Lettera di Ilaria Salis dal carcere di Budapest
Sono caduta in un pozzo profondissimo, mi chiedo se ci sia uscita. Ma non ho dubbi su quale sia la parte giusta della storia”
Non ha intenzione di arrendersi, Ilaria Salis, ed è intenzionata a lottare con tutta se stessa. Repubblica e Tg3 pubblicano in esclusiva una lettera che Ilaria Salis ha scritto raccontando le sue difficili giornate nel carcere di Budapest:
«Mi sto abbastanza abituando a stare qui e non credo che sia merito mio, ma che questi questi posti siano fatti in modo tale che le persone si abituino a starci.
Adesso, quando mi aprono la porta della cella perché devo andare da qualche parte, mi fermo rivolta verso il muro per farmi perquisire, invece di iniziare a gironzolare con molta naturalezza per il corridoio come facevo all’inizio.
Mentre aspetto di ricevere il pacco con le ciabatte, tutti i giorni vado alle docce portandomi sottobraccio il catino del bucato. In questa situazione ci mancano solo funghi e verruche!
Sono anche molto rincuorata dal fatto che i piccioni e tutti gli oggetti inanimati a cui sovente indirizzo i miei monologhi non mi abbiano mai degnato della loro risposta.
Lo scorrere del tempo è davvero strano: le singole giornate sono interminabili, ma i giorni si susseguono rapidamente e mi sembra sempre di essere stata arrestata la settimana scorsa.
Non ho la percezione di essere lontana da Milano da più di un mese. Gli avvenimenti, le persone, i luoghi di fuori li sento vicini e vivi dentro di me.
Forse il fatto che non ricevere notizie dall’esterno e di non avere nessun contatto con il mio mondo mi fa sentire in una specie di bolla sospesa.
E’ un po’ come se per me il tempo si fosse fermato. Non c’è un primo è un dopo ma solo il “dentro” e il “fuori”: sono due mondi assolutamente incompatibili e la mia mente non riesce a collocarli sul medesimo asse temporale.
Quando sei “dentro” il “fuori” cessa di esistere. Entri nella bolla e il mondo esterno si dissolve, entra in stand-by.
Non ho mai un’idea precisa di che ore siano. Non so che ora sia quando si svegliano, so solo che mi sto già allenando. Al cambio della guardia della mattina c’è già luce, finché c’è allora solare. Poi sono ore lunghissime che non passano più, nell’attesa di scendere all’aria.
Dopo il carrello il pomeriggio è interminabile e non succede più nulla. Il cambio della guardia della sera per me segna la fine della giornata. Arrivare fino a quell’ora ogni giorno è estenuante e dopo quell’ultimo rituale, che si svolge quando è già buio, più che addormentarmi, direi che cado svenuta.
Mi accascio sulla branda svuotata di ogni energia senza badare al bagliore pungente del neon. La luce della cella si può accendere spegnere solo dall’esterno: non so a che orario si compie il rituale di spegnimento delle luci e non rimango mai sveglia abbastanza lungo da potervi assistere.
Durante l’ultimo weekend del mese si passa all’ora legale e, dato che il mio unico punto di riferimento alla luce solare, a questo punto mi rendo conto che alcuni rituali si svolgono decisamente prima di quanto non pensassi e che forse dovrei rivedere i miei ritmi di vita. Il cambio della guardia della sera adesso avviene poco tempo dopo l’imbrunire, quindi decisamente presto.
Se mi addormento a quell’ora poi è normale che, quando dovrai svegliarmi, sono già nel bel mezzo dell’allenamento. Che casino! Anche le cose semplici qui diventano complicatissime.
Di poche esperienze ho memoria che siano state così complicate. Forse quando a otto anni mi sono trovata, da un giorno all’altro, a frequentare la terza elementare in Inghilterra, senza parlare una parola di inglese e senza conoscere nessuno.
Ecco, anche lì primi mesi erano stati abbastanza abbastanza complicati. Oppure, forse, quando ho imparato a camminare, ma ero troppo piccola per poterlo ricordare. In tutte quelle situazioni non ero mai da sola. Qui invece si si è completamente soli ed è bene non fidarsi di nessuno. E molte molte cose qui dentro sono alquanto strane.
Sotto alcuni aspetti è una situazione d’altri tempi, assolutamente inusuale nella nostra era digitale, nell’epoca della comunicazione e dell’informazione globale.
