Lettera aperta a un giovane operatore della salute mentale

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Lettera aperta per riconoscerci in una storia che parla al futuro
Al recente incontro di Pistoia, la lettera aperta rivolta a chiunque operi nel campo della cura e a tutti i cittadini e cittadine per l’urgenza di riaprire sulla questione della salute mentale.
Il rischio davanti agli occhi di tutti è che “la grande rivoluzione basagliana rischia di svuotarsi e di perdere le sue ragioni d’essere” (Eugenio Borgna)Lettera aperta a un giovane operatore della salute mentale
di Peppe Dell’AcquaMarco Cavallo, che tu forse conosci, ha insistito molto perché ti scrivessi. Di recente abbiamo fatto visita agli internati dei sei Opg, che ora stanno per chiudere, siamo stati in viaggio per due settimane e abbiamo
incontrato tantissime persone.Sono più di quarant’anni che andiamo in giro e di cose ne abbiamo viste, di storie ne abbiamo ascoltate, di persone belle e generose ne abbiamo conosciute tante. Abbiamo condiviso con loro l’attesa del cambiamento, la sorpresa per le impensabili scoperte, la commozione delle storie ritrovate.Continuiamo a incontrare persone, e soprattutto giovani, che raccontano delle difficoltà  quotidiane, di chiusure, di assenze, di vuoti, di solitudini. Ci dicono di rinnovate resistenze a un cambiamento semplicemente urgente e quanto mai ovvio. Lamentano la mancanza di una qualsiasi tensione etica, che suppongono essere stata il motore delle lotte di quegli anni.
La lettura della recente intervista a Eugenio Borgna sul n°286 di questa rivista, mi ha stimolato a scriverti.
Con Borgna condivido l’indignazione per una psichiatria indifferente ai valori dell’interiorità, ridotta alle psicofarmacologie, distante dai luoghi, dalle voci, dalla vitadelle persone.L’insostenibile grigiore delle psichiatrie
È da tempo che sento parlare del grigiore delle psichiatrie che oggi tengono il campo.”Le mani alla gola degli schizofrenici”, per dirla con David Cooper, continuano a soffocare emozioni, parole, passioni. Una scena questa, che oggi si mostra quasi ovunque senza veli e senza vergogna alcuna.
I giovani, più degli altri, rischiano di essere annientati (o di svanire) in questo scenario.Parlo dei giovani che vivono l’esperienza della psicosi e dei tanti giovani che come te si apprestano a fare questo mestiere.I primi rischiano la vita, i secondi, anche! E non ho bisogno di dirti cosa voglio intendere.Studenti di medicina, di psicologia, specializzandi, infermieri, tecnici, educatori quando scelgono di occuparsi dei malati di
mente sono entusiasti, curiosi, disposti a mettersi in gioco.
Li vedo generosi e desiderosi di cogliere il senso etico, politico e umano di questo lavoro.Hanno occhi che guardano e orecchie che ascoltano.
Accade che al primo impatto con le accademie, con i servizi di salute mentale vuoti e insensati, come troppo spesso accade,con i diagnosi e cura che divengono bunker e ricorrono routinariamente alla contenzione, con strutture residenziali e comunità sedicenti terapeutiche, dove domina la miseria della gerarchia,
dell’infantilizzazione e dell’intrattenimento senza fine sono tentati di fuggire. Possono restare solo a costo di perdere la luce dei loro sguardi, diventare sordi e accettare la condanna a pratiche indicibili e alla solitudine quotidiana.
Nel corso del tempo, un tempo sempre più breve,rischiano di perdere ogni curiosità, ogni desiderio.
Arrivando nei luoghi della psichiatria, sperimentano lo sgomento dell’assenza. Per poter sopravvivere, sono costretti a prendere distanza. L’inferno che si presenta quotidianamente ai loro occhi diventerà invisibile.
Non si può sopportare di stare in quella scena se non c’è mai un povero diavolo oun buon cristiano che condivide con noi quel dolore, quella fatica, che ci aiuti a continuare.Non si può che impedirsi quella
visione, l’inferno non può che essere cancellato alla nostra vista e l’accettazione delle cose così come sono, immutabili e impenetrabili, diventa l’unica possibilità per sopravvivere.Ecco per questo Marco Cavallo mi spinge a scriverti. Le cose che voglio dirti mi assalgono e rischio di essere confuso e di annoiarti. Ma un qualche punto in premessa devosegnarlo: riconoscerci in una storia che possiamo condividere e cogliere insieme il senso di quanto negli anni passati è accaduto.Chissà se ti hanno mai parlato di Gorizia.
Allora dicevo, nel corso del viaggio abbiamo attraversato 10 regioni e siamo stati accolti in 16 città. Nelle università, nelle piazze, negli ospedali abbiamo incontrato persone.Parlato e ascoltato tantissimi giovani che ci chiedevano di questo nostro mestiere desiderosi di cominciare. Il loro valore è inestimabile e pure, nella trascuratezza e nella disattenzione rischiano di perdersi, di divenire invisibili. Avrebbero bisogno, per non scomparire nel grigiore delle psichiatrie, di sentirsi vicini gli uni agli altri. Fanno fatica a trovare luoghi e modi
per raccontarsi; per dirsi delle incertezze, delle frustrazioni, dei successi inaspettati e della gioia che sempre il lavoro quotidiano con le persone è capace di restituire. Avrebbero bisogno di trovare parole intorno alle quali costruire un dialogo, un conflitto, uno scontro, la capacità stessa di confrontarsi, di condividere, di opporsi, di disobbedire. Abbiamo bisogno tutti di riflettere sulle nostre storie, di frequentare esperienze e conoscere pratiche che ci aiutino a vedere che “si può”.
Ecco mi piacerebbe parlare con te, di come ricominciare. È urgente.
Ma forse prima sarebbe bene che tu mi dicessi delle tue esperienze, delle tue conoscenze, dei tuoi punti di vista. Chissà se ti hanno mai parlato di Gorizia. Nelle facoltà di medicina, di psicologia, di infermieristica, di assistenza sociale e nelle scuole di specializzazione e di riabilitazione psichiatrica è difficile trovare corsi, seminari, ricerche legati alla storia del cambiamento, alle possibilità di cura e di emancipazione che sono nate dalle prime porte aperte dell’ospedale goriziano. I riferimenti vengono cercati altrove, si studiano malattie, modelli di servizi, assetti sociali e politici che non tengono conto della scelta di campo che il nostro paese ha fatto abbandonando il modello manicomiale, restituendo diritti, e scommettendo sulle possibilità dei
singoli. Ovunque si insegna La Psichiatria e ovunque domina la freddezza del paradigma medico, troppo spesso mutuato da assetti culturali e sanitari di altri paesi.
Chissà cosa ti hanno raccontato della storia malattia mentale? E del malato? Della legge 180? Della chiusura dei manicomi? Dei diritti? Delle ritrovate cittadinanze?

