L’errore di fondo della cosiddetta “autonomia differenziata”
La cosiddetta “autonomia differenziata” contiene, tra i tanti, un errore di fondo. Uno dei temi centrali sostenuti in particolare dalla Lega è il cosiddetto residuo fiscale che consiste nella differenza tra quanto i contribuenti di una Regione versano e quanto ricevono in termini di spesa pubblica. Secondo tale indicatore, la Lombardia “verserebbe” 54 miliardi di euro in più di quanti ne riceve dallo Stato, subendo dunque una profonda ingiustizia.
In realtà, il residuo fiscale fa parte di una narrazione decisamente sbagliata. Le entrate fiscali in Lombardia sono ingigantite dal fatto che in tale Regione hanno sede fiscale società e aziende che operano in tutto il Paese. In altre parole, il fatto che Milano in particolare sia la capitale economica italiana determina, in tale città, un enorme gettito che non può essere banalmente iscritto come entrata della sola Lombardia. Più in generale, dovrebbe essere evidente che, data l’attuale struttura del sistema fiscale italiano, l’autonomia differenziata è sostanzialmente impraticabile senza una vera, e costosa, opera di perequazione definita, del resto, come prioritaria dalla stessa riforma. Il gettito Irpef, destinato a costituire circa la metà delle entrate tributarie, è infatti concentrato in pochissime Regioni che, se lo trattenessero, svuoterebbero di fatto le risorse dell’erario nazionale. Considerazioni analoghe sono possibili per l’Imu trasferita allo Stato dai Comuni; se tale gettito rimanesse ai Comuni dove è versato, i fondi perequativi esistenti verrebbero meno, con conseguenze devastanti per molti degli enti locali. Anche per gli introiti dell’Iva sono possibili valutazioni analoghe: ci sono realtà dove si concentrano i consumi, attraendo bacini di utenza assai più estesi, e dunque vincolare quelle entrate ad una sede specifica indebolirebbe le risorse di interi territori.
È evidente alla luce di ciò che il racconto secondo cui l’autonomia migliorerebbe l’efficienza delle amministrazioni periferiche è privo di senso perché il nostro sistema fiscale è espressione di una geografia che non coincide con la geografia economica del Paese: il fisco si concentra in aree dove si versano i tributi partoriti anche da altre zone, che, con l’autonomia, sarebbero condannate a restare senza risorse. Non a caso, come accennato, l’iter della riforma prevedeva l’inserimento nella Legge di Bilancio, in realtà non quantificato, di specifiche cifre finalizzate a finanziare l’autonomia, nella chiara consapevolezza che la riduzione dei residui fiscali avrebbe impedito la realizzazione dei Livelli essenziali di assistenza.
La questione cruciale, dunque, è costituita dall’indissolubile legame tra riforma federale e riforma fiscale: l’errore più grave è stato quello di separare i due ambiti, puntando a spostare una grande quantità di funzioni dal centro ai territori assegnando agli stessi territori le risorse riscosse con l’attuale sistema impositivo che non ha nulla di realmente federale per le ragioni sopra ricordate. La situazione è però resa ancora più complessa dall’ipotesi di riforma fiscale che il Governo Meloni sembra intenzionato a varare. La riproposizione della flat tax anche per lavoratori dipendenti, con riduzione ulteriore delle aliquote, addirittura ventilando un’aliquota al 15%, la mancata revisione degli estimi catastali, la totale assenza di proposte sulla revisione della base imponibile per rendite finanziarie e per cedolari, l’allargamento del novero delle deduzioni e detrazioni, la cancellazione dell’Irap provocheranno la riduzione del gettito non certo compensabile da un aumento dei redditi che, comunque, tenderanno a polarizzarsi nelle fasce più alte e soprattutto in ben definite aree geografiche, già colpite dall’autonomia. Ridurre le entrate fiscali significa indebolire i meccanismi perequativi che non potranno essere finanziati, nelle condizioni attuali, con l’aumento del debito, aprendo invece la strada ad una nuova stagione di tagli alla spesa, concentrati in aree del Paese già in difficoltà.
Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea presso il dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. Si occupa di temi relativi ai processi di trasformazione culturale ed economica nell’Ottocento e nel Novecento
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!