LILA – CROI 2024
LILA Onlus – Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS, in collaborazione con NAM, è lieta di fornirti la copertura scientifica ufficiale on-line della XXXI Conferenza sui Retrovirus ed Infezioni Opportunistiche (CROI 2024), che si è tenuta a Denver, USA, dal 3 al 6 marzo 2024.
PRIMO BOLLETTINO
San Francisco, IST in calo dopo l’introduzione della doxyPEP
I risultati sono stati presentati alla 31° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2024) in corso questa settimana a Denver, Stati Uniti.
Lo studio DoxyPEP ha arruolato oltre 500 uomini omo- e bisessuali e donne transgender con infezione da HIV o in trattamento con la PrEP a San Francisco e Seattle. La fase randomizzata è stata interrotta anticipatamente per via dell’elevata efficacia dimostrata dalla doxyPEP contro clamidia e sifilide: tutti i partecipanti sono stati informati dei risultati e hanno avuto la possibilità di continuare ad assumere la doxyPEP in aperto.
La prof.ssa Annie Luetkemeyer della University of California San Francisco ha riferito che, durante la fase randomizzata, solo il 12% dei partecipanti nel braccio di intervento con la doxyPEP aveva contratto un’IST, contro il 31% di quelli del braccio di controllo con trattamento standard. Nell’estensione in aperto, quando tutti i partecipanti assumevano la doxyPEP, i tassi di IST nei due bracci si sono attestati rispettivamente al 13% e 17%. Nel braccio di controllo si è osservato dunque un drastico calo dell’incidenza, e questo malgrado il fatto che nel breve termine fosse raddoppiato il numero di partner sessuali e di rapporti non protetti riferiti dai partecipanti.
Nell’ottobre 2022, San Francisco è stata la prima città a raccomandare la doxyPEP, per uomini omo- e bisessuali e per persone transgender.
Il dott. Hyman Scott ha riferito sui primi risultati ottenuti al centro di salute sessuale Magnet della San Francisco AIDS Foundation, dove dalla fine di novembre 2022 è stata offerta la doxyPEP a circa 3.000 persone in trattamento con la PrEP. Tra coloro che hanno iniziato ad assumere la doxyPEP, l’incidenza complessiva delle IST è scesa dal 18% all’8%, pari a una riduzione del 58%. Il calo è stato più netto per clamidia (67%) e sifilide precoce (78%), mentre per la gonorrea è stato solo dell’11%, un dato non statisticamente significativo.
Il dott. Oliver Bacon e colleghi hanno invece presentato i primi dati ottenuti al City Clinic, il principale centro di salute sessuale di San Francisco. Gli studiosi hanno confrontato i dati relativi all’incidenza delle IST prima (da novembre 2021 a novembre 2022) e dopo (da novembre 2022 a novembre 2023) l’emanazione delle linee guida sulla doxyPEP. Hanno deciso di assumere la doxyPEP numerosi uomini omosessuali e donne transgender in trattamento con la PrEP, e in queste persone si è osservata “una significativa riduzione della positività a clamidia e sifilide precoce”: i test positivi alla clamidia sono infatti diminuiti del 90% e quelli positivi alla sifilide precoce del 56%.
L’epidemiologa Madeline Sankaran e colleghi hanno invece misurato l’impatto della doxyPEP in modo diverso, osservando cioè l’andamento dell’incidenza delle IST a livello di popolazione. I ricercatori hanno monitorato il numero di persone che iniziavano ad assumere la doxyPEP in tre grandi centri per la salute sessuale – il Magnet, il City Clinic e il Ward 86 del San Francisco General Hospital – assieme ai casi mensili di clamidia, gonorrea e sifilide precoce rilevati prima (da luglio 2021 a ottobre 2022) e dopo (da novembre 2022 a novembre 2023) l’emanazione delle linee guida.
Oltre 3700 uomini che hanno rapporti sessuali con uomini e donne transgender in carico presso questi tre centri hanno iniziato ad assumere la doxyPEP entro la fine del 2023. I casi di clamidia in questa popolazione, nella città, sono diminuiti del 7% al mese, per un calo totale del 50% rispetto ai livelli previsti. Quelli di sifilide precoce sono scesi del 3% al mese, per un calo totale del 51%. I casi di gonorrea non hanno invece subito variazioni significative.
Considerati nel loro complesso, questi studi forniscono una significativa mole di prove scientifiche a sostegno della validità della doxyPEP come strumento per ridurre i nuovi casi di clamidia e sifilide – anche se contro la gonorrea è molto meno efficace, forse addirittura per nulla.
“A chi si occupa di salute pubblica non capita spesso di vedere un allineamento così armonico tra risultati ottenuti dalla sorveglianza a livello di popolazione, dai centri clinici e dalle sperimentazioni”, ha commentato il prof. Landon Myer dell’Università di Città del Capo, presidente del CROI. “Questo, a mio modo di vedere, chiude il caso”.
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Il trattamento iniettabile per l’HIV si mostra efficace quanto quello standard in uno studio africano
Si tratta del primo studio sull’impiego di soluzioni terapeutiche iniettabili in persone con infezione da HIV in Africa. Il regime sperimentato – composto dall’inibitore dell’integrasi cabotegravir e dall’inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa (NNRTI) rilpivirina – è già approvato in Europa, Nord America e Australia. Il trattamento viene somministrato tramite iniezione intramuscolare una volta ogni due mesi.
