L’ingiustizia e l’impudenza : dal porto di Genova all’amianto
Il 10 marzo in due differenti sedi giudiziarie abbiamo assistito a due momenti caratterizzanti l’andamento dell’accertamento delle responsabilità a fronte di eventi (crimini) che hanno determinato decessi plurimi.
Il primo è l’assoluzione di tutti gli imputati nel processo sulla posizione e le caratteristiche della Torre Piloti nel Porto di Genova, “abbattuta” dalla nave Jolly Nero il 7.05.2013 uccidendo 6 operatori. La sentenza segue quella definitiva relativa alle responsabilità in capo ai manovratori della nave e conclusa con diverse condanne. Questo secondo processo, voluto fortemente dai famigliari delle vittime, intendeva portare all’attenzione quell’aspetto che possiamo sinteticamente definire di mancata prevenzione : la catena decisionale che ha portato a posizionare la torre in quel luogo e con quelle caratteristiche costruttive. Non è bastata l’evidenza che fosse “collocata a filo banchina del molo Giano, senza essere dotata di qualsiasi protezione nonostante la sua collocazione in adiacenza ad una area di manovra ed evoluzione di navi di notevoli dimensioni”. Quello che è “mancato” per una condanna è che le norme specifiche che definissero la posizione e le caratteristiche di resistenza rispetto ad eventi incidentali importanti sono successive alla progettazione e realizzazione della Torre in questione.
L’assoluzione ha indignato e reso ancora più forte il dolore dei famigliari delle vittime analogamente alla sentenza di due settimane prima per Rigopiano e, pur con diversi aspetti, per il crimine ferroviario di Viareggio. Il secondo evento del 10 marzo è avvenuto nel Tribunale di Novara, nell’ambito del processo Eternit bis: il difensore di Schmidheiny ha dichiarato che il suo assistito, da quando acquisì gli stabilimenti italiani (1976) fino alla loro chiusura (1986) introdusse tutele innovative per proteggere i lavoratori e l’ambiente. Parliamo di un processo che riguarda 392 morti o malati per malattie asbesto correlate. A parte l’impudenza di una tale dichiarazione rispetto alle concrete condizioni lavorative testimoniate dai diretti interessati è interessante segnalare che la difesa – non è la prima volta – insiste indicando che “a quei tempi” si riteneva possibile un “uso controllato dell’amianto”. In sostanza non vi erano obblighi normativi specifici che sarebbero arrivati anni dopo le vicende sottoposte a giudizio (fino alla fuoriuscita italiana dalle produzioni e uso degli amianti nel 1992). Queste posizioni sono state sempre smentite anche “in diritto” da evidenze come quelle ben conosciute che l’amianto è riconosciuto quale malattia professionale in Italia nel 1927, dagli anni ’30 erano conosciuti gli effetti tossici di tutti gli amianti. Infine le norme adottate in Italia a metà degli anni ’50 erano chiarissime in tema di protezione dei lavoratori dalle polveri nocive e dall’obbligo di attuare le migliori tecnologie disponibili per prevenire e proteggere. Ma questo non basta in molti processi per stabilire specifiche e personali responsabilità penali. I due casi citati colpiscono in quanto gli imputati, come i giudici, si “riparano” dietro l’assenza di una specifica legge vigente al momento della commissione dei reati per assolvere pur davanti all’evidenza di condizioni inaccettabili di rischio. Non ho la pretesa di svolgere valutazioni giurisprudenziali ma quello che mi risuona nell’orecchio immediatamente è il coro dei contrari ai “lacci e lacciuoli” della libera attività economica ovvero il contrasto a definire norme più incisive in quanto anche di maggior dettaglio tecnico prescrittivo in favore di obblighi generali spesso autocertificabili. Gli stessi fans del profitto ad ogni costo quotidianamente contrastano (quando c’è) una efficace azione del legislatore (una volta si diceva “comando e controllo”) e quando vengono presi “in castagna” si difendono obiettando sulla assenza di norme chiare e dettagliate. Se non fosse che in mezzo vi sono migliaia di vittime con il relativo carico di dolore, aggravato dalla mancata giustizia, tale “pendolo” sarebbe definibile come un teatrino all’italiana dove i personaggi non cercano più un autore ma mischiano le parti e la trama per confondere il pubblico ogni volta in un modo diverso a seconda della convenienza del momento.
Se questa osservazione è deprimente va aggiunto un elemento recente che rende ancora più difficile la già defaticante ricerca di giustizia in particolare da parte delle associazioni che si costituiscono parte civile nei processi per sostenere le vittime dirette, per rafforzare la giurisprudenza a loro favore e, nell’insieme, un sostegno alla prevenzione . La “riforma Cartabia” nel definire in modo rigido la “vittima” rende più difficile questo ruolo per le associazioni nell’ambito del processo penale in quanto non direttamente, fisicamente, danneggiate (lo sono nel loro ruolo di enti esponenziali). Dall’altro l’introduzione della improcedibilità ha introdotto una “tagliola” con effetti attesi più distruttivi della prescrizione (dopo la sentenza di primo è stato fissato un tempo massimo di svolgimento del processo pari a due anni in appello e un anno in Cassazione per qualsiasi tipo di reato, inclusi quelli complessi). L’orizzonte appare cupo non solo per le sentenze odierne, antiscientifiche o che negano responsabilità, ma per la direzione esplicitamente intrapresa che si consuma sulle formalità negando l’evidenza. Una deriva che gli operatori del diritto assieme alle vittime e alle associazioni devono contrastare trovando condivisione e azioni incisive.
Marco Caldiroli
Presidente Medicina Democratica – Tecnico della Prevenzione
24/3/23023 https://www.medicinademocratica.org
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