È insolito non sapere per settimane che ore siano, quando normalmente ti basta un leggero tocco dell’indice e ti appaiono immediatamente i minuti luminosi e colorati.
È strano trascorrere lunghi mesi senza scambiare una sola parola neanche con le persone più care (nemmeno una lettera scritta a mano!), quando fino al giorno prima bastava muovere il pollice sullo schermo del telefonino per comunicare continuamente e contemporaneamente con tante persone diverse.
È inusuale non ricevere nessun tipo di informazione dall’esterno, quando in ogni attimo della nostra vita siamo bombardati da notizie e messaggi provenienti da ogni parte del mondo.
È strano non poter googlare tutto quello che ti viene o non ti viene in mente, ma trovarti a dover riorganizzare le tue conoscenze, il tuo pensiero e la tua memoria nei vecchi schemi gerarchici “ ad albero”, abbandonando le disposizioni orizzontali “a rete” e ringraziando il cielo di essere nata una decina d’anni prima di Google e pertanto di avere un cervello in parte già educato a questo anacronistico modus operandi.
Questa è una bolla davvero strana.
I mesi sono lunghi e accade che la bolla si trasformi in un buco nero che ti risucchia. Prendendo in prestito una metafora che leggerò parecchi mesi dopo in un bellissimo fumetto dedicato alle mie vicende, sono caduta in un pozzo profondissimo.
Le pareti sono scivolose ed ogni volta che faticosamente cerco di compiere un breve passo per risalire appena un pochino, finisco sempre col precipitare più in profondità. A volte mi chiedo se questo pozzo abbia un fondo e se da qualche parte ci sia davvero un’uscita. Immagino di essere un piccolo geco, che nell’oscurità silente riesce a scalare le pareti.
Già, devo scalare le pareti, ma qui purtroppo non ci sono i miei compagni di arrampicata e i legami di fiducia ben stretti sulla corda della “ sicura”.
In montagna ci si assicura l’uno all’altro, in modo tale che, se uno scivola, invece di sfracellarsi al suolo, è bloccato dal contrappeso dell’altro.
E quando davanti a un passaggio un po’ più complicato mi blocco e penso di non farcela, mi strillano che di sicuro ce la farò e di tirarmi su come riesco. Infatti nei momenti più difficili, di fronte ai pericoli più minacciosi, davanti a scenari sconosciuti, bisogna fare affidamento sui propri punti di forza e tentare strategie inedite, laddove le tecniche tradizionali non possono nulla.
Fortunatamente lo sport mi ha insegnato qualcosa in materia di tenacia e di paure.
Le paure, in alcuni contesti in cui è in gioco l’autoconservazione, non sono da fuggire o allontanare ma vanno curate e percepite nitidamente perché potrebbero essere la chiave della tua salvezza.
Quando ti trovi sola con te stessa a raschiare la melma nel fondo del pozzo, quando la paura si fa terrore perché non hai idea di cosa ti stia per succedere, allora scorgi in te stessa risorse che non sapevi ti appartenessero.
Ma qui ciò che davvero ti permette di affrontare a testa alta le privazioni e le umiliazioni quotidiane, di mettere in salvo il ben dell’intelletto (ossia il tesoro più prezioso che esista qui) dalla voracità di quel mostro chiamato follia, è più semplice al tempo stesso più complesso di quanto si possa immaginare.
È la capacità di discernere la schietta sincerità dalla menzogna mistificatrice, la consapevolezza profonda, che dimora in fondo al cuore, di quale sia la parte giusta della storia.
Chiudo gli occhi e lancio lo sguardo oltre le mura di questo cieco carcere: scorgo le vicende di uomini e donne come ricambi in tessuti su arazzi che raffigurano storie più ampie.
Storie di popoli, di culture, di lingue e di religioni. Storia di sistemi economici, politici e giuridici. Storie di ricchezza e di miseria, di potere, di sopraffazione e di sfruttamento. Storie di guerre e di eserciti. Storie di un mondo in cui ancora si uccidono bambini, in cui alle quarte d’Europa risuonano mitraglie che riecheggiano gli scempi del secolo scorso.
Apro gli occhi e mi scorgono rannicchiata sulla grigia coperta, con lo sguardo fisso sulla porta di ferro della cella.
Tutto mi appare semplice e lineare in queste vicende, come in molte altre, non può esserci alcun dubbio su quale sia la parte giusta della storia».
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