Prima di inserire l’opzione del trattamento iniettabile nei programmi di trattamento dell’HIV, occorre dare tutta una serie di risposte in merito alla sua efficacia. Le persone con infezione da HIV in Africa hanno infatti maggiori probabilità di aver già assunto un NNRTI in passato o di avere una resistenza ai farmaci pre-trattamento, il che potrebbe compromettere l’efficacia della rilpivirina. È poi noto che almeno un sottotipo di HIV (l’A6) è meno suscettibile al regime iniettabile, e nelle popolazioni africane sono presenti diversi sottotipi di HIV, soprattutto l’A1. Eventuali differenze nella distribuzione del grasso corporeo, infine, possono influenzare l’assorbimento dei farmaci iniettati nel muscolo gluteo.
Lo studio CARES ha testato la somministrazione di cabotegravir e rilpivirina a lunga durata d’azione in Africa reclutando 512 adulti con HIV in soppressione virale da almeno quattro mesi con terapia antiretrovirale. Lo studio è stato disegnato per testare un programma che fosse pratico e realisticamente attuabile nelle strutture sanitarie pubbliche del continente: ad esempio, non sono previsti test di resistenza di routine. I partecipanti sono stati reclutati in Kenya (162), Sudafrica (106) e Uganda (244).
I pazienti sono stati randomizzati per ricevere un trattamento iniettabile con cabotegravir e rilpivirina ogni otto settimane oppure il trattamento standard ad assunzione orale offerto nei paesi partecipanti (tenofovir disoproxil, lamivudina e dolutegravir, efavirenz o nevirapina).
La popolazione dello studio era composta per il 57% da donne, con età mediana di 42 anni. Circa un partecipante su cinque (il 21%) aveva un indice di massa corporea pari o superiore a 30, il che rappresenta un potenziale rischio che il farmaco non venga assorbito in modo ottimale; il 74% dei partecipanti, infine, aveva già assunto un NNRTI in passato.
Dallo studio è emerso che il trattamento iniettabile con cabotegravir e rilpivirina si mantiene efficace nelle persone con sottotipo A1.
Alla 48° settimana si sono osservate percentuali quasi identiche di partecipanti con carica virale inferiore a 50 nei due bracci di studio: il 96,9% nel braccio di intervento con trattamento iniettabile, e il 97,3% nel braccio di controllo con terapia standard.
I risultati di CARES rappresentano un “primo, fondamentale passo per avviare la discussione sul trattamento iniettabile con cabotegravir e rilpivirina”, ha dichiarato Paton, “ma c’è ancora molta strada da fare prima che questo si traduca in una raccomandazione di salute pubblica [da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità]”.
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L’analisi finale di uno studio francese sulle IST spegne la speranza intorno a un vaccino contro la gonorrea
Un anno fa, i risultati intermedi dello studio DoxyVAC avevano fatto sperare che la combinazione della doxyPEP con un candidato vaccino contro la gonorrea potesse ridurre in modo significativo i casi delle tre più importanti IST di natura batterica tra uomini omo- e bisessuali.
L’analisi finale dello studio, presentata a CROI 2024 dal prof. Jean-Michel Molina dell’Hôpital St Louis di Parigi, ha però evidenziato una minore efficacia contro la gonorrea sia nei partecipanti che assumevano la doxyPEP che in quelli che assumevano il vaccino, oltre che un aumento della resistenza alla doxiciclina nei partecipanti trattati con la doxyPEP che avevano contratto la gonorrea. Sembrerebbe dunque che l’utilità di questi farmaci preventivi contro la gonorrea sia limitata.
Conducendo l’analisi finale, gli studiosi hanno individuato delle discrepanze rispetto ai risultati intermedi, con alcune infezioni da gonorrea omesse. Inoltre, per l’analisi finale sono stati considerati 545 partecipanti (anziché 502) e fino a 21 mesi di follow-up, contro i 12 dell’analisi intermedia.
La popolazione dello studio era composta in gran parte da maschi omosessuali, di nazionalità principalmente francese, con età media di 40 anni. I partecipanti dovevano già essere in trattamento con la PrEP per l’HIV: in media, la assumevano da quasi tre anni. Nell’anno precedente all’arruolamento nello studio, i loro tassi di IST erano elevati: il 68% aveva avuto la gonorrea, il 49% la clamidia e il 21% la sifilide.
L’efficacia della doxyPEP contro la clamidia e la sifilide è rimasta pressoché invariata nell’analisi finale. L’incidenza annuale della clamidia è stata del 42% nei partecipanti che non assumevano la doxyPEP e del 6% in quelli che la assumevano, per un’efficacia dell’86%; l’analisi intermedia aveva invece evidenziato un’efficacia dell’89%. Anche per quanto riguarda la sifilide l’efficacia è stata la stessa, del 79%, sia nell’analisi intermedia che in quella finale. In altre parole, la doxyPEP ha prevenuto quattro su cinque infezioni da sifilide che si sarebbero altrimenti verificate, e quasi nove infezioni da clamidia su dieci.
Quanto alla gonorrea, invece, l’analisi intermedia aveva effettivamente rilevato un’incidenza annuale di gonorrea del 41% nei partecipanti che non assumevano la doxyPEP contro il 20,5% di quelli che l’assumevano, per un’efficacia pari al 51%. Sono però state le infezioni successive a fare la differenza. Nell’analisi finale, l’incidenza della gonorrea è risultata del 68% nel braccio senza la doxyPEP e del 45,5% in quello con la doxyPEP: l’efficacia è dunque scesa al 33%.
Anche l’efficacia del candidato vaccino contro la gonorrea nell’analisi finale è risultata notevolmente inferiore rispetto all’analisi intermedia, passando dal 33% al 22%.
