopking Univeristy, di qui a 6 mesi il numero di vittime potrebbe crescere esponenzialmente aggiungendone altre 74 mila nel caso di un’escalation del conflitto e altre 58 mila se le cose continueranno esattamente come ora. Dati che potrebbero essere ancora peggiori nel caso di epidemie. Ebbene, quanto tempo dovremo ancora aspettare prima che un cessate il fuoco diventi la priorità assoluta per la comunità internazionale? È questa la precondizione essenziale per un’adeguata risposta ai bisogni sempre più urgenti della popolazione.
Per non essere complici
Per questo abbiamo rinnovato il nostro appello al Governo Meloni affinché l’Italia si adoperi in modo molto più deciso per un Cessate il fuoco, affinché sia possibile un accesso incondizionato degli aiuti umanitari in ogni luogo della Striscia e aumenti il volume degli aiuti che entrano a Gaza. Gli aiuti che arrivano dal cielo, oltre a essere la plastica rappresentazione del fallimento diplomatico sul cessate il fuoco, sono completamente insufficienti e, abbiamo visto, dannosi. Se tutti i valichi fossero aperti e le infrastrutture minimamente ripristinate (strade e/o piste bianche), l’aiuto da terra sarebbe sufficiente proprio come sottolineato dal Portavoce delle Nazioni unite Stéphane Dujarric che ha affermato che «non c’è alternativa a un dispiegamento di aiuti su larga scala via terra» e che la proposta di farli arrivare via mare «a Gaza sarà complessa e deve essere parte di uno sforzo sostenuto per aumentare il flusso di aiuti e beni commerciali attraverso tutte le rotte possibili».
Infine non è facile comprendere l’atteggiamento italiano di non erogare i fondi promessi all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni unite spina dorsale del sistema umanitario a Gaza e che con i suoi 13 mila operatori dal 1950 garantisce servizi medico-sanitari, distribuzione di cibo e acqua potabile, scuole, formazione professionale e coordinamento con le principali agenzie dell’Onu e con le stesse autorità israeliane. Senza l’Unrwa ci sarà caos e incapacità di rispondere ai bisogni, ossia una catastrofe nella catastrofe.
Invece di annunciare tavoli di coordinamento sull’emergenza umanitaria a Gaza con solamente alcune agenzie, escludendo l’Unrwa insieme alle Ong italiane, l’Italia dovrebbe seguire l’esempio della Commissione europea che nelle parole della Presidente Ursula Von der Leyen si è ritenuta soddisfatta delle risposte fornite dall’Unrwa o l’esempio di Svezia, Canada e altri paesi europei che hanno rivisto la decisione di sospendere i fondi. Occorre non solo che l’Italia faccia arrivare i soldi promessi nel 2022, ma che stanzi fondi anche per l’immediato e per gli anni futuri.
Più di un mese fa la Corte Internazionale di Giustizia, ritenendo plausibile che Israele stia violando la Convenzione sul Genocidio, ha emesso nei suoi confronti delle misure vincolanti tra cui quella «di adottare misure immediate ed efficaci per affrontare le condizioni avverse della vita nella Striscia di Gaza». È obbligo anche dell’Italia fare in modo che queste condizioni vengano rispettate così come è vietato compiere iniziative che facilitino la commissione del crimine di genocidio. Contribuire a far crollare il sistema umanitario dentro la Striscia o addirittura continuare a fornire armamenti, componentistica, munizioni, manutenzione a Israele come sembra emergere dall’inchiesta di Altreconomia, potrebbe esporre l’Italia al rischio di essere chiamata a rispondere di complicità in genocidio.
Se la presidente Meloni aggiungesse al suo prossimo viaggio in Egitto per l’ennesimo accordo sul blocco dei flussi migratori, una tappa a Rafah potrebbe vedere anche lei con i suoi occhi la tragicità di quello che sta succedendo.
Paolo Pezzati è il Portavoce crisi umanitarie di Oxfam Italia.
16/3/2024 https://jacobinitalia.it/
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