La salute mentale è altro dalla psichiatria
So per certo che nelle nostre scuole è raro sentire parlare di salute mentale, che non è psichiatria!
L’insegnamento dominante delle psichiatrie la ignora, oppure la incorpora e la snatura. Così il dipartimento di salute mentale, in alcune regioni, diventa dipartimento di psichiatria e i servizi territoriali di salute mentale, ambulatori di psichiatria. È chiaro che non è la stessa cosa. I nomi tradiscono la persistenza di modelli che avremmo dovuto abbandonare e comunque una sorda resistenza al cambiamento.
Salute mentale è mettere in campo le persone con le loro singolari esistenze; cogliere l’insieme delle relazioni, delle tensioni,dei conflitti di una comunità; portare le risorse e le cure dalle istituzioni, dagli ospedali
(mi riferisco qui alle strutture residenziali, ai “repartini” ospedalieri e non ultimo oggi agli Opg) nel territorio; spostare l’attenzione dalla malattia all’individuo (alla persona, al cittadino) e alle sue peculiari dis/abilità; muovere da azioni individuali ad azioni collettive nei confronti delle persone con disturbo mentale e dei loro contesti. Incontrare e “creare” esistenze.
Quando ti parlo di cambiamento voglio intendere che i manicomi non ci sono più e siamo oggi impegnati, con la chiusura degli Opg, ad abbandonare per sempre gli ultimi residui dei dispositivi di internamento ottocenteschi; le persone che vivono l’esperienza del disagio mentale possono contare, se pure tra mille ostacoli, sui loro diritti riconquistati;le imprese sociali, le cooperative, nate proprio dalle macerie del manicomio, dove riescono a tener fede alle ragioni della loro origine e sono in grado di stare sul mercato e produrre lavoro, rendono concrete le speranze di crescita e di emancipazione di tantissimi;ovunque, bene o male, i servizi territoriali sono stati organizzati ed è possibile trovare Centri di salute mentale attivi e presenti quotidianamente a sostegno della vita delle persone; le associazioni di persone con disturbo mentale creano protagonismo, partecipazione e ripropongono la dimensione politica delle esperienze, delle diversità, delle fragilità; in tanti luoghi dell’abitare e in tanti laboratori, è possibile oggi coltivare il valore della relazione, la
bellezza degli spazi e degli oggetti; la qualità dei lavori e delle produzioni dimostra che è possibile curare senza contenzioni, con le porte aperte, con programmi abilitativi personalizzati, con percorsi di formazione e
di inserimento lavorativo reali, con il sostegno e il coinvolgimento dei familiari, con l’appoggio puntuale, anche economico, nella vita quotidiana, con la possibilità per le persone di vivere identità plurali. Con la possibilità di guarire.