Molina ha sottolineato che i ricercatori hanno scelto il verificarsi dell’infezione da gonorrea come outcome in base al quale giudicare l’efficacia del vaccino. Resta plausibile che il vaccino sia più efficace nel ridurre la gravità della malattia, e se l’outcome prescelto fosse invece stato la gravità dei sintomi, i risultati avrebbero potuto essere più positivi.
“Anche se non si può escludere che un modesto beneficio ci sia, la sua rilevanza clinica sembra molto limitata”, ha aggiunto il professore. È necessario un vaccino più efficace, e sono già stati avviati studi su un altro candidato vaccino.
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Occorre poter passare più agevolmente dalla PEP alla PrEP – e viceversa
Anche se il numero di persone che richiedono la PEP resta complessivamente limitato, negli ultimi anni accade spesso che chi chiede farmaci post-esposizione prima aveva assunto la PrEP; per un motivo o per l’altro, però, non era riuscito a farlo con la dovuta costanza, e per questo si trova a ricorrere a una misura di emergenza. Al contempo, è probabile che molte persone a cui è stata prescritta la PEP abbiano nuovamente bisogno di protezione nelle settimane e nei mesi successivi.
La dott.ssa Mary Tanner dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC) ha denunciato una mancanza di dialogo tra servizi PEP e PrEP negli Stati Uniti.
Durante il primo decennio successivo alla sua introduzione (dal 2013), l’adesione alla PrEP è cresciuta costantemente, da zero a circa 450.000 nel 2022. Nello stesso lasso di tempo, invece, l’impiego della PEP è rimasto praticamente invariato: ogni anno sono state effettuate tra le 14.000 e le 18.000 prescrizioni.
La dott.ssa Tanner ha detto ad aidsmap che la PEP e la PrEP fanno parte di un continuum unico, e che chi sceglie un metodo deve anche essere informato sull’altro.
Nel Regno Unito le linee guida raccomandano un’agevole transizione dalla PEP alla PrEP. Il dott. Gary Whitlock, del centro londinese 56 Dean Street, ha parlato del lavoro suo e dei suoi collaboratori per garantire il rispetto della raccomandazione. 56 Dean Street è un centro per la salute sessuale che eroga un quarto di tutte le prescrizioni di PEP e un terzo di tutte le prescrizioni di PrEP in Inghilterra.
Dal gennaio 2021, a tutti coloro che ricevono la PEP presso il centro viene offerta una fornitura di farmaci PrEP sufficienti per un mese, senza impegno ad accettare, da iniziare una volta completati i 28 giorni del ciclo di PEP.
Nei mesi di marzo e aprile 2022, 56 Dean Street ha prescritto la PEP a 282 uomini omo- e bisessuali e a 6 donne transgender. Poco meno della metà assumevano anche la PrEP o l’avevano assunta in passato. Tre quarti delle persone a cui è stata prescritta la PEP hanno accettato l’offerta della PrEP e oltre la metà è si è successivamente ripresentata al centro per farsi prescrivere altri farmaci per la profilassi pre-esposizione. Secondo Whitlock, l’offerta della PrEP apre a una discussione più ampia sulle opzioni disponibili per la prevenzione dell’HIV, consentendo per esempio di verificare se chi la assume o l’ha assunta in passato sappia farlo correttamente.
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SECONDO BOLLETTINO
Nuovi antiretrovirali a monosomministrazione settimanale all’orizzonte
I nuovi principi attivi sono già stati sottoposti a studi di fase 1, con cui si definisce il dosaggio appropriato e si identificano eventuali effetti collaterali gravi. Le successive fasi di sperimentazione, con cui si verificano efficacia, dosaggio e sicurezza di un nuovo farmaco, richiederanno dai tre ai cinque anni per essere portate a termine. I farmaci presentati questa settimana non saranno dunque disponibili nel prossimo futuro, ma sono indicativi della direzione in cui si sta muovendo il mercato degli antiretrovirali: dosaggi meno frequenti, sia per il trattamento che per la PrEP.
Il primo, MK-8527, è un nuovo inibitore nucleosidico della trascrittasi inversa che la casa farmaceutica Merck sta mettendo a punto come farmaco da assumere una sola volta alla settimana per il trattamento dell’HIV e una volta al mese per la PrEP.
Sono stati condotti due studi di sicurezza ed efficacia di fase 1 su 37 persone con infezione da HIV che non avevano mai assunto la terapia antiretrovirale (ART), testando l’efficacia virologica del farmaco in cinque diverse dosi (0,25 mg, 0,5 mg, 1 mg, 3 mg o 10 mg) a sette giorni dalla somministrazione di una singola dose.
Sono state osservate riduzioni della carica virale nell’ordine di:
- -0.80log con la dose da 0.25mg;
- -1.39log con 0.5mg;
- -1.21log con 1mg;
- -1.66log con 3mg;
- -1.39log con 10mg.
Altri due studi condotti su persone HIV-negative hanno invece testato la farmacocinetica di MK-8527 con somministrazioni singole e multiple. Gli eventi avversi correlati al farmaco sono stati lievi o moderati.
Nel primo studio, 34 persone hanno ricevuto somministrazioni singole a dosaggio crescente da 0,5 mg a 200 mg. Con dosi pari o superiori a 5 mg si sono ottenute concentrazioni di farmaco superiori alla soglia di attività antivirale contro l’HIV-1 di fenotipo selvaggio (wild-type). Nell’altro, quattro gruppi di otto persone hanno ricevuto tre somministrazioni di MK-8527 a intervalli di una settimana oppure un placebo; ai tre gruppi di intervento è stata assegnata una dose diversa, da 5 mg a 40 mg. Dopo la terza somministrazione, l’emivita di MK-8527 variava dalle 216 alle 291 ore a seconda della dose, il che ha portato gli autori dello studio a concludere che il suo profilo farmacocinetico consente la monosomministrazione settimanale, e forse anche a intervalli più lunghi.
