L’internazionale sovranista in realtà è liberista
Il trio Trump-Meloni-Milei si presenta come coalizione anti-sistema. Ma si tratta di un’evoluzione del neoliberismo in chiave anti-working class, con un’ossessione per il woke che nasconde l’intenzione di destrutturare i legami sociali
L’ultima vera, importante, internazionale liberista si era basata su un duo che ha dato il volto a una svolta mondiale dell’economia globale: Ronald Reagan e Margaret Thatcher. Attorno all’ex presidente degli Stati uniti e alla premier britannica il mondo ha subito l’egemonia neoliberista, consentita da una complessiva sconfitta operaia e da profondi processi di ristrutturazione capitalistica. Oggi, il volto della nuova internazionale liberista ha la fisionomia, apparentemente sorprendente, di un trio che ha fatto fortuna politica brandendo idee «sovraniste» e sventolando ricette protezioniste, o invocando a colpi di motosega una riduzione drastica dello stato sociale. Donald Trump, Javier Milei e Giorgia Meloni sono i tre pilastri di un’internazionale che sembra sovranista, ma in realtà è liberista.
Il presidente argentino è stato l’ospite più illustre al festival di Atreju organizzato dai giovani di Fratelli d’Italia (in realtà messo in piedi dal gruppo dirigente post-fascista a partire dalla sorella della presidente del Consiglio, Arianna Meloni). Giorgia Meloni ha lucidamente scelto di invitare alla propria kermesse il leader più anti-operaio dell’America latina per offrire un volto molto preciso del proprio progetto politico come dimostra anche l’ampia intervista concesao dal presidente argentino su Libero il giorno successivo al discorso tenuto ad Atreju. Alle domande del direttore Mario Sechi, già portavoce di Meloni a palazzo Chigi sia pure per pochi mesi, Milei ha esaltato la funzione della motosega definita «la chiave del successo del programma». «Se avessimo aumentato le tasse per ristabilire l’equilibrio fiscale, saremmo andati in recessione. Tagliando la spesa pubblica abbiamo fatto sì che il settore privato non andasse in sofferenza, dando una spinta all’economia». Un approccio non dissimile da quello del governo Meloni che, sia pure all’interno di una politica economica molto modesta in termini di riforme e cambiamenti strutturali, ha mantenuto un profilo incentrato sulla riduzione delle tasse e sul contenimento ossessivo della spesa pubblica (pur beneficiando in termini di Pil e crescita economica degli sforamenti alla spesa realizzati nella fase precedente e dovuti alle misure anti-Covid). Se si guarda il bilancio dei due anni di governo Meloni realizzato dallo stesso ministero dell’Economia, si nota che le parole chiave restano le stesse degli ultimi trent’anni: detassazione, contenimento della spesa pubblica, privatizzazioni unite a un’attenzione, elettoralistica, al «sostegno ai redditi bassi» che passa per la retorica della «famiglia» e per misure di stampo compassionevole.
L’impianto rimane quello classico neoliberista con l’ossessione di condurre politiche che «lascino liberi le imprese di fare», come Meloni ha promesso fin dal suo discorso di insediamento, e come Trump si appresta a fare negli Stati uniti con misure che prevedibilmente surclasseranno la pur consolidata amicizia del Partito democratico con il mondo del business. Come scrive sull’ultimo numero di Jacobin Usa Branko Marcetic, «i consiglieri di Trump hanno dichiarato che, già dal primo giorno, il nuovo presidente ha in mente un’agenda favorevole alle imprese, fatta di tagli alle tasse, deregolamentazione ed espansione della produzione di energia». Trump non sta esitando a riempire la propria amministrazione di miliardari, ex amministratori delegati, leader del settore tech
e lealisti» a cominciare dalla sua Chief of Staff, Susie Wiles, nota lobbista per le aziende del tabacco, delle assicurazioni e del carbone.
Ora, è proprio Milei, nell’intervista citata, ad assicurare che la nuova internazionale si sta componendo e che, a suo avviso, sarà formata anche da Benjamin Netanyahu e dal presidente salvadoregno, l’ultraliberista Nayb Bukele.
Milei costituisce probabilmente la posizione più avanzata di un discorso autoritario che si fa forza dello smottamento sociale provocato dalla crisi economica e dal fallimento dei suoi predecessori, i coniugi Kirchner. la sua azione di governo a un anno dalla vittoria elettorale vede, come spiega il sociologo argentino Armando Piva, «una profonda offensiva contro i lavoratori, una brutale svalutazione di oltre il cento per cento, un aggiustamento fiscale senza precedenti basato sulla liquefazione delle pensioni e degli stipendi dei lavoratori […] La strategia di Milei tende – oggettivamente, più o meno consapevolmente – alla rottura istituzionale». Un approccio che assomiglia molto alle intenzioni di Trump, peraltro confermate dalla sua prima presidenza, ma oggi molto più pericolose visto che il presidente eletto conosce molto meglio la macchina amministrativa, anche se Milei può giovarsi di una specifica crisi della base elettorale tradizionale del voto peronista creando, spiega ancora Piva, «uno stretto legame tra la smobilitazione operaia e popolare, la massificazione della richiesta di ordine e l’ascesa di Milei». Questo processo di disgregazione e riorganizzazione non si è ancora verificato con tale intensità in Italia e ha caratteristiche diverse e originali negli Stati uniti dove il Partito democratico non ha certo mai avuto la funzione del peronismo in Argentina.
