L’impoverimento del sistema sanitario pubblico
Nel 2014 la spesa sanitaria dell’Italia è stata «significativamente inferiore» rispetto a quella di altri paesi dell’Unione europea, sia in termini di valore pro capite sia in rapporto al Pil. È quanto ha certificato ieri l’Istat fornendo i dati del periodo 2012-2016: a fronte dei circa 2.404 euro per abitante spesi in Italia, Regno Unito, Francia e Germania hanno stanziato tra i 3mila e i 4mila euro per abitante; Danimarca, Svezia e Lussemburgo intorno ai 5mila euro. In rapporto al Pil, la spesa è stata vicina all’11% in Francia e Germania, appena inferiore al 10% nel Regno Unito, di circa il 9% in Italia e Spagna.
Nel 2016 la spesa sanitaria corrente è stata pari a 149.500 milioni di euro (2.466 euro pro capite), con un’incidenza sul Pil dell’8,9%, sostenuta per il 75% dal settore pubblico. La spesa sanitaria privata nel 2016 è pari a 37.318 milioni di euro, con un’incidenza rispetto al Pil del 2,2%, il 90,9% a carico dalle famiglie. La spesa per cura e riabilitazione è stata pari a 82.032 milioni di euro, con un’incidenza del 54,9% sul totale della spesa sanitaria e del 4,9% sul Pil. Poi ci sono i prodotti farmaceutici e gli apparecchi terapeutici, con 31.106 milioni di euro e una quota del 20,8% del totale. Gli ospedali sono i principali erogatori di assistenza con un’incidenza del 45,5% sul totale della spesa corrente. Al secondo posto gli ambulatori che pesano per il 22,4%. Terza l’assistenza a lungo termine, che incide per il 10,1%.
La Cgil lancia l’allarme: «Dobbiamo smascherare il gioco in atto sul Sistema sanitario nazionale: nessuno dice che bisogna cambiarlo ma lo fanno, costruendo nella pratica un altro sistema dove chi ha i mezzi si rivolge al privato mentre il pubblico svolge un ruolo residuale per i poveri» ha spiegato Susanna Camusso ieri a Roma, chiudendo il convegno «Una Sanità pubblica, forte, di qualità per tutti». Una giornata di studi servita a costruire una piattaforma condivisa con Cisl e Uil per riaprire il confronto con il governo. L’apertura è stata affidata a Rosy Bindi, ministra della Salute dal 1996 al 2000, che ha spiegato: «Dobbiamo costruire un movimento sociale, culturale e politico sul significato dell’opera pubblica più importante di cui si è dotata l’Italia negli anni ’70».
Al primo posto della piattaforma sindacale ci sono le risorse: il Documento di economia e finanza prevede per il 2019 un crollo del rapporto spesa sanitaria-Pil al 6,4%, è necessario invece portare l’investimento nella media dei primi quindici paesi Ue. E poi i risparmi ottenuti dalla razionalizzazione della spesa vanno reinvestiti nel comparto, il finanziamento delle regioni va aggiornato. Oggi pesa l’età media: più è alta maggiori sono i fondi (così la Liguria ottiene più della Campania, che ha l’età media più bassa del paese). Occorre bilanciare il riparto con l’incidenza delle difficoltà economiche e sociali e la situazione epidemiologica. Altro nodo cruciale sono i superticket: «Il loro peso è diventato insopportabile, come segnala persino la Corte dei Conti» spiega la Cgil. Il loro proliferare e le differenze tra regioni hanno generato distorsioni: la fuga verso il privato, la rinuncia alle cure, l’emigrazione sanitaria in altre regioni. Il risultato è stato un minore introito per il pubblico cioè un nuovo tassello nel suo progressivo smantellamento. Stesso discorso per le liste d’attesa.
Nelle regioni in Piano di rientro i tagli lineari hanno squassato il servizio, Camusso critica le gestioni commissariali: «Una gigantesca modalità per non assumersi responsabilità politiche e sfuggire alla normalità della gestione». Per uscirne è necessaria la lotta alla corruzione e agli spechi, verificare i centri accreditati dove spesso si crea un mercato protetto a danno del pubblico, vigilare sull’applicazione dei Livelli essenziali di assistenza. Ci vuole, in sintesi, una nuova organizzazione che tenga anche conto delle differenze di genere, più prevenzione, integrazione tra sanità e servizi sociali, investimenti pubblici in innovazione. Cambiare la politica del numero chiuso nelle università pubbliche, che sta favorendo gli atenei privati finanziati da imprese e industrie del farmaco.
Un capito della relazione Camusso l’ha dedicato al tema del lavoro in Sanità: «La rincorsa al privato è stata accompagnata dalla svalorizzazione del pubblico, i dipendenti definiti tutti parassiti. Si è instaurata una gerarchia: nella stessa struttura convivono il dipendente della ditta in appalto e quello della cooperativa chiamata in soccorso, considerati differenti dal lavoratore pubblico. Hanno retribuzioni inferiori, mansioni variabili in base alla cifra d’appalto, condizioni contrattuali peggiori e scarso riconoscimento. Le esternalizzazioni, poi, hanno solo fatto spendere di più». La Cgil chiede quindi di supere le precarietà, «salvaguardando e aumentando i livelli di occupazione, rinnovando e rispettando i contratti, vigilando sugli appalti».
Adriana Pollice
5/7/2017 https://ilmanifesto.it
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