Il secondo antiretrovirale, GS-1720, è un inibitore dell’integrasi attualmente allo studio presso i laboratori di Gilead Sciences, anch’esso da assumersi per via orale una sola volta alla settimana.
In uno studio di fase 1a sono stati testati dosaggi crescenti fino a 1350 mg in otto persone negative all’HIV per determinarne tollerabilità ed emivita farmacocinetica. Dopo una singola somministrazione di 450 mg, il tempo mediano impiegato dalle concentrazioni di farmaco per dimezzarsi è stato di 9,4 giorni, il che depone a favore della monosomministrazione settimanale.
Uno studio di fase 1b ha invece testato quattro diversi dosaggi di GS-1720 (30 mg, 150 mg, 450 mg e 900 mg) per verificarne sicurezza e attività antivirale in persone HIV-positive. Ogni dosaggio è stato testato su sette partecipanti.
All’11° giorno, si sono osservate riduzioni della carica virale nell’ordine di:
- -1.74log con la dose da 30mg;
- -2.18log con 150mg;
- -2.44log con 450mg;
- -2.37log con 900mg.
In tutti i partecipanti che hanno ricevuto dosi di 450 mg o 900 mg, la riduzione della carica virale è stata di almeno -1,5 log. Non sono stati segnalati eventi avversi gravi (di grado 3 o superiore) correlati al farmaco.
Sempre a CROI 2024 saranno più avanti presentati i risultati ottenuti con una duplice terapia a somministrazione settimanale che è lievemente più avanti nell’iter di sperimentazione clinica. Si tratta di un piccolo studio di fase II che ha testato l’assunzione di islatravir e lenacapavir in compresse ogni sette giorni.
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Diagnosi di HIV in calo negli stati USA con elevata copertura PrEP
Da quando è stata per la prima volta approvata nel 2012, il ricorso alla PrEP (farmaci assunti regolarmente per prevenire l’infezione da HIV) è stabilmente aumentato negli Stati Uniti: si stima che nel 2022 l’abbiano assunta 363.957 persone. A livello di popolazione, l’impatto maggiore si ha quando la PrEP viene prescritta e portata avanti con costanza da chi ne ha più bisogno, come gli uomini omo- e bisessuali che hanno rapporti non protetti.
Sullivan e colleghi hanno esaminato i dati relativi alle prescrizioni di PrEP e quelli provenienti dal monitoraggio delle dispensazioni in farmacia negli Stati Uniti dal 2012 al 2021. I ricercatori hanno preso in considerazione la percentuale di persone che assumevano la PrEP su ogni 100 che corrispondevano alle indicazioni dei Centers for Disease Control and Prevention (CDC), fornendo una stima della copertura della PrEP in rapporto al bisogno.
Per ogni stato, gli studiosi hanno esaminato le variazioni nelle percentuali annuali dei tassi di diagnosi di HIV e le hanno confrontate con i dati relativi alla copertura della PrEP.
In alcune aree, come quella di Washington DC, è stato osservato un forte calo percentuale nella variazione annuale stimata delle diagnosi di HIV tra il 2012 e il 2021 (-12%); in altre però si è verificato un aumento, per esempio in West Virginia (+11%).
La copertura media della PrEP variava da un minimo del 4% in West Virginia a un massimo del 22% nello stato di New York. Negli stati con livelli più elevati di copertura rispetto alle indicazioni per la PrEP, i tassi di diagnosi di HIV sono diminuiti; in quelli con i livelli più bassi, invece, è possibile che ci siano stati lievi aumenti.
Sebbene questo tipo di analisi non possa provare un nesso di causalità, secondo Sullivan fornisce forti evidenze di quella che è nota come “relazione dose-risposta”: quando la copertura della PrEP aumenta tra coloro che ne hanno maggiormente bisogno, i tassi di diagnosi di HIV si riducono costantemente. È importante sottolineare che questa relazione è stata osservata indipendentemente dai tassi di soppressione virale.
Anche negli Stati in cui la copertura è elevata, i programmi di sussidio per l’acquisto dei farmaci e l’espansione del programma federale di assicurazione sanitaria Medicaid a livello statale restano fattori cruciali per garantire l’accesso alla PrEP.
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La variabilità della distribuzione del dolutegravir potrebbe influire sulla sua capacità di sopprimere i reservoir HIV
I campioni di tessuto esaminati sono stati raccolti da persone con infezione da HIV in fin di vita che avevano acconsentito a donarli post-mortem.
L’analisi della distribuzione dei farmaci serve a valutare la capacità di un farmaco di raggiungere i siti di destinazione nell’organismo. Nel caso dell’HIV, la distribuzione è buona quando il farmaco raggiunge una concentrazione ottimale nei tessuti immunitari e nei reservoir virali.
Tutti e sei i donatori erano in trattamento con un regime antiretrovirale a base di dolutegravir. I campioni sono stati raccolti e analizzati entro sei ore dal decesso: sono stati ricavati 22 campioni di tessuto da diversi siti corporei di ciascun paziente.
Il sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale) è separato dal resto del corpo dalla cosiddetta barriera emato-encefalica, che rappresenta un ostacolo per molti farmaci. Lo studio ha evidenziato che le concentrazioni farmacologiche nel cervello e nel midollo spinale erano più basse rispetto ad altri siti corporei, ma nelle diverse parti del cervello erano distribuite uniformemente. Nell’intestino e nella milza, componenti essenziali del sistema immunitario, le concentrazioni sono risultate elevate.