Si tratta in ogni caso di un’evoluzione complessivamente originale che non è riducibile alla deriva fascista, termine che pure emerge costantemente e che non può essere semplicemente banalizzato. Ad esempio, su Jacobin Latinamerica il professor Carlo Galli sottolinea che la destra italiana attuale «è borghese e riduce il liberalismo al suo livello minimo, il neoliberismo, credendo che la ricchezza sia totalmente prodotta dal mercato e senza proporre alcun modello alternativo di civilizzazione. Ma non si tratta di restaurare il fascismo». Il fascismo si comprende coerentemente con la sua carica di violenza e di organizzazione sistematica della lotta anti-operaia e sociale, con la riduzione drastica delle libertà democratiche, con la gerarchizzazione autoritaria e la soppressione delle autonomie sociali all’interno di uno Stato organico. Questi processi non sono oggi deducibili dalle politiche delle nuove destre, ma non bisogna sottovalutare la velocità con cui alcuni aspetti potrebbero essere integrati nel modello sociale dominante. Si assiste invece a una torsione naturale di posizioni cosiddette sovraniste, nel senso anche di contestazione delle classi dominanti e degli assetti di potere che regolano il mondo, che invece si adeguano a quegli stessi assetti e che divengono a loro volta le élites finora contestate. Basti pensare a come Giorgia Meloni gestisce la propria collocazione europea: da eroina antiburocratica e fuori da ogni compromesso a sostenitrice del nuovo governo di Bruxelles che vede un uomo di Fratelli d’Italia in una posizione preminente.
Il nodo di fondo dell’orientamento strategico del governo Meloni è però la sua diretta discendenza dal liberismo berlusconiano che continua a permeare le scelte fondamentali della nuova compagine di destra. Il populismo sovranista è servito abilmente a drenare consensi e a incunearsi nello spazio politico lasciato scoperto da una sinistra che si immolava all’agenda Draghi e dalla crisi sistemica del Movimento 5 Stelle. Un processo analogo è avvenuto per Trump e per Milei, il più esplicito però a sbandierare la propria dottrina liberista.
Il trio, in ogni caso, opera una capovolgimento prospettico della propria identità percepita o superficialmente raccontata. A parte Donald Trump che minaccia di inaugurare una politica protezionistica basata su nuovi e più agguerriti dazi – ma questo annuncio andrà misurato davvero nei fatti e occorrerà capire se si tratta più di un’arma commerciale che di una svolta decisiva nella politica statunitense – il trio sovranista-liberista consolida la collocazione inaugurata dal duo Reagan-Thatcher e su questa scia punta a diventare il riferimento globale di una destra che si nutre di pulsioni autoritarie, che è trainata dai processi di destrutturazione sociale indotti dalle varie sinistre social-liberiste e dalla crisi del sindacato e, data la serietà della crisi economica globale – mai emersa dalla doppia rottura operata dal crack del 2007-2008 e dalla pandemia da Covid – si propone di costituire una funzione dominante dello Stato come veicolo di repressione e di ordine sociale.
Sembrerebbe un film già visto, ma che porta la dialettica democratica capitalistica fin sull’orlo di sperimentazioni spericolate, flirtando con modelli autoritari e soprattutto nutrendosi di una costante campagna contro il mondo del lavoro, i diritti sociali, i principi di solidarietà e di rispetto reciproco. Una cartina al tornasole di questa attitudine è l’ossessione contro «l’ideologia woke» contro cui Milei si è scagliato nel suo discorso ad Atreju, che Trump addita costantemente come nemica, insieme ai «marxisti» americani, e contro cui Meloni organizza politiche sociali regressive accusando «l’ideologia gender». Si tratta di un tic pericoloso delle destre perché la campagna contro il «politicamente corretto» in realtà ha come scopo la delegittimazione di istanze di emancipazione e soprattutto attacca un principio di riconoscimento reciproco e di solidarietà possibile condannando le differenti istanze a una lotta per la sopravvivenza. E quindi perpetuando quella disgregazione che garantisce la forza e i successi del neoliberismo mascherato da sovranismo.
Questi attacchi del resto vanno di pari passo con gli attacchi al lavoro, ai e alle migranti, alle donne, alle persone Lgbtqia+, alle persone razzializzate, fino ai e alle attiviste ecologiste. Attacchi che servono a compattare un’identità reazionaria in grado di sopperire e a volte coprire la funzione sistemica svolta dalle nuove destre al governo. Il sistema cosiddetto liberale dovrebbe fare un esame di coscienza approfondito sulle proprie tare e sulle modalità con cui le sue istituzioni, si pensi all’Unione europea, sorrette in larga parte dalla sinistra liberale, hanno conferito forza a tali posizioni sprofondando nella propria perdita di credibilità se non di legittimità. L’avvento della destra continua a rappresentare il risultato amaro e distruttivo di colossali fallimenti delle politiche neoliberiste sorrette anche dalla sinistra di governo, in particolare dalle socialdemocrazie che più hanno concorso alla modernizzazione neoliberista.
Resta l’originalità e la strumentalità di una posizione politica anti-sistema che si fa sistema e un velo strappato al volto del moderno «sovranismo» che, privo di connotazioni sociali e di classe, si dimostra un veicolo di pulsioni regressive e che non esita ad allinearsi al diktat neoliberista, mostrandosi come uno dei suoi agenti più efficaci e obbedienti.
Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).
20/12/2024 https://jacobinitalia.it
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