L’inflazione e la recessione affossano l’Europa mentre l’America fa affari d’oro col superdollaro
Ed Eurostat non ci dice tutta la verità
L’inflazione dell’Eurozona, quella ‘armonizzata’ tra le 27 differenze, arrivata al 9,1%, aggiungendo altra legna sul fuoco di una crisi economica con la quale, a quanto pare, dovremo abituarci a convivere per lungo tempo. E le brutte notizie non finiscono qui. Secondo l’analisi fatta dal Wall Street Journal, i dati forniti da Eurostat sono “drogati”, insomma non sono veritieri fino in fondo, perché non tengono conto dei “bonus” e delle agevolazioni fiscali temporanee, per carburanti e trasporti, che i governi tra un paio di mesi toglieranno. A quel punto, i costi reali si trasferiranno tutti in una volta sui consumatori.
La guerra, la speculazione e gli Usa
Il Wall Street Journal attribuisce gran parte della colpa dell’inflazione alla guerra in Ucraina. Anche se non spiega perché il Nord Stream 1 chiude e il gas cali seccamente di prezzo. Non spiega, cioè, il ruolo della selvaggia speculazione internazionale. Ma fa un paragone con la situazione americana. Paradossalmente, oggi, gli Stati Uniti hanno un’inflazione più bassa dell’Europa e stanno meglio come Pil (valutando l’ultimo biennio) e straordinariamente meglio come occupazione. Dal punto di vista energetico sono autosufficienti e, proprio “grazie” alla guerra, all’inflazione e alle contromosse della Federal Reserve, oggi il dollaro è la valuta più forte del mondo.
Super dollaro
Negli ultimi mesi, il dollaro ha guadagnato quasi il 15% sull’euro, che sta precipitando di giorno in giorno. Risultato: Biden compra materie prime e prodotti esteri a quattro soldi, mentre la povera Europa (che paga molte importazioni in dollari) fa la fame. Alla faccia della solidarietà atlantica. Questo sconquasso planetario ha delle cause precise, che più volte abbiamo analizzato. Adesso, però, anziché indagare sui colpevoli è il momento di inventarsi delle strategie che possano garantire, come amano dire gli specialisti, “un atterraggio morbido”. Più facile a dirsi che a farsi.
Pandemia finanziaria e virus inflazione
Se ci passate l’infelice analogia, siamo in piena pandemia finanziaria e l’inflazione dilaga in tutti i mercati mondiali. Naturalmente, le democrazie industriali più avanzate sono anche le più colpite. Una specie di catena di Sant’Antonio, che parte dagli Stati Uniti, passa dal Regno Unito e si diffonde in tutta l’Europa. Non lasciando immuni, per restare al blocco occidentale, nemmeno grandi Paesi come il Giappone, l’Australia o il Canada. Il rialzo dei prezzi colpisce, con accenti diversi, tutta la filiera produttiva. Dalle materie prime all’energia, dai semilavorati ai trasporti, dall’ingrosso fino alla distribuzione e al dettaglio, per finire alle tasche dei consumatori. Ogni passaggio dei beni accumula percentuali di rincaro, che poi vengono scaricate sul prezzo di mercato.
L’inflazione che si autoalimenta
Nel caso dell’Eurozona, l’esame disaggregato fatto da Eurostat dimostra come, al netto dell’impatto dei carburanti e del “carrello della spesa” (componenti ritenuti “volatili” e quindi difficili da pronosticare) ci sia un nocciolo duro inflazionistico (intorno al 4,5%) che tende a crescere. In sostanza, siamo in una fase in cui, probabilmente, l’inflazione si autoalimenta. Contemporaneamente, il quadro generale dell’economia sta passando dall’incertezza alla previsione di scenari negativi. Di stagnazione, se non di vera e propria recessione. Dato confermato dagli indici di fiducia, a cominciare da un “marcatore” importante: il PMI (Purchasibg management index), un “termometro” che segnala tutte le quantità di merci di un’azienda coinvolta nel processo produttivo. Anche questo dato è negativo in Europa.
Recessione europea e BCE
Senza attendere le rilevazioni dei Pil (Prodotti interni lordi) che verranno, si può già dire che, quasi sicuramente, ci aspetta una fase recessiva dell’economia. Questo complica il lavoro della BCE, la Banca centrale europea, che per controllare l’inflazione e difendere il cambio dell’euro dovrà necessariamente, ancora una volta, alzare il costo del denaro, contribuendo a “gelare” definitivamente il sistema. Nella prossima riunione dell’8 settembre, a nostro giudizio non potrà bastare un ritocco di 50 punti base, che porti il tasso di riferimento allo 0,50%.
America e il costo del denaro
Col suo prossimo rialzo, infatti, la Federal Reserve americana potrebbe arrivare a un tasso record del 3,50%, come fatto intendere dal suo presidente, Jérome Powell. Un differenziale simile si dovrebbe avere anche con i tassi della Bank of England, che entro la fine dell’anno potrebbero toccare addirittura il 4%. Questo che significa? Vuol dire che, a fronte di interessi così elevati, chi comprava titoli del debito pubblico italiano potrebbe disinvestire e riallocare i suoi fondi verso titoli americani o inglesi. Remunerativi e meno rischiosi di quelli nostrani.
Se non comprano il nostro debito
A quel punto, dovrebbe scattare il piano BCE, sostitutivo del vecchio “quantitative easing”, l’acquisto di obbligazioni provenienti da Paesi altamente indebitati, come l’Italia. Il TPI (Transmission protection instrument) è un “copiato” dell’idea di Draghi, ma molto più nebuloso. Si vede che è una misura presa in fretta e furia, una pezza per tappare un buco. Il Wall Street Journal esprime perplessità: non si parla di quantità. A che livello deve intervenire la BCE? Probabilmente in caso di forbici troppo ampie di “spread”. Si, ma quanto larghe? Si chiede il giornale americano.
Futuro prossimo da brivido
Insomma, se questa manovra non dovesse funzionare (o non la volessero far funzionare), per collocare il nostro debito saremmo costretti a pagare interessi insostenibili e per non mandare le finanze pubbliche (e quindi l’euro) a catafascio, chi è al governo ci farebbe pagare anche l’aria che respiriamo. L’alternativa? Il fallimento. E ad essere “pignorati” saremmo sempre e comunque noi cittadini.
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Istat: inflazione Italia all’8,4%, top dal 1985
Inflazione ancora in salita, secondo le stime preliminari dell’Istat: aumento dello 0,8% su base mensile e dell’8,4% su base annua (da +7,9% del mese precedente). «Sono l’energia elettrica e il gas che producono l’accelerazione dei prezzi dei beni energetici e che, con gli alimentari lavorati e i beni durevoli, spingono l’inflazione a un livello che non si registrava da dicembre 1985 (quando fu +8,8%)», spiega l’Istat.
Piero Ortega
1/9/2022 https://www.remocontro.it
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