Sebbene dolutegravir sia in sé un efficace soppressore dell’HIV, se le sue concentrazioni variano da una persona all’altra questo può influire sulla sua capacità di raggiungere e sopprimere il virus nel reservoir del sistema nervoso centrale. Si tratta di un piccolo studio, ma l’analisi condotta sembra dimostrare che le concentrazioni tissutali del farmaco varino notevolmente da individuo a individuo.
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Se un anticorpo è inefficace, perché non provare con tre?
I bnAbs sono al centro della ricerca sul trattamento e la prevenzione dell’HIV da circa 15 anni. Si tratta di molecole proteiche in grado di eliminare i virus, neutralizzandoli: l’HIV però si è finora dimostrato troppo veloce per loro, muta e sviluppa farmacoresistenze. Così la ricerca sui bnAbs si è concentrata sul trovare un modo per introdurli prima, quando sono ancora efficaci contro l’HIV. Le singole molecole possono poi ingenerare farmacoresistenze, da cui l’ipotesi che possa essere più efficace impiegare una combinazione di tre bnAbs.
Nell’ultimo studio, il dott. Boris Juelg e i suoi colleghi del Ragon Institute del Massachusetts hanno preso in considerazione 12 persone con infezione da HIV che hanno interrotto la terapia antiretrovirale (ART) per ricevere una triplice combinazione di bnAbs per via endovenosa ogni quattro settimane, fino alla 20° settimana. I partecipanti sono stati poi monitorati per almeno altre 20 settimane e, se la loro carica virale tornava a superare quota 1000, ricominciavano ad assumere ART.
Di fronte a questi dati e ai risultati talora deludenti di altri studi sui bnAbs, sono state mosse critiche da parte di alcuni dei presenti alla Conferenza. La dott.ssa Laura Waters, del Regno Unito, ha contestato il lavoro sul piano dell’etica, per non aver testato preliminarmente i partecipanti per verificare la presenza di resistenze pre-esistenti. L’attivista ugandese Moses Supercharger ha messo in dubbio la fattibilità di un trattamento che richiederebbe la refrigerazione e costosi test di efficacia che non sono disponibili in molte parti dell’Africa. Anche il dott. Ricky Hsu dell’AIDS Healthcare Foundation di New York ha espresso perplessità circa il dispendio di risorse investite nei bnAbs, vista la necessità di test costosi.
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Anticorpi monoclonali neutralizzati e antiretrovirali a lunga durata d’azione potrebbero fare il paio
Il prof. Joseph Eron della University of North Carolina di Chapel Hill ha presentato i risultati di uno studio di fase 1b su lenacapavir più teropavimab e zinlirvimab, due anticorpi attualmente allo studio presso Gilead Sciences.
Il lenacapavir è un inibitore del capside dell’HIV approvato per trattare pazienti con fallimenti terapeutici alle spalle e con ceppi virali multiresistenti. Viene somministrato per via iniettiva una volta ogni sei mesi. Entrambi i bnAbs sono stati modificati per prolungarne l’emivita e consentire una somministrazione meno frequente.
All’inizio della sperimentazione, dopo aver interrotto il regime antiretrovirale che stavano assumendo, tutti e 20 i partecipanti hanno ricevuto una somministrazione di lenacapavir per via orale, due iniezioni sottocutanee di lenacapavir e un’infusione endovenosa di teropavimab (30mg/kg). Sono poi stati randomizzati per ricevere infusioni di zinlirvimab da 10mg/kg oppure da 30mg/kg.
Alla Conferenza sono stati presentati i primi risultati di questo studio. Lenacapavir, teropavimab e zinlirvimab si sono mantenuti ben al di sopra dei livelli terapeutici, e il 90% dei partecipanti in entrambi i gruppi di dosaggio hanno mantenuto la soppressione virale per sei mesi. Il trattamento si è dimostrato sicuro e generalmente ben tollerato.
Condizione per la partecipazione allo studio era avere un ceppo virale sensibile sia a teropavimab che a zinlirvimab: oltre la metà dei potenziali partecipanti è stata esclusa per questo motivo. È stato avviato un nuovo studio che ha arruolato 11 persone con sensibilità al teropavimab o allo zinlirvimab, ma non a entrambi.
Una persona è stata esclusa perché risultata affetta da epatite B. Dieci partecipanti sono stati randomizzati per ricevere gli stessi due regimi. Alla 26° settimana, hanno ripreso la loro terapia antiretrovirale precedente. A quel punto, otto su dieci avevano mantenuto la soppressione virale. Nei due gruppi di dosaggio di zinlirvimab, però, si sono ottenute risposte diverse: solo due persone delle quattro che avevano ricevuto il dosaggio più basso avevano ancora carica virale non rilevabile, mentre tutte e sei quelle trattate con dosaggio più alto l’avevano mantenuta. Il trattamento è risultato ben tollerato.
Uno dei partecipanti del gruppo con dosaggio più basso, sensibile a teropavimab, ha avuto una diagnosi di COVID in coincidenza con il rebound virale e ha raggiunto nuovamente la soppressione virale dopo aver ricominciato ad assumere la ART orale. L’altro era sensibile a zinlirvimab e ha continuato ad avere una carica virale bassa ma rilevabile anche dopo la ripresa del trattamento orale. Non sono invece emerse resistenze nel corso del trattamento.
