Liberiamoci della schiavitù

Sono uomini e donne, spesso stranieri, a volte anche minorenni, impiegati nelle campagne italiane nella raccolta dell’ortofrutta che poi arriva, con la complicità della grande distribuzione organizzata e della logistica, sulle tavole di milioni di consumatori in tutto il mondo. Sono persone a cui spesso viene negata la dignità, sono sottoposte alla violazione dei diritti umani e a forme così gravi di sfruttamento da ricordare la schiavitù. Perché in questo mondo, oggi, esiste ancora la schiavitù. Schiavi in Occidente, in Italia, spesso a pochi chilometri da dove abitiamo, nel silenzio omertoso e conveniente, colpevole e irresponsabile di molti.

Non si tratta di situazioni circoscritte ai “soliti” territori del Sud. É un sistema strutturato che riguarda tutto il Paese e che vede tra i protagonisti padroni italiani, caporali spesso stranieri e mafiosi vari. Secondo l’Eurispes, il volume d’affari complessivo annuale delle agromafie è salito, in Italia, a 24,5 miliardi di euro, con un balzo del 12,4% nell’ultimo anno. Una crescita che non ha risentito della stagnazione dell’economia mondiale, e che è immune, come ancora afferma l’Eurispes, alle barriere sulla circolazione delle merci e dei capitali. Secondo la Flai-Cgil, ogni anno in Italia circa 430mila persone vivono, solo in agricoltura, condizioni di sfruttamento lavorativo, circa 130mila di loro sono in condizioni di grave sfruttamento lavorativo, ossia in condizioni paraschiavistiche. Urmila Bhoola, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle forme contemporanee di schiavitù, denuncia la presenza, in Italia, di lavoratori e lavoratrici a rischio “lavoro forzato o a condizioni simili alla schiavitù”.

Il 22 maggio scorso, a firma di Antonio Mira, su Avvenire, si riportano le storie di alcune braccianti indiane che nel Pontino, ad appena cento chilometri dalla Capitale, oltre ad essere sfruttate sono state oggetto di ricatti sessuali da parte del padrone italiano. Erano obbligate ad accettare palpeggiamenti e richieste sessuali in cambio del contratto di lavoro o dei salari arretrati ancora non riconosciuti. A volte le braccianti venivano costrette o condotte verso l’aborto, anche per le gravi fatiche alle quali erano obbligate. Obbligate ad obbedire, pena il licenziamento, la violenza, lo stigma sociale, il mancato rinnovo del contratto di lavoro. Tutto denunciato e poi, proprio per quei ricatti e minacce, le braccianti erano costrette a ritirarle per continuare a lavorare “tranquille”.

Foto tratta da meltingpot.org

Proprio in provincia di Latina ci sono circa 25mila indiani costretti a varie forme di sfruttamento lavorativo che solo chi è poco informato può definire “lavoro grigio”. Le variabili economica e contrattuale sono solo due dei molti aspetti che caratterizzano la vita del lavoratore migrante sfruttato, a cui si somma ad esempio la conoscenza della lingua, l’organizzazione sociale e istituzionale del Paese di accoglienza, il debito che matura se vittima di tratta internazionale o in ragione delle sua strutturale condizione di povertà, le varie forme di violenza, compresa quella burocratico-istituzionale, che ne condiziona l’esistenza e le modalità varie assai articolate di truffa a loro danno. In definitiva, sono uomini e donne, spesso anche minorenni, indiani ma sempre più anche bangladesi, africani, rumeni che vivono e lavorano in un territorio già contaminato da mafie di ogni genere.

Nel pontino questo sistema criminale si chiama “Quinta Mafia” (La Quinta Mafia, ed. RadiciFuture) e si fonda sulla complicità funzionale tra diversi clan (casalesi, cupola siciliana, camorre, ‘ndrangheta) che in associazione con criminali locali (Ciarelli, Di Silvio, ad esempio) e con alcune organizzazioni criminali straniere (indiane, rumene, bangladesi), con la complicità di pezzi delle istituzioni, dell’impresa e delle libere professioni, organizzano e gestiscono un “sistema” mafioso dominante e nascosto. I braccianti indiani lavorano anche 14 ore al giorno e sono obbligati a chiamare padrone il loro datore di lavoro. Alcuni sono impiegati anche 28 giorni al mese per ritrovarsi solo 4 giornate in busta paga. Un complesso di truffe reso possibile dalla complicità di commercialisti, avvocati, notai, consulenti del lavoro e impiegati pubblici e molti altri burocrati della schiavitù consapevoli di essere fondamentali coi loro servizi e competenze per il sistema padronali e mafioso locale. A volte i braccianti indiani sono indotti ad assumere sostanza dopanti, come denunciato da In Migrazione con il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi”, come metanfetamine, oppio e antispastici per sopportare le fatiche alle quali sono obbligati. Nei casi più estremi come unica occasione per uscire da questo inferno, si suicidano impiccandosi nelle serre pontine.

Foto Marco Omizzolo

Intanto il governo italiano pensa di riscrivere, in peggio, le norme contro lo sfruttamento, in piena coerenza con la sua cultura neoliberista. In particolare Salvini e Centinaio, i cavalieri del capitalismo padronale italiano, vogliono riscrivere la legge contro il caporalato (legge 199/2016) proprio sulla spinta di poteri datoriali-padronali. Questo significa tutelare il potere dei padroni e dei padrini e condannare migliaia di lavoratori e lavoratrici alla violenza di un capitalismo criminale che schiaccia, mortifica, consuma l’uomo fino a farlo diventare braccia al suo servizio. “Se questo è un uomo” scrivere Primo Levi. Io mi chiedo se noi siamo uomini nel momento in cui sapendo di questi processi e condizioni restiamo in silenzio, guardiamo dall’altra parte, per paura, convenienza, pigrizia o altro. Intanto, per contrastare questa deriva, la Flai Cgil e In Migrazione, il 18 aprile del 2016, hanno organizzato a Latina uno sciopero che ha consentito a oltre 4mila braccianti indiani di chiedere il rispetto dei loro diritti umani, contrattuali e civili. Una manifestazione che ha dato a molti di loro il coraggio della denuncia contro caporali e padroni. Un grande esempio di lotta per la democrazia e non solo per il rispetto dei diritti di alcuni.

Un grande investimento di civiltà per liberare l’Italia da sfruttatori, caporali e mafiosi. Oggi per non essere complici, più di ieri, si deve partecipare, come partigiani del nuovo secolo, contro questo sistema di padroni e padrini, comprendendo la lotta contro la grande distribuzione organizzata, la logistica e i mercati ortofrutticoli in mano a mafie e incapaci (come ben argomentato nel libro “Caporalato. An authentic Agrumafia”, di Fiammetta Fanizza, co-autrice, per Memesis ed), maturando una consapevolezza anche politica, per un orizzonte di libertà e democrazia rinnovato. In alternativa solo le catene del potere criminale divenuto istituzionale. Rompere quelle catene è davvero una battaglia per la democrazia.

Marco Omizzolo

27/5/2019 https://comune-info.net

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