L’Europa e l’impasse del commercio internazionale
Reshoring, friendshoring, secure supply chains: dai documenti dei think tank iperliberisti, fino alle proposte del Governo Meloni per il G7 a presidenza italiana, la parola d’ordine è riportare le catene del valore più lunghe entro i confini regionali o nazionali, oppure in casa di Paesi amici. Questa proposta, che in anni recenti sarebbe stata liquidata come rossobrunismo o protezionismo, è il punto di frattura della rete di relazioni commerciali europee, e dunque anche italiane, a confronto con il caos climatico, politico e psicologico che esse stesse hanno contribuito a determinare. E per difendere le posizioni acquisite da Paesi emergenti o da nuove aggregazioni vale tutto, compreso il riarmo e l’espansione dell’area Nato.
A fine 2023, ultima fase rilevata da Eurostat, import ed export europei non se la passavano per niente bene. Dopo il rimbalzo post-Covid il valore delle esportazioni e delle importazioni di beni dell’UE ha continuato a diminuire: le esportazioni sono calate per il terzo trimestre consecutivo e le importazioni per il quarto trimestre consecutivo. Nel terzo trimestre del 2023, le importazioni e le esportazioni dell’UE sono diminuite rispettivamente del 4,6% e del 1,2% rispetto al trimestre precedente, e per questo si è registrato un surplus nella bilancia commerciale dell’UE di circa 18 miliardi di euro. L’ultima volta che si era verificato un surplus era stato nel terzo trimestre del 2021 (6,9 miliardi di euro), cioè nella prima risalita dopo lo stop della pandemia. In tema di opportunità, sempre secondo Eurostat[i] i valori più elevati di concentrazione industriale in Europa sono stati registrati nella fornitura di elettricità, gas, vapore e aria condizionata (22,1% dell’occupazione concentrata nei 4 maggiori gruppi di imprese), nelle attività estrattive (13,7%), nella fornitura d’acqua; le fognature, la gestione dei rifiuti e le bonifiche (10,8%), trasporto e stoccaggio (9,8%) e attività di servizi amministrativi e di supporto (5,4%). Un altro dato assai significativo, in questo contesto, è quello che vuole che le imprese operanti in Europa ma controllate dall’estero, pur essendo in numero limitato, contribuiscano in modo significativo all’economia dell’UE: il 22,5% del valore aggiunto[ii]. Dobbiamo, perciò, considerare per acquisito che, quando i nostri Governi parlano di “interesse nazionale o europeo”, non mettono al primo posto il tricolore o il campo blu stellato, ma un complesso sistema di interessi e bandiere che faticano a ricollocarsi nella cartina della geografia fisica.
Quando la Commissione Europea, come strategia di attacco dopo la crisi finanziaria globale, lanciò il piano di sviluppo Europe 2020 nel segno della competizione a tutto campo, contava di utilizzare il commercio come indefinito motore di espansione, in entrata e uscita. Non riuscendo, dopo il fallimento della conferenza ministeriale di Seattle nel 1999, a garantirsi una posizione di primato in ambito WTO, ha provato a vincolare a sè un numero crescente di Paesi in via di sviluppo con trattati bilaterali di liberalizzazione reciproca. A trovarseli di fronte per prime sono state le ex colonie in Africa, Caraibi e Pacifico, che fino a quel momento l’Europa aveva legato con rapporti opportunistici ma in parte di cooperazione. Con i nuovi accordi, invece, ha messo i propri lavoratori, imprese e sistemi-Paese, altamente industrializzati, in competizione diretta con Paesi meno strutturati, con costi del lavoro, regole e standard di produzione, ma anche di protezione ambientale e sociale molto più ridotti dei propri. Ha accelerato, così, una caduta verticale della competitività dei membri Ue e una iper-estrazione di materie prime e risorse, anche umane, nei Paesi partner.
Il risultato, a più di dieci anni da quella scelta tanto criticata da noi associazioni, è che gli accordi fatti sono stati tanti, ma non abbastanza da garantire al continente una rete di relazioni stabili tali da mettere tutti i suoi membri, imprese e filiere “in sicurezza” di fronte a eventi estremi e improvvisi come la pandemia e i più recenti conflitti. La corsa al ribasso su redditi e remunerazione delle materie prime, unita al crollo degli aiuti allo sviluppo, hanno spinto, per di più, molti partner storici dell’Europa a cercare nuove alleanze più paritarie, o con investimenti al seguito più generosi. L’aggregazione BRICS, che coordina oltre a Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, decine di altri Paesi nel mondo a partire dai “grandi elettori” dell’Unione Africana, costituisce un’alternativa concreta all’asse atlantico sia in termini geopolitici che di scambi potenziali, connettendo i mercati interni più giovani e popolosi del mondo. Tra il 1990 e il 2022, ad esempio, il commercio bilaterale della Cina con l’Africa è passato da soli 2,7 miliardi di dollari a oltre 209 miliardi di dollari, e la Cina è diventata il suo principale partner commerciale. Se all’epoca della crisi finanziaria globale, il commercio Sud-Sud ha superato per la prima volta quello Nord-Nord, oggi il 35% del commercio globale è rappresentato dal commercio di merci Sud-Sud, e solo il 25% da quello Nord-Nord[iii].
