L’indignazione sorvegliata
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Non c’è che dire, dai primi anni 80 ad oggi i poteri hanno pianificato lo stato di cose presenti. Ricordate il programma della Loggia segreta P2? Chi l’ha dimenticato o, come i giovani, non lo conosce potrebbe dedicare un pò del suo tempo per leggere l’inizio politico dello stato di cose presenti. Non sarebbe tempo perso e acquisirebbe delle categorie di lettura che i vari social di massa e che, ovviamente, televisioni e carta stampata, guarda caso entrambe in mano ai pianificatori, non offrono appositamente. Semmai regalano spettacolarizzazioni di eventi e fatti per veicolare l’attenzione fuori da elementi conoscitivi che produrrebbero sentimenti di conflitto che andrebbe oltre la mera indignazione individuale e passiva.
La stessa prodotta dai social network dove si presume che ci sia la libertà di informarsi e schierarsi senza la fatica di movimento fisico e collettivo di piazza. Risultato? Lo si può leggere nelle pagine della P2 nelle quali si programma la fine della partecipazione democratica collettiva per ridurre il Paese, quello con la maggiore politicizzazione in Europa negli anni 60 e 70, a un agglomerato di soggettività individualista che crede di costruirsi la propria identità sociale senza impegno diretto nell’assunzione di responsabilità. Qual’è il rifugio nel quale ci si accomoda cliccando un like e, al limite, spremendo le meningi, digitando un commento? Appunto l’indignazione.
Importa loro sapere preventivamente, ovvero capacità di riflettere prima di dire, dove indirizzano la loro emotività contingente? Pare proprio di no, lo conferma la storia di questi decenni con il voto, ad esempio, a Salvini e 5Stelle che ha costruito facilmente, e con il fondamentale apporto quotidiano della comunicazione televisiva e stampata, una narrazione e un immaginario di massa tale da presentarsi come il salvatore del disagio sociale individuando in un presunto nemico l’obbiettivo da colpire.
Da questo immaginario di un pifferaio da bettola puzzolente è nata quell’idea violenta di populismo penale contro gli ultimi della società – siano essi migranti, operai, sfrattati, manifestanti dissenzienti – che da alcuni decenni uniforma (militaresco appropriato) tutte le forze politiche in Parlamento e che ha innervato anche le le amministrazione locali , di destra e di centrosinistra, con regolamenti repressivi di polizia urbana che hanno ristretto gli spazi di relazioni sociali, mutuando anche nelle zone centrali la solitudine costruita in decenni di politiche depressive, dal lavoro ai trasporti, dall’assistenza sociale alla fruizione dei beni comuni.
Per chi non concorda invito a ricordare la narrazione del PD che ha formato l’immaginario su milioni di persone con valori costituzionali e di sinistra “dateci il voto per fermare la destra”.
In questo stato di vaghezza mentale vengono rimodulati gli stessi comportamenti nei luoghi di lavoro come in una famiglia di lavoratori.
Per entrare nel vissuto di una famiglia comune credo sia utile raccontare un episodio significativo. Nell’estate scorsa a una cena di pensionamento di una collega di quando lavoravo in ospedale, tutta in famiglia, allargata ai parenti stretti, nella discussione, pre e durante la cena, sulle condizioni e relazioni lavorative dei nostri rispettivi luoghi di prestazione e nel confronto con i suoi parenti, principalmente con il marito, dipendente di una piccola fabbrica dell’indotto ex Fiat, sono emersi tutti gli attuali fragili equilibri negli stessi valori che ci hanno accomunati per decenni nelle dinamiche sindacali come lavoratori.
Volutamente, più che parlare ho ascoltato per capire più il significato del non detto, attraverso le espressioni e le pause, che le affermazioni che tendevano a descrivere alcuni frammenti della realtà del loro quartiere di periferia come se fossimo un reality televisivo durante il quale gli spettatori erano indotti ad assentire o applaudire secondo i tempi dettati dal conduttore di una intervista al politico o all’opinionista della serata.
La foga nell’esprimere indignazione era tale che ho trattenuto sorrisi sarcastici su tanti volenterosi e confusi sprazzi di analisi del disagio degli adulti come del giovane figlio senza lavoro, quindi ancora a carico dei genitori, che pareva stessimo ascoltando, appunto, un trasmissione televisiva e non un racconto delle proprie condizioni reali. A niente è servito far presente che le loro condizioni economiche, non da benestanti certamente, li ponevamo, comunque, molto al di sopra dei malvisti – “guarda che non li odio quei poveracci” – lavavetri, rider, italiani disoccupati che “non hanno voglia di lavorare e si sbafano il reddito di cittadinanza”.
L’indignazione non è certamente un sentimento razionale ma se pervasa da frasi indotte, una sorta di copia e incolla di termini memorizzati dalla loro assillante ripetizione nello schermo televisivo non è scalfibile neanche dalla propria consorte che, per la sua attenzione ai problemi vissuti in ospedale, tentava di riportarlo un contraddittorio.
I miei stessi tentativi di porre sul tavolo della discussione alcuni elementi coniscitivi dello stesso mondo del lavoro, come i bassi salari, i carichi di lavoro, gli infortuni, i morti e le malattie professioni, o anche le cause della non prevenzione sul tema del covid e lo stato della sanità pubblica, non hanno avuto fortuna con le certezzze di alcuni commensali, “questa è politica e a noi non interessa”.
Questa è la narrazione dei pifferai trasversali che ha prodotto passivizzazione e smemorizzazione, anche sulle cause e responsabili di brutali atti materiali recenti, come i licenziamenti o la rinuncia alle cure. Una rivisitazione politica della patologia della Sindrome di Stoccolma funzionale al costruire indignazione che sorveglia la difesa di questo stato di cose.
Questa è una parte del popolo, delegata al ruolo di comparsa dei teatranti, l’altra parte deve irrompere sul palcoscenico per riscrivere copione e scenografia, della stessa democrazia, anche di quella formale oggi svuotata di ogni spazio di partecipazione su delega di voto cosciente (come da Programma P2) che, comunque, rappresenterebbe un granello di sabba negli ingranaggi dei meccanismi di potere degli interessi dei gruppi industriali che stanno operando per la costruzione legislativa di uno Stato-Azienda, dove ogni cosa, gli stessi corpi nella loro capacità produttiva portata all’ennesima potenza, fino all’autodistruzione fisica, con i morti sul lavoro, ci parlano di questa schiavizzazione nei luoghi di lavoro.
Questo processo di ritorno all’ottocento nei rapporti di lavoro e di relazioni sociali non è ancora compiuto. Non basta aver reso ininfluenti le Leggi e i contratti, non basta aver destrutturato la stessa contrattazione sindacale sui luoghi di lavoro, non basta aver reso lo sciopero quasi una sovversione dell’ordine costituito, aspetti sui quali la comunicazione ha operato scientificamente una marginalizzazione funzionale alla non produzione dell’indignazione degli spettatori televisivi, piuttosto che dei pochi lettori della carta stampata, serve la criminalizzazione di quel dissenso attivo, visto come pericolosa anticamera mentale di uno sviluppo di forme di ribellione, perché va oltre l’indignazione indotta e sorvegliata.
E’ giusto chiedere se il popolo tele indignato si sente responsabile, o complice con le attenuanti generiche, dello stato di cose presenti?
Franco Cilenti
editoriale del numero di giugno del mensile
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