«L’Hiv continua a diffondersi e ha un alto impatto sociale e sanitario»
Il primo dicembre è la giornata mondiale contro l’Aids, questo anno secondo la Lila c’è poco da celebrare e molto da denunciare…
Da celebrare c’è davvero poco in questo primo dicembre. Purtroppo e ovviamente la pandemia di Covid-19 ha creato problemi enormi sia nei paesi industrializzati sia in quelli a risorse limitate, e quindi anche nel nostro paese. L’impatto della pandemia è stato maggiore proprio sulle malattie infettive, basti pensare che l’Aids si cura proprio negli stessi reparti in cui si cura la Covid-19. Questo ha, quindi, generato un cortocircuito rispetto al normale trattamento delle persone con Hiv da ormai più di sei mesi. Abbiamo problemi sia nella cura che nella prevenzione. Per ciò che riguarda la cura, le persone con Hiv hanno visto interrotto il loro rapporto medico paziente: se devono essere ricoverati questo non può più accadere nei reparti di malattie infettive, reparti a loro dedicati.
Ma ci sono anche problemi nella prevenzione, gli accessi ai centri di screening sono molto calati a causa delle restrizioni sulla mobilità e delle nuove procedure per avervi accesso. Sono stati interrotti i già pochi programmi di prevenzione, i pochi ambulatori PrEP (la Profilassi Pre-Esposizione) sono stati chiusi o momentaneamente sospesi. Gli interventi nelle scuole sono stati quasi tutti sospesi a causa della didattica a distanza. E sono stati anche ridotti tutti i programmi rivolti ai gruppi più vulnerabili, per chi usa sostanze stupefacenti, per la riduzione del danno, già abbastanza penalizzati in alcune aree del paese. Quindi questo primo dicembre è fortemente segnato dalla pandemia e ci vede particolarmente preoccupati.
L’agenda Onu, che per il 2030 prevede di sconfiggere l’Aids, per il 2020 stimava
di raggiungere il target “90-90-90”, cioè di rendere consapevoli del
proprio stato sierologico il 90% delle persone con Hiv, assicurando
almeno al 90% di chi si scopre positivo al virus accesso alle cure e al
90% il successo terapeutico. A che punto siamo?
Il target di Unaids 90-90-90 vedeva l’Italia in difficoltà già prima della pandemia. Il terzo 90 era l’unico pienamente raggiunto, infatti il largo accesso alle terapie antiretrovirali sembrava garantire la non rilevabilità della carica virale in più del 90% delle persone che erano entrate in trattamento. Eravamo in difficoltà sul secondo target, cioè che il 90% di persone sieropositive entri in trattamento antiretrovirale. Ma soprattutto eravamo lontani dal raggiungere il target sulla conoscenza riguardo il proprio status di sieropositività.
Nei report annuali dell’Istituto Superiore di Sanità ogni anno viene detto in maniera esplicita che una percentuale molto rilevante di persone a cui viene diagnosticata la presenza dell’Hiv nel proprio organismo nell’anno precedente, al momento della diagnosi si trova con un sistema immunitario già fortemente depauperato o depresso. Di questi tra il 30% e il 40% ha già sviluppato l’Aids, e circa il 60% ha comunque problemi molto importanti. Questi sono definiti late presenter, perché al momento della diagnosi hanno un numero di Cd4 molto basso, questo significa che l’infezione è avvenuta diversi anni prima, ma non era mai stata diagnosticata. Quindi queste persone senza aver coscienza di essere sieropositive, purtroppo, possono aver contribuito senza saperlo alla diffusione ulteriore dell’Hiv.
Nel mondo occidentale, ci dicono diverse ricerche, la maggior parte delle nuove infezioni viene trasmessa da chi non sa di avere l’Hiv. Perché chi sa di avere l’HIV solitamente assume una terapia antiretrovirale che, se è efficace, abbatte la viremia. Queste persone non trasmettono più l’Hiv anche se hanno rapporti sessuali non protetti. Ma purtroppo c’è ancora questo 10% di persone, che noi calcoliamo essere molto più alto nel nostro paese, probabilmente superiore al 20%, che non sa di avere l’Hiv e purtroppo continua a diffonderlo inconsapevolmente. Del resto l’accesso al test nel nostro paese non è semplice e ora con la pandemia è ancora più complicato. Quindi rispetto a questi tre 90, c’è ancora molto da fare.