Tutti i partecipanti del gruppo con il dosaggio più elevato di zinlirvimab hanno mantenuto la soppressione virale per sei mesi: questo fa pensare che “potrebbero essere appropriati criteri di sensibilità ai bnAbs più inclusivi per gli studi sul trattamento con [la combinazione lenacapavir+teropavimab+zinlirvimab] quando si riescono a mantenere concentrazioni di bnAbs più elevate”, hanno concluso i ricercatori.
La combinazione verrà ora sottoposta a uno studio di fase II.
Nel secondo studio (di fase II), il prof. Babafemi Taiwo della Northwestern University di Chicago e i suoi colleghi hanno valutato sicurezza ed efficacia della combinazione di cabotegravir a lunga durata d’azione più un bnAb noto come VRC07-523LS. Il farmaco è stato inoltre modificato per aumentarne la durabilità, ossia la persistenza nel tempo della sua efficacia.
Nella prima fase dello studio, i partecipanti hanno assunto cabotegravir orale più due NRTI per quattro settimane. Quelli che mantenevano la soppressione virale passavano alla seconda fase, in cui ricevevano un’iniezione di cabotegravir a lunga durata d’azione ogni quattro settimane e un’infusione di 40mg/kg di VRC07-523LS ogni otto settimane. Dopo 48 settimane, ricominciavano ad assumere un regime orale standard. In totale hanno iniziato la seconda fase 71 partecipanti, e l’hanno completata in 60.
Tutti i partecipanti tranne cinque hanno mantenuto la soppressione virale alla 48° settimana. Il trattamento è risultato generalmente sicuro e ben tollerato.
La combinazione di un singolo bnAb a lunga durata d’azione con il cabotegravir iniettabile “ha mostrato potenziale nel mantenere soppressa la carica virale dell’HIV-1, ma serve maggiore comprensione dei meccanismi alla base di queste risultanze”, hanno concluso i ricercatori.
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TERZO BOLLETTINO
La somministrazione precoce di antiretrovirali nei neonati potrebbe in alcuni casi mantenere soppresso l’HIV dopo l’interruzione del trattamento
Secondo i risultati di uno studio presentato questa settimana alla 31° Conferenza su Retrovirus e Infezioni Opportunistiche (CROI 2024) in corso a Denver, Stati Uniti, una piccola percentuale di neonati a cui sono somministrati farmaci antiretrovirali entro le prime 48 ore dalla nascita potrebbe raggiungere la soppressione virale continua dopo l’interruzione del trattamento.
Le donne con HIV in gravidanza non trattate con terapia antiretrovirale (ART) hanno dal 15 al 45% di probabilità di trasmettere l’infezione ai figli durante la gestazione, il parto o l’allattamento. L’assunzione di antiretrovirali riduce il rischio a meno dell’1%, ma ci sono donne che non ricevono assistenza tempestiva nel periodo prenatale o non hanno accesso ai farmaci.
È quanto accaduto nel caso della madre di quella che è stata soprannominata la “bambina del Mississippi”: la donna non assumeva antiretrovirali e presentava carica virale rilevabile al momento del parto. Dato l’alto rischio di esposizione, alla neonata è stata somministrata una terapia antiretrovirale combinata ad appena 30 ore di vita, ma non è bastato a impedire l’infezione. All’età di 18 mesi, poi, la famiglia ha interrotto il trattamento; eppure, quando diversi mesi dopo si è ripresentata alle cure, la bambina era ancora viralmente soppressa – il che per i medici era un’evenienza inattesa.
Purtroppo, dopo che è riuscita a tenerla sotto controllo per 27 mesi senza farmaci, la sua carica virale è tornata rilevabile; il suo caso però ha fornito ulteriori evidenze a sostegno del fatto che un inizio molto precoce del trattamento possa contribuire a limitare il reservoir virale e rendere possibile una cura funzionale, soprattutto nei bambini.
Per saperne di più, uno studio ha arruolato neonati ad alto rischio di infezione intrauterina in Brasile, ad Haiti, in Thailandia, negli Stati Uniti e in svariate contee dell’Africa sub-sahariana. Dei 54 bambini che hanno acquisito l’HIV nel grembo materno e hanno iniziato ad assumere una combinazione di farmaci antiretrovirali entro 48 ore dalla nascita, la maggior parte non è stata in grado di mantenere una soppressione virale completa. La causa è probabilmente stata l’aderenza incostante al trattamento.
Sei bambini, tutti provenienti dall’Africa subsahariana, avevano invece una carica virale non rilevabile e soddisfacevano anche altri criteri di eleggibilità per sospendere il trattamento sotto stretto controllo medico. I bambini hanno smesso di assumere i farmaci a un’età mediana di 5,5 anni, e quattro di loro hanno mantenuto la remissione virale per almeno 48 settimane. Una di loro ha mantenuto una carica virale non rilevabile per addirittura 80 settimane prima che si osservasse un rebound virale; gli altri risultavano ancora in remissione a 48, 52 e 64 settimane.
Si tratta di risultati promettenti, che possono dare indicazioni utili per la ricerca di una cura dell’HIV; ciò nonostante, ricevere una terapia così tempestivamente resta ancora fuori dalla portata di molte persone. Occorre prevedere test immediati e consentire l’inizio precoce del trattamento a tutti i neonati potenzialmente esposti all’HIV in utero, ha commentato Persaud.
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La combinazione di islatravir e lenacapavir potrebbe rappresentare il primo regime orale a monosomministrazione settimanale per il trattamento dell’HIV
Il lenacapavir (sviluppato da Gilead Sciences) è il primo inibitore del capside dell’HIV, mentre l’islatravir (targato Merck) è primo di una nuova classe di farmaci chiamata inibitori della traslocazione nucleosidica della trascrittasi inversa.
