L’inverno caldo dei ricercatori universitari

Il 25 dicembre il ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca si è dimesso, in polemica con il mancato ottenimento dei fondi richiesti per il rifinanziamento del comparto scolastico e universitario all’interno della Legge Finanziaria per il 2020. Uno sguardo alla legge di bilancio è sufficiente a spiegare le ragioni di questo gesto: a fronte di un crollo d’investimento pubblico sull’Università di 1,5 miliardi di euro a partire dal 2008 e di una situazione di partenza che vede l’Italia investire complessivamente meno dell’1% del Pil sulla ricerca (rispetto a una media Ocse dell’1,5%), i pochi milioni stanziati con questa finanziaria suonano come l’ennesima presa in giro. Motivo per cui crediamo nella necessità di riaprire un dibattito pubblico ampio sulle condizioni di lavoro nell’ambito della ricerca universitaria.

Allo stato attuale, non vediamo nessun rifinanziamento pubblico del sistema universitario – eccezion fatta per i 7 milioni al diritto allo studio e per la creazione di una nuova Agenzia Nazionale per la Ricerca (Anr), che verrà finanziata con 300 milioni l’anno a partire dal 2022. L’Anr altro non è che una nuova longa manus della politica sul mondo universitario – sempre che i prossimi governi non decidano di fare marcia indietro, e sempre che questi milioni esistano. Non una parola, né tantomeno un euro, sui tanti temi sollevati negli ultimi anni dal mondo del lavoro della ricerca e che rimangono attualmente inascoltati. Non un accenno, per esempio, alle condizioni di lavoro di un precariato della ricerca sul quale si regge ormai la maggior parte del sistema accademico (nel 2018 erano ben 68.428 le persone assunte a tempo determinato, contro solo le 47.561 a tempo indeterminato). Non una parola nemmeno sulla cronica carenza di personale accademico e non, per non parlare delle risorse per fare ricerca, da anni oggetto di lotte spietate fra i vari dipartimenti e ricercatori per accaparrarsi le «risorse premiali» e i Prin (Progetti di ricerca di rilevanza nazionale). D’altronde, la competizione nel lavoro della ricerca si è accentuata in linea con i processi di integrazione sovranazionale dei percorsi di studio e delle carriere accademiche, avviati a livello europeo dal 1999.

Gli effetti di questi processi sono visibili sia sul piano della flessione dei finanziamenti pubblici (i dati Ocse indicano una loro flessione del 6%, a fronte dell’aumento del 5% di quelli privati, tra il 2010 e il 2016), con tutto ciò che comporta in termini di scelta sui settori di ricerca degni dell’investimento del mondo aziendale, sia sul piano delle carriere accademiche stesse. La sopravvivenza nel precariato è appesa al filo della mutevole disponibilità di fondi (dettata, appunto, anche dalle scelte sulla provenienza dei finanziamenti per l’università) e completamente assoggettati all’arbitrio delle gerarchie universitarie. Il tutto in assenza di un sistema di reclutamento ordinario. Il raggiungimento di una posizione stabile, che allo stato attuale riguarderà meno di un decimo di chi oggi è titolare di un assegno di ricerca, è subordinato al giudizio insindacabile di un’agenzia di valutazione (Anvur), che agisce – in linea con le tendenze internazionali – secondo criteri esclusivamente quantitativi. Il risultato è una disperata corsa alla pubblicazione a tutto danno delle qualità della ricerca e del benessere personale di chi la fa.

Un’economia della promessa che mantiene per anni in condizioni di lavoro sottopagato o gratuito, con l’ingiunzione a sovraprodurre ricerca scientifica che è condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungere una stabilizzazione a imbuto che ormai ha margini limitatissimi. Le carriere di ricerca si snodano in maniera discontinua nel tempo e nello spazio. Sono posizioni lavorative traballanti, spesso intervallate da cambi di città o Stato e da lunghi periodi di disoccupazione, legate a contratti gravati dalla loro natura para-subordinata, svantaggiati sul piano delle tutele tanto assistenziali quanto previdenziali. A questi contratti non si può che sopperire alternando o sovrapponendo il lavoro di ricerca con altri lavori – che spesso diventano gli impieghi principali di chi lavora nella ricerca. Una tendenza che visibilmente allinea questo lavoro alla maggior parte degli ambiti lavorativi, subordinati e non. Non è difficile individuare parallelismi con altre forme di surrettizia parasubordinazione di cui l’Università stessa continua a nutrirsi – dalle cooperative di servizi esternalizzate alle partite Iva.

Non è un caso che da un anno circa sia approdato anche in Italia il dibattito sul malessere psichico e fisico ormai endemico del lavoro della ricerca. Le riviste online di cultura contemporanea hanno posto l’accento sulla specificità del mondo accademico, ma sappiamo che il clima psichico del paese non è molto diverso – è anzi, spesso, più grave – se si considera che le condizioni di lavoro e di sfruttamento in Italia stanno raggiungendo picchi spaventosi in tutti i settori. Lo dimostrano le lotte che da anni attraversano tanto il mondo della scuola, quanto i settori della logistica e del food delivery, passando per i recenti conflitti anche nel mondo della produzione più classica – dal distretto industriale pratese allo stabilimento napoletano della Whirlpool. Di volta in volta vengono formulati nuovi ricatti che chiedono a chi lavora di barattare la vivibilità della propria esistenza con la possibilità stessa di sostentarsi: vuoi la chiusura dell’Ilva e perdere il lavoro o tenere il lavoro e ammalarti di tumore? Vuoi tenere alto il punteggio sull’algoritmo di Deliveroo o rischiare di morire nel tentativo di chiudere una consegna a tempo record? Vuoi cadere in depressione e non avere soldi per mantenerti o rinunciare a un record di pubblicazioni che potrebbe fra dieci anni garantirti un posto da professore associato?

Occorre allora affiancare alle mobilitazioni in corso un ripensamento complessivo del sistema universitario e dei principi che ne guidano il funzionamento e l’organizzazione. L’Università è un settore che ormai da diversi anni è rimasto silente (e silenziato) e dove è diventato urgente rimettere in discussione le forme di lavoro precarizzato e sottopagato. Le contraddizioni e le logiche di valutazione competitiva non sono un tratto esclusivo dell’Università, ma riguardano il mondo del lavoro in senso lato. Il processo che ha condotto alla trasformazione dell’Università in «fabbrica del sapere», già segnalato dalle lotte universitarie di dieci anni fa, si può dichiarare di fatto concluso. È evidente la necessità di un cambio di direzione rispetto ai dogmi che hanno condotto alla situazione attuale; tracciare un sentiero nuovo spetta in primis a chi vive quotidianamente l’Università e i suoi spazi.

Enrico Gullo,

Ottavia Tordini

Alessia Tortolini

Attivisti di Ricercatori Determinati Pisa

9/1/2020 jacobinitalia.it

 

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