Se negli anni ’80 e ’90 l’Hiv e l’Aids erano parte della discussione pubblica, oggi non lo sono più…
Esattamente, una volta c’era grande attenzione e oggi purtroppo non è più così. Ad esempio, noi abbiamo due registri, uno per rilevare i nuovi contagi di Aids e uno per i nuovi contagi di HIV: i due registri non comunicano tra loro e, nonostante la Ministra Lorenzin avesse preannunciato di riorganizzare i registri, questo non è mai stato fatto. Inoltre, negli ultimi anni, non è mai più stato rinnovato un contratto tra il CNR e un ente esternalizzato e così non si rileva più il numero di morti per Aids. Questo ci dice molto sul fatto che l’attenzione a questo problema è davvero bassissima.
In realtà, le istituzioni e la politica hanno sempre avuto timore a parlare di Hiv in modo pragmatico, lo hanno sempre fatto con un approccio moralistico e paternalistico e oggi che l’attenzione è scemata la situazione non è per niente buona. Il piano nazionale Aids, che è un ottimo piano, spiega in maniera chiara i problemi che abbiamo nel paese e rileva gli interventi da portare avanti, peccato che non sia finanziato che e le regioni, a loro volta, non mettano denaro per fare tutti gli interventi che dovrebbero essere fatte. Per cui non contiamo i morti, quest’anno ci sono state difficoltà nella raccolta dati, mancano i finanziamenti, è scemata l’attenzione pubblica, ma purtroppo l’Hiv continua a diffondersi e ha un alto impatto sociale e sanitario.
In questi giorni è uscito il documentario Nome di battaglia Lila, dove si spiega molto bene come si sia alimentato lo stigma legato all’Hiv…
In questi quasi quarant’anni sono stati fatti passi da gigante nella ricerca, nella cura, nella prevenzione. Ma non sono state fatti passi così importanti per tutto quello che riguarda il contrasto allo stigma e le discriminazioni, che hanno un impatto fortissimo nella vita delle persone con hiv. Ancora oggi esistono situazioni di discriminazione in ambito sanitario e segnalazioni di ingiusto trattamento in ambito lavorativo.
Se le persone dicono, o sono costrette a dire di avere l’Hiv, l’atteggiamento sociale intorno a loro cambia, non si ha accesso al mondo del credito, alle assicurazioni e talvolta lo stigma è ancora presente in ambito familiare. Questo perché le istituzioni italiane non sono mai state in grado di dare messaggi chiari sull’Hiv. L’anno scorso, proprio di questi tempi, è stata tenuta la conferenza “UequalsU”. Al centro della conferenza vi era questo importante principio U=U (Undetectable=Untrasmittable), cioè l’evidenza scientifica secondo la quale una persona con HIV in terapia efficace, con viremia non rilevabile, non trasmette il virus. Questa conferenza si è tenuta esclusivamente perché le associazioni l’hanno reclamata e hanno costretto la comunità scientifica a fare questo passo, mentre le istituzioni italiane titubavano.
Spiegare invece questa nuova evidenza scientifica contribuirebbe tantissimo a far diminuire lo stigma nei confronti delle persone con Hiv. Perché la paura era giustificata e giusta negli anni ’90, dove le persone con Hiv si percepivano e venivano percepite come dei potenziali rischi per la salute di altri. Ma oggi le persone che sanno di avere l’Hiv e sono in cura non sono un problema per nessuno, neanche per un collega di lavoro che deve soccorrerli ed entrare a contatto con il loro sangue, tantomeno per i loro partner sessuali. Sono la paura e l’ignoranza che generano stigma, diffondere questa informazione contribuirebbe ad abbassare lo stigma, però questo in Italia non avviene.
Nel documentario vengono raccontate le lotte delle persone con HIV, cosa possiamo imparare da quelle lotte per questa pandemia globale?
La prima cosa è sicuramente l’accesso universale al vaccino quando ci sarà. Uno dei nodi centrali per l’Hiv è stato, ed è ancora, l’accesso alle terapie. Oggi soltanto 25 milioni dei 34 milioni di persone che vivono con Hiv ha accesso alle terapie antiretrovirali e di quei 25 milioni, tra l’80% e il 90% accede a farmaci generici o a programmi caritatevoli. Il problema dell’accesso ai vaccini è un parallelo fortissimo e drammatico e in questo senso dalla pandemia di Hiv si è imparato davvero troppo poco, o meglio si sono comprese una serie di cose, ma poi le politiche mondiali dei brevetti, degli stati, delle agenzie regolatorie non tengono conto di quello che accade. Le politiche sul farmaco, vaccini e sanità, dovrebbero essere ripensate.
Vanessa Bilancetti
1/12/2020 https://www.dinamopress.it
Immagine di copertina della campagna Positive Series
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