L’eredità di genere della crisi.
Siamo fuori dal tunnel? Il primo Rapporto annuale dell’Istat dalla fine della crisi economica (o meglio sarebbe dire: da quando il Pil è passato dal segno ‘meno’ al segno ‘più’) è assai cauto, non si sbilancia in ottimismo. Ma, per usare una metafora proposta nella sua presentazione dal presidente Giorgio Alleva, evidenzia i germogli spuntati sull’albero assai malconcio dell’economia italiana. Se cresceranno – e il ‘se’ è collegato a tante variabili, esterne e interne -, una cosa è certa: non saranno su tutti i rami, poiché solo una parte dei territori italiani ha già ‘agganciato’ la ripresa. In particolare, quella nella quale sono più presenti le reti di imprese che esportano, che hanno ripreso a investire, in parte hanno rinnovato la loro specializzazione non restando ancorate ad antiche certezze, e hanno ricominciato (ma solo un po’) ad assumere. Nella nuova fase, ci portiamo dietro tanti problemi non risolti durante i lunghi anni della recessione, dalla struttura produttiva (ancora fatta di piccole e piccolissime imprese, che solo in parte si sono messe in rete), al divario territoriale (che anzi si è accentuato, con il Mezzogiorno che continua a sprofondare: il leggero aumento della produzione e dell’occupazione che si è mostrato nel primo trimestre di quest’anno riguarda solo il Centro-Nord). In questo quadro, che ne è del gap di genere nell’economia e nel mercato del lavoro italiani? La tenuta dell’occupazione femminile durante la crisi e l’aumento della partecipazione delle donne al mercato dal lavoro fanno parte dei germogli della ripresa, o finiranno tra i suoi ‘rami secchi’?
L’eredità di genere della crisi
64.000 donne occupate in più dal 2008 alla fine dello scorso anno: l’incremento dell’occupazione femminile dall’inizio della crisi a oggi può sembrare modesto, ma è una gran cosa se si guarda al bilancio dell’occupazione maschile, che perde 875.000 lavoratori. Come già evidenziato in molti rapporti europei e dallo stesso Istat (si veda anche, su questo sito, il resoconto del rapporto Enege su donne e crisi), è stata soprattutto l’emorragia di posti di lavoro maschili a trascinare in basso il tasso di occupazione generale. Ma mentre nella media europea quest’ultimo nel 2014 sfiora il 65% ed è tornato al livello del 2008, in Italia è al 56%: “al di sotto della media europea di quasi dieci punti e del livello del 2008 di quasi tre”. Visto in numeri assoluti, il gap è impressionante: per raggiungere un tasso di occupazione uguale a quello medio europeo, dovremmo avere 3 milioni e mezzo di occupati in più. Con il ritmo dell’ultimo anno (88.000 occupati in più), servirebbero quasi quarant’anni per raggiungere la media dell’occupazione europea. Anche per l’occupazione femminile il gap resta altissimo: è vero che quest’ultima ha tenuto, ma poiché partiva da livelli bassissimi ne consegue che, per raggiungere la media europea, dovrebbero lavorare in Italia 2 milioni e mezzo di donne in più: un gap localizzato in gran parte nel Mezzogiorno, ossia nella zona d’Italia che – ci fa capire lo stesso Rapporto – non è per ora sfiorata dalla ripresa. Dunque quando l’Istituto nazionale di statistica, per bocca del suo presidente, chiede che “la politica torni a occuparsi del Sud”, non va dimenticato lo specifico impatto di genere che tale “riscoperta” (dopo decenni di colpevole rimozione) potrebbe avere.
Perché lavorano
Di positivo, c’è il fatto che quasi tutti i fattori, ai quali è dovuta la leggera crescita dell’occupazione femminile negli anni della crisi, sono destinati a durare: l’aumento dell’attività delle donne over 50 (per effetto dell’aumento dell’età della pensione, ma anche per un’avanzata generazionale delle coorti di donne più istruite e occupate che via via più numerose sono entrate sul mercato del lavoro), la necessità delle donne di supportare il reddito familiare, l’aumento delle donne breadwinner (è salita ancora la quota di famiglie in cui la donna è l’unica ad essere occupata: 12,9% nel 2014, contro il 12,5 del 2013 e il 9,6 del 2008).
Di negativo, c’è la relativa debolezza delle nuove lavoratrici: che sono spesso in posizioni lavorative con bassa qualificazione, e – soprattutto – sono le protagoniste dell’unico grande boom che si è avuto per tutti gli anni passati, ossia l’aumento del part time involontario. Nel 2014 i lavoratori a tempo parziale erano oltre 4 milioni (il 18,4% del totale degli occupati, con un 32,2% tra le donne e un 8,4% tra gli uomini), ma quasi due su tre avrebbero voluto un lavoro a tempo pieno. Questo, ha sottolineato Linda Laura Sabbadini nel corso della presentazione del Rapporto, vuol dire che il part time non è chiesto né usato come strumento di flessibilità per la conciliazione, ma per esigenze attinenti all’organizzazione o alle strategie delle imprese. Nel complesso, aggiunge il Rapporto, “si contano 751mila occupati esposti a una doppia vulnerabilità, donne in circa due terzi dei casi: sono atipici (dipendenti a termine o collaboratori) e part timer involontari”.
Vincenti e perdenti
C’è, in tutto ciò, anche un effetto della composizione dell’occupazione femminile che è cambiata nel corso della crisi. Negli ultimi anni, si sono persi tanti posti di lavoro ma in alcuni settori se ne sono guadagnati. L’Istat le chiama professioni “vincenti”. Ma non sempre hanno a che vedere con la Silicon Valley e l’alta specializzazione. Tra il 2011 e il 2014, mentre si perdevano nell’occupazione totale 319.000 posti, c’era un gruppetto di professioni che avanzava. Settanta professioni vincenti (su 508 professioni mappate nel totale), che hanno assorbito ben 1,4 milioni di lavoratori in più. L’Istat le divide in quattro gruppi: le professioni specializzate tecniche (dai progettisti di software agli ingegneri elettrotecnici, ai responsabili di gestione), le specializzate non tecniche (dai fisioterapisti agli addetti all’accoglienza nel turismo), le tecniche operative (esercenti nella ristorazione, odontotecnici, ma anche addetti meccanici, e altre professioni di carattere manuale ma che richiedono competenze specifiche), alle elementari (nel campo dei servizi alle famiglie: badanti, camerieri, custodi, operatori socio-sanitari). Viene fuori che donne e stranieri primeggiano nelle professioni “vincenti”, con particolare riguardo agli ultimi due gruppi: tecniche operative ed elementari. Uno specchietto molto utile, che riflette un ‘effetto-badanti’ (una delle poche spese delle famiglie italiane che non è stata compressa considerevolmente) ma che dà anche possibili indicazioni, non limitate al settore dei servizi meno qualificati e meno retribuiti, per ragazze e ragazzi ancora in cerca di formazione.
Roberta Carlini
23/5/2015 www.ingenere.it
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