Quello presentato è uno studio di fase II in aperto che ha arruolato 104 adulti con HIV trattati con Biktarvy (bictegravir / tenofovir alafenamide / emtricitabina) in soppressione virale. L’età mediana dei partecipanti era di 40 anni, e il 18% erano donne.
I partecipanti sono stati randomizzati per continuare ad assumere il Biktarvy una volta al giorno oppure passare a un regime costituito da una compressa di 2mg di islatravir più 300mg di lenacapavir da assumere una sola volta alla settimana.
Alla 24° settimana, soltanto una persona del braccio islatravir più lenacapavir aveva una carica virale superiore a 50, ma ha comunque raggiunto la soppressione virale alla 30° settimana. Nei due bracci si è poi osservato il medesimo tasso di soppressione virale (94,2%), tenuto conto che per cinque persone c’erano dati mancanti. Entrambi i regimi di trattamento sono risultati sicuri e ben tollerati. Il follow-up proseguirà fino alla 48° settimana.
In occasione di un incontro con i media, la dott.ssa Colson ha detto che il regime è risultato “efficace e ben tollerato” e che la combinazione di islatravir più lenacapavir “ha tutto il potenziale per diventare il primo regime orale completo a monosomministrazione settimanale per il trattamento dell’HIV”.
Se i dati continueranno a essere promettenti, questa combinazione potrebbe diventare il regime a più lunga durata d’azione che non prevede la somministrazione per via iniettiva.
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HIV e ipertensione: migliori risultati con gli approcci che mettono al centro la persona
Malgrado sia comprovato che presentano un rischio cardiovascolare più elevato rispetto al resto della popolazione, le persone con infezione da HIV restano sottotrattate per fattori di rischio come ipertensione e colesterolo alto.
Nello studio EXTRA-CVD, il dott. Chris Longenecker della University of Washington e i suoi colleghi hanno disegnato un intervento mirato a rimuovere le barriere che secondo le ricerche ostacolano la cura di ipertensione e ipercolesterolemia.
Per lo studio, svolto in Ohio e in North Carolina, 297 persone HIV-positive con ipertensione e colesterolo alto sono state randomizzate per ricevere assistenza da parte di personale infermieristico con monitoraggio pressorio domiciliare oppure l’assistenza standard, con educazione alla prevenzione. Gli infermieri visitavano i partecipanti del braccio di intervento una volta ogni due mesi.
I partecipanti avevano un’età mediana di 59 anni, il 79% era di sesso maschile, il 59% era di etnia nera, la pressione arteriosa sistolica mediana era di 135 mmHg e il colesterolo non-HDL mediano era di 139 mg/dl.
Dopo un anno, nel braccio di intervento i valori pressori erano più bassi di 4,2 mmHg rispetto al braccio di controllo. I pazienti di questo gruppo, poi, avevano probabilità quasi tre volte maggiori di raggiungere valori pressori inferiori a 130/80 mmHg, che rappresentavano l’obiettivo terapeutico.
Sempre nel braccio di intervento, il colesterolo non-HDL è risultato più basso di 0,4 mmol (16 mg/dl); i componenti di questo gruppo, inoltre, avevano probabilità sette volte maggiori di raggiungere l’obiettivo di mantenere il colesterolo non-HDL al di sotto di 130 mg/dl (o a 100 mg/dl se il paziente era ad alto rischio di malattie cardiovascolari).
Uno studio a cura del Consorzio SEARCH svolto in Kenya e Uganda, invece, era volto a verificare se gli operatori sanitari attivi sul territorio fossero in grado di gestire i casi di ipertensione arteriosa grave. Gli autori hanno esaminato i risultati da loro conseguiti attraverso visite a domicilio e consultazioni telematiche con i medici raffrontandoli con quelli ottenuti invece nel contesto clinico.
L’ipertensione arteriosa grave (160/100 mmHg) aumenta il rischio di eventi cardiovascolari e, nella sua forma acuta (oltre 180/110), può condurre a complicazioni renali, ictus e danni ai vasi sanguigni dell’occhio.
Lo studio randomizzato ha coinvolto 200 persone di età superiore ai 40 anni con ipertensione arteriosa grave o persistente e valori superiori a 140/90 mmHg. L’età mediana dei partecipanti era di 62 anni, il 70% erano donne, il 14% aveva un’infezione da HIV e il 25% presentava valori pressori superiori a 180/110 mmHg.
Alla 24° settimana, erano riusciti a riportare la pressione sotto controllo (con valori inferiori a 140/90) il 77% dei componenti del braccio di intervento e il 51% di quelli braccio di controllo. Alla 48°, il dato per il braccio di intervento era salito all’86% e quello per il braccio di controllo era sceso al 44%.
Il terzo lavoro presentato è uno studio randomizzato condotto dalla dott.ssa Lily Yan della Weill Cornell Medicine di New York e dai ricercatori del GHESKIO di Haiti su 250 persone con HIV e pre-ipertensione.
La pre-ipertensione (pressione arteriosa sistolica tra 120 e 139, pressione diastolica tra 80 e 89 mmHg) non viene trattata di routine. Una meta-analisi del 2021 ha però rilevato che anche negli individui pre-ipertesi una riduzione di 5 mmHg della pressione sistolica è associata a una riduzione del 10% del rischio di un evento cardiovascolare maggiore.