L’Organizzazione mondiale del commercio, il perimetro neoliberista più ampio al mondo con 164 Paesi membri, risente di questa polarizzazione su tutti i tavoli di negoziato. Proprio in queste ore a Abu Dhabi si tiene la sua 13esima Conferenza ministeriale, ma da mesi si assiste a un braccio di ferro tra i vecchi e nuovi leader che, comunque vada, continuerà a paralizzarla. Da un lato Stati Uniti e Europa, che dopo aver goduto di sussidi e imposto per anni sanzioni unilaterali, da ultima alla Russia, vorrebbero che nessun ostacolo venisse posto ai propri prodotti, servizi o strategie di penetrazione. Dall’altro gli emergenti, Cina e India in testa, che rivendicano la possibilità di usare misure e imprese di Stato per governare prezzi e mercato quando l’instabilità internazionale li raggiunge. Perché il mercato libero piace a tutti, a parole, ma lo si vuole praticare soprattutto in casa altrui. In questa sassaiola di proposte e dinieghi, ci rimette la dimensione multilaterale: quel tavolo potenzialmente aperto a tutti i Paesi del mondo, e inquadrato all’interno della cornice dei diritti umani, che le Nazioni Unite dovrebbero garantire per affrontare e risolvere le emergenze del pianeta che accendono ogni giorno nuovi focolai di conflitto. Penso alla giustizia climatica, alla giustizia sociale, al diritto al cibo e a un lavoro dignitoso.
L’Europa, a parole, se ne dice campione. Nei fatti molto meno. La Commissione Europea, ad esempio, risponde alle proteste dei trattori non affrontando i problemi di mercato che vivono gli agricoltori, tutti legati al modello iperliberista che ha sposato, ma sospendendo le prime prospettive di decarbonizzazione e bonifica ottenute negli anni scorsi, che proteggono la loro salute e futura possibilità di coltivare. Ma c’è di più: dopo anni di estenuanti trattative e pressioni[iv], i Governi europei dovrebbero votare l’obbligo per le grandi imprese di effettuare controlli minimi sulle possibili violazioni di diritti umani e dell’ambiente introducendo la Direttiva sul dovere di diligenza delle imprese in materia di diritti umani e ambiente (CSDDD o CS3D). Una misura non ottimale ma di decenza, della quale Confindustria[v] si lamenta a mezzo stampa denunciando che perderebbe da 2 a 4 miliardi di euro per fare quei controlli. Il Governo pseudo-popolare di Meloni, invece di replicare che i diritti non hanno prezzo, vorrebbe, a inizio marzo, fare sponda all’astensione annunciata della Germania e far fallire la Direttiva. E la Commissione Europea, tutta impegnata a convincere i conservatori, vincitori annunciati delle prossime elezioni Ue, della propria sincera fede neoliberista, fragorosamente tace.
L’Italia quest’anno ospita i G7, che si faranno scarrozzare per lo stivale, e dal 13 al 15 giugno in Puglia, con l’obiettivo di riacquisire visibilità e centralità nel governo della terra però, a quanto capiamo, in direzione contraria a quella necessaria. Tocca a noi, cittadini organizzati, associazioni, sindacati, chiese, ma anche imprese consapevoli, imporre alla loro decisione un nuovo paradigma per la sopravvivenza degli umani sul pianeta. Vent’anni fa affermavamo che “Questo mondo non è in vendita”, ora è arrivato il momento di farcelo restituire.
[i] https://ec.europa.eu/eurostat/en/web/products-eurostat-news/w/ddn-20240115-2
[ii] https://ec.europa.eu/eurostat/en/web/products-eurostat-news/w/ddn-20240209-1
[iii] https://www.brookings.edu/articles/why-south-south-trade-is-already-greater-than-north-north-trade-and-what-it-means-for-africa/#:~:text=The%20standard%20narrative%20suggests%20that,2022%2C%20economists%20from%20the%20U.N.
[v] https://www.corriere.it/economia/lavoro/24_febbraio_15/la-direttiva-anti-schiavismo-bloccata-a-bruxelles-e-la-scelta-decisiva-dell-italia-d3a306b8-e922-4d66-b68a-c388c0669xlk.shtml
Monica Di Sisto
Giornalista, vicepresidente di Fairwatch
Foto1: Firenze Social Forum 2002 di Unisin BNL
Foto2 di Kevin Schwarz da Pixabay
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 52 di Febbraio-Marzo 2024: “Europa: a che punto è la notte?“
4/3/2024 https://attac-italia.org/
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