Perché la legge 180 fa così fatica?
Molti mi chiedono: ma cosa è accaduto veramente, come mai dopo tanti anni la legge 180 fa tanta fatica, perché tante differenze? Non è semplice rispondere, ordini di discorso diversi si sovrappongono e creano grovigli difficili da sciogliere.
Che cosa è stata la riforma dell’assistenza psichiatrica in Italia, o meglio che cosa avrebbe dovuto essere se non un simultaneo tentativo di attraversare la dimensione etica, disciplinare, politica e amministrativa? Che cosa vediamo oggi, o dovremmo vedere, se non il radicale cambiamento delle organizzazioni del lavoro e delle pratiche, dei luoghi e dei tempi, delle tecniche e degli indirizzi disciplinari, della disposizione strategica delle risorse in campo?
A ben guardare è la disposizione incerta, incompleta, approssimativa dei servizi di salute mentale nel territorio la chiave di lettura di ciò che è accaduto e accadde. La distanza (o la vicinanza) dalla vita delle
persone, i riferimenti culturali e disciplinari im/mutati, in una sola parola l’organizzazione e le sue forme permettono di cogliere il senso e le ragioni delle buone pratiche (e ancora meglio dei fallimenti).
Ho avuto la fortuna di vivere a Trieste l’attenzione quotidiana, frenetica e ossessiva allo smontamento dell’ospedale psichiatrico.
La rassicurante stabilità del sistema manicomiale si è dovuta tradurre nella ricerca incerta di modi e parole differenti, nella “banalità” del lavoro quotidiano, nel riconoscimento prima di tutto dell’irruzione dei bisogni delle persone sulla scena. I soggetti non potevano più essere accantonati. E’ a partire da qui che sono nati i servizi di salute mentale e la loro capacità di radicarsi nel territorio e di operare criticamente sui modelli medici e psicologici dominanti, di produrre davvero protagonismo, di vedere “ la persona non la malattia”. È qui, credo, che bisogna giocare per uscire dal grigiore e dal pessimismo che oggi tanto spesso si respira nei servizi e nelle accademie. L’organizzazione del lavoro ha dovuto piegarsi alla presenza dei soggetti e i linguaggi del quotidiano hanno cominciato a tessere un lessico familiare capace di riconoscere e sostenere le molteplici identità,di ascoltare, di accogliere.