Lo studio ha raffrontato gli outcome di pazienti che si sottoponevano a trattamento immediato con quelli che invece posticipavano il trattamento fino a quando la pressione arteriosa non fosse salita a 140/90 mmHg. Dopo 12 mesi, nel gruppo del trattamento immediato si è osservata una riduzione di 10 mmHg della pressione arteriosa sistolica e di 8 mmHg della pressione arteriosa diastolica; la pressione arteriosa media, inoltre, era di 5 mmHg inferiore rispetto a quella dell’altro gruppo. Chi iniziava subito il trattamento aveva poi il 59% di probabilità in più di avere valori pressori sotto controllo dopo 12 mesi rispetto chi lo rimandava.
In un incontro con la stampa, tutti e tre i relatori hanno sottolineato l’importanza di integrare la gestione della malattia ipertensiva nelle cure primarie per l’HIV offrendo servizi mirati all’interno dei percorsi di cura già previsti, piuttosto che inviare i pazienti a specialisti esterni.
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PrEP, positivi i risultati in termini di aderenza di uno studio su giovani donne condotto in Africa
La coorte INSIGHT è uno studio sulla PrEP condotto in 14 siti in Sudafrica e un sito in ciascuno dei seguenti paesi: Eswatini, Kenya, Malawi, Uganda e Zambia. I dati sono stati raccolti tra l’agosto 2022 e l’agosto 2023, anche se il tempo di follow-up per ogni partecipante è stato di sei mesi.
Per lo studio era stata valutata l’inclusione di 3342 donne, ma 142 sono risultate positive all’HIV (4,2%) e altre 113 non erano eleggibili per altri motivi; le partecipanti sono quindi scese a 3087. L’età media era di 24 anni. La maggior parte (96%) aveva un partner principale e poche avevano avuto più di due partner negli ultimi tre mesi. Circa il 30% aveva un’infezione batterica a trasmissione sessuale, che è stata trattata. Quasi una su sette (13,6%) aveva già assunto la PrEP in precedenza.
Le partecipanti hanno mostrato una buona adesione alla PrEP e notevole costanza nella sua assunzione: il 92% di loro ha infatti completato tutte e quattro le visite previste dallo studio.
Sebbene il 62% delle partecipanti abbia riferito gli effetti collaterali tipici della PrEP, come la nausea, gran parte di loro hanno dichiarato che la PrEP ha avuto un impatto positivo sulla loro vita. Ad esempio, il 91% ha dichiarato di essere meno preoccupata di acquisire l’HIV e una percentuale analoga si è sentita “più libera” nei rapporti sessuali.
La dott.ssa Brenda Mirembe dell’Università di Makerere ha riferito che l’uso di un test rapido delle urine per misurare i livelli di tenofovir e confermare l’aderenza è stato generalmente considerato utile dalle partecipanti. Per via di problemi di approvvigionamento, non sempre c’erano kit disponibili per ogni partecipante a ogni visita, quindi i test sono stati effettuati in media sul 60% delle partecipanti. Secondo i risultati, l’aderenza recente è stata del 72% al primo mese, del 71% al terzo mese e del 67% al sesto mese.
Nonostante gli alti livelli di adesione alla PrEP, tuttavia, l’incidenza annuale dell’HIV è rimasta piuttosto alta: l’1,38%, ovvero un’infezione ogni 72 partecipanti all’anno.
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Stati Uniti, cancro alla prostata diagnosticato più tardivamente negli uomini HIV+
Il prof. Keith Sigel della Icahn School of Medicine del Mount Sinai Hospital di New York ha presentato uno studio sulle diagnosi e gli outcome del cancro alla prostata in un gruppo di individui appartenenti al Veterans Aging Cohort Study. Negli Stati uniti, il programma sanitario del Dipartimento degli Affari dei Veterani è quello che contribuisce maggiormente alla fornitura di cure per l’HIV.
Gli autori dell’analisi hanno abbinato 751 uomini con HIV a cui era stato diagnosticato un cancro alla prostata tra il 2001 e il 2018 con 2778 uomini HIV-negativi che avevano ricevuto la medesima diagnosi nello stesso periodo.
Utilizzando dati tratti dalle cartelle cliniche dei pazienti e dai Registri Tumori, i ricercatori hanno confrontato lo stadio del cancro al momento della diagnosi, la sopravvivenza dopo la diagnosi e il risultato del test per l’antigene prostatico specifico (PSA) prima della diagnosi negli uomini con e senza infezione da HIV. I partecipanti sono stati abbinati in base alle loro caratteristiche demografiche.
Gli uomini HIV-positivi, al momento della diagnosi, avevano livelli di PSA significativamente più elevati e una percentuale significativamente più alta di metastasi (elementi indicativi di una diagnosi tardiva). Di contro, non è stata individuata alcuna differenza significativa per quanto riguarda lo stadio del tumore al momento della diagnosi quando è stato analizzato il punteggio di Gleason per ciascun tumore (rischio basso, intermedio o elevato).
È possibile che la diagnosi a uno stadio più avanzato negli uomini con HIV si spieghi con lo scarso ricorso al test del PSA? Questo test è uno strumento impreciso per prevedere il rischio di cancro alla prostata; è per questo motivo che nel Regno Unito non viene effettuato di routine. La US Preventive Services Taskforce lo considera un test solo minimamente utile per gli uomini di età compresa tra i 55 e i 69 anni e non ne raccomanda l’uso agli ultrasettantenni.
Sebbene sia aumentato nel tempo, il ricorso al test del PSA è stato sempre meno frequente nelle persone con HIV, in tutti i periodi e in tutti i gruppi di età.
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LILA Onlus – Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS
Via Anzani, 52 – 22100 Como – Tel: +39 031 268 828 – www.lila.it
8/3/2024
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