Il dottore domina ancora la scena
Sono sempre più convinto che è necessario trovare indirizzi, percorsi, visioni da condividere, alleanze e reti per formare associazioni, lavorare sempre insieme agli altri, fare gruppo. Bisogna avere la capacità di
convergere e orientare lo sguardo verso orizzonti etici che insieme si riconoscono. I giovani operatori, al contrario, vengono avviati allo specialismo esasperato, all’accettazione acritica di tecniche e modelli, a “difendersi” all’ombra di mansionari, di posizioni di garanzia, di protocolli. L’idea che tu debba diventare il bravo dottore è ancora profondamente radicata nelle scuole e nei servizi. Si propone e si riproduce quotidianamente nella separazione di compiti e funzioni in un circolo vizioso che porta a pensare che i centri di salute mentale debbano essere poco più che uno studio medico associato con un infermiere che risponde al telefono e tiene gli appuntamenti.
Per fortuna il tempo non è passato invano e le persone oggi chiedono di guarire. Mettono impietosamente in luce il fallimento di questi sistemi. Richiedono consapevolmente un ascolto singolare e un altrettanto
singolare percorso di cura e di emancipazione. Chiedono di vedere valorizzati i loro faticosi e unici percorsi di ripresa. Vogliono essere aiutati e sostenuti nell’attraversare cruciali e rischiosi punti di svolta nella loro esistenza. Cominciano a disegnare, con la loro domanda, servizi popolati da una molteplicità di operatori, servizi che essi pretendono orientati alla guarigione, alla ripresa appunto, al sostegno delle loro vite e dei loro sogni. Anche nel tempo lungo.
In molti professionisti della salute mentale l’adesione entusiastica al processo di chiusura dell’ospedale psichiatrico si materializzò in un rafforzamento arrogante, del modello medico, delle tecniche, dei farmaci, del dottore che domina la scena: finalmente psichiatri, psicologi, infermieri (con i loro sindacati) potevano liberarsi dal fardello del controllo sociale, proprio della psichiatria (manicomiale), della pericolosità, delle ruvidezze che da questo momento dovevano essere delegati a un confuso e misero sociale. Potevano finalmente ritrovare la purezza della psichiatria medica nel camice bianco inamidato di fresco, nei servizi ospedalieri, negli ambulatori, nelle cliniche private, negli istituti residenziali. Potevano affermare con l’ingannevole credibilità scientifica appena conquistata, fuori dal manicomio, l’indispensabile e irrinunciabile ricorso alle porte blindate,alle contenzioni, alle dosi eroiche dei trattamenti farmacologici.

Le scelte di campo più delle evidenze
Mi chiedi dei risultati oggettivi, degli esiti dei trattamenti, se le persone stanno meglio. Vuoi poter valutare i vantaggi dei modelli che ti vado proponendo. Mi richiami spesso all’evidencebased per uscire dalle
incertezze e dalle perplessità che ti assalgono.
Le possibilità nuove ed estese di ripresa, di integrazione, di emancipazione sono quanto mai evidenti. La presenza sulla scena, sempre più evidente, delle persone che vivono l’esperienza del disturbo mentale allude a prospettive inaspettate. Forme originali di abitare, di lavoro, di socialità possono realizzarsi ovunque. Ma più che le evidenze, sono le scelte di campo che danno conto dei cambiamenti e dei risultati.
Potrei dirti per brevità della “porta aperta”. La porta aperta, dicevamo in manicomio, e continuiamo a dire nel mondo di fuori, per l’esercizio della cittadinanza. La porta aperta perun’etica della dignità,della inviolabilità
del corpo, del rifiuto della violenza. La porta aperta per un lavoro di cura che (finalmente) può farsi nella considerazione dell’altro, nell’incontro, nella conversazione.
I libri di psichiatria che devi studiare parlano di un mondo pulito, silenzioso, geometrico. La Ragione domina la follia dal giorno stesso della nascita della psichiatria. Nella copiosa letteratura psichiatrica non si trova ombra di una sofferenza, di un dolore umanamente comprensibile, non un odore, non un grido, non una voce, non un silenzio. Non una prepotenza subita o esercitata. Emozioni e sentimenti raggelano nel linguaggio della clinica, i sintomi si sostituiscono alle persone. Si costruiscono così spazi e trattamenti nella stessa rarefatta atmosfera di irrealtà dei manuali di psichiatria. La quotidianità dei luoghi dove vivono veramente gli operatori,chiusi negli ambulatori e impegnati in prima linea ad affrontare la domanda di  aiuto delle persone con disturbo mentale scompare. I giovani vengono avviati a questo mestiere come uno scalcinato esercito mandato al fronte della normalità per difendere tutti noi dalla follia in trincee fangose,
fredde e ingenerose. Nell’armamentario che i giovani operatori, e gli psichiatri in particolare, portano in quelle trincee non c’è traccia alcuna di persone, di parole, di salute mentale. Soltanto la presenza incontrastata di una Psichiatria che vuole apparire “moderna” senza riuscire a liberarsi dalle antiche impresentabili origini.

L’oggettivazione è il confine invalicabile
Bisognerebbe ampliare conoscenze sui diritti, sugli assetti normativi e legislativi, sulle politiche di salute mentale; si dovrà sempre più valorizzare il sapere disciplinare collegandolo a quanto accade in termini trasformativi nella realtà dei servizi; occorrerà essere capaci di attraversare gli ambiti scientifici anche per proporre visioni che si allontanino dall’abusato ricorso al paradigma clinico-medico. Bisogna muovere dalla consapevolezza delle nostre esperienze e dichiarare che molti dei servizi di salute mentale così come sono organizzati oggi hanno scarsa valenza di cura e non sono in grado di dispiegare le enormi potenzialità dimostrate dalle buone esperienze innovative e da un assetto legislativo unico al mondo.
Ti sto dicendo che devi finalmente rischiare di diventare protagonista. Una vasta schiera di giovani operatori non ancora del tutto “contaminata” dalla psichiatria, deve poter entrare in gioco e maturare conoscenze anche in opposizione alla formazione accademica grigia e per tanti di voi, mi dite, insoddisfacente.
Ci sono azioni, trattamenti, posizioni che segnano drammaticamente il campo e bisogna scegliere da quale parte stare. Il rifiuto ostinato della contenzione, della “porta chiusa” e più in generale di tutte le forme inerti e stupide di oggettivazione rappresenta il discrimine, il confine invalicabile.
Con umiltà e abbandonando la confortevolezza dei luoghi comuni occorre tornare sulle parole, ora a rischio di sparizione, che dettero inizio ai grandi cambiamenti negli Stati Uniti, in Europa e nel nostro paese. A fronte delle conoscenze certe apprese dallo studio della clinica dei disturbi mentali, bisogna ripensare al mondo dell’esperienza, a quanto accade veramente nella nostra quotidianità, alla fatica dell’incontro con l’altro.
La messa tra parentesi della malattia, per esempio, ha restituito allo sguardo e all’ascolto uomini e donne nel divenire della loro esistenza; ha reso possibile narrare e ascoltare.
Essere con le persone rende finalmente comprensibile la loro sofferenza. Le sottrazioni e le miserie di tanti servizi di salute mentale, una volta svelate, non possono non diventare il punto di partenza, faticoso e contraddittorio, per impegnarsi in pratiche di cambiamento intorno alla corporeità, alla materialità, alla tangibilità delle persone.
Cerchiamo insieme come ricominciare Uno psichiatra
Uno psichiatra, ed è la prima volta che accadeva, cerca di prendere le distanze dalla cultura e dal paradigma biologico clinico (che ha prodotto e riprodotto il manicomio). Insieme ad altri giovani, si sta interrogando sulla in/comprensibilità del malato di mente reso muto dalla rozzezza della persistenza dell’armamentario positivista. Quando gli toccherà di entrare nel manicomio non può non vedere.
Il 16 novembre 1961, Franco Basaglia entra nel manicomio di Gorizia.
Per me è l’inizio del cambiamento che sto cercando di dirti. Una storia che tutte le volte che la racconto si traduce in presente e comincia a parlarmi di futuro.

Da Animazione Sociale 290, Nr. 3/2015

Fonte: http://www.news-forumsalutementale.it/a-un-giovane-operatore-della-salute-mentale/ p

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