L’inverno del nostro giornalismo ambientale
Il nuovo corso dell’Espresso, diretto dall’ex direttore del Tg5 e poi parlamentare M5S Emilo Carelli, comincia all’insegna del sostegno al greenwashing delle multinazionali del fossile
Il terreno delle generalizzazioni è notoriamente scivoloso, ma occorre ribadire che il livello medio dell’informazione sulle questioni ecologiche nel nostro paese è davvero sconfortante (in particolare rispetto al cambiamento climatico). Ovviamente esistono lodevolissime eccezioni; non, però, in numero e diffusione sufficienti a modificare la sostanza del dato di partenza.
Un esempio perfetto dello stato dell’arte è il recentissimo Speciale del settimanale L’Espresso intitolato Antropocen’E (pubblicato a Giugno e acquistabile in edicola fino a fine Luglio).
L’editoriale, a firma del direttore Emilio Carelli (ex TG5, ex deputato M5S all’epoca vicino a Luigi Di Maio), definisce l’Antropocene «un nuovo capitolo della nostra era geologica». Si tratta di una formulazione non solo confusa, ma evidentemente datata: lo scorso marzo, infatti, le comunità scientifiche che esprimono il punto di vista della geologia non hanno ratificato l’uso di tale termine per definire l’epoca attuale.
Se fosse tutto qui, si tratterebbe di semplice superficialità: non proprio un marchio del miglior giornalismo, ma insomma: si è visto ben di peggio. Purtroppo, però, è l’approccio generale a essere fuorviante: va bene «dimenticarsi» di spiegare come il dibattito sull’Antropocene sia sbarcato in Italia – grazie all’ecologia politica e, soprattutto, ai conflitti sociali che la incarnano –, ma come è possibile saltare a piè pari tutta la discussione (accademica e non) che da anni si occupa criticamente del tema? Nemmeno un cenno: in 172 pagine (parecchie di pubblicità, a onor del vero) non una parola, un rimando, un riferimento bibliografico. Zero.
In compenso, Carelli ci spiega che nello Speciale troveremo «la testimonianza di molte aziende e banche […] che stanno adottando metodi di lavoro e organizzazione rispettosi della sostenibilità». Parola dunque a Q8 Italia, Intesa Sanpaolo, Bmw e altre, meglio se legate al capitalismo fossile. Particolarmente sfizioso un momento dell’intervista dello stesso Carelli a Fadel Al Faraj, amministratore delegato di Kuwait Petroleum Italia. Alla domanda relativa a «Un piano di investimenti con l’obiettivo di tutelare sempre più l’ambiente?», il vincitore del prestigioso premio Ceo of the Year 2023 (nel settore energia) risponde: «Senza dubbio, al contempo lavoriamo con determinazione affinché l’energia sia disponibile a prezzi accessibili, perché la transizione energetica sia una just transition, imparziale e inclusiva […] Il nostro obiettivo è continuare a rendere disponibile il mix energetico idoneo a soddisfare le esigenze di tutte le tipologie di mobilità».
Ci si poteva forse aspettare, di fronte all’evidente evasività della replica, qualche domanda di pungolo sugli obiettivi già raggiunti (siamo a giugno 2024, Q8 non è stata fondata l’altro ieri), oltre che righe compiacenti su buoni propositi e roboanti dichiarazioni d’intenti? Vabbé, ma questo sarebbe buon giornalismo ambientale! Insomma: ritenta, sarai più fortunato. L’accessibilità dei prezzi, peraltro spesso raggiunta solo grazie all’intervento pubblico – in questo caso volto unicamente ad alleggerire il rischio d’impresa per i colossi del fossile – è dimensione rilevante della sostenibilità, ma non del ruolo che il mondo del lavoro – grande assente di questo Speciale – dovrebbe svolgere in essa.
In questo senso, val la pena notare come, in pochissimo spazio, Al Faraj riesca nella notevole impresa di rovesciare un concetto fondamentale, quello di «transizione giusta»: come ben sanno alla Fiom di Bologna, questa pratica sindacale (non una strategia di consumo, quindi) parte dall’idea che, affinché i costi della transizione ecologica non gravino sulle spalle degli ultimi esacerbando le disuguaglianze, è necessario che la classe lavoratrice sia protagonista del processo di trasformazione, e che accanto a essa si moltiplichino partecipazione civica e presenza dei movimenti per la giustizia climatica.
Al di là dello sconforto provocato da singoli passaggi, piuttosto numerosi, l’elemento forse più sorprendente di questa raccolta di articoli è la ripetizione pedissequa della green economy nella sua elaborazione dei primi anni Novanta. Dico «sorprendente» perché la realtà attuale è distantissima da quella in cui quel ragionamento si produsse e circolò. Un esempio, di nuovo dall’editoriale di Carelli: Queste storie dimostrano [sic!] che il cambiamento è possibile e che la responsabilità ambientale può andare di pari passo con il successo economico, anzi può diventare una magnifica occasione di crescita».
Non una sola cifra, non un solo indicatore, nemmeno il frammento di una ricerca empirica viene mobilitato per dare consistenza a questa fantomatica «dimostrazione». Il tutto, si badi, mentre il Financial Times ospita un pezzo sobrio e documentato intitolato Il mercato non è sufficiente per fermare il riscaldamento globale, a firma di Martin Wolf, in cui si sostiene l’esatto contrario. Similmente, Finance Watch stima che, nella migliore delle ipotesi, i mercati finanziari riuscirebbero oggi a mobilitare non più di un terzo degli investimenti necessari alla transizione ecologica, nel contesto dell’Unione europea.
Eppure, a L’Espresso la smentita pratica dell’idea che il mercato possa accettare e vincere la sfida del cambiamento climatico, trasformandolo in redditizia opportunità di business, dev’essere evidentemente passata inosservata. Lo testimonia Sandro Bosso, manager di successo nel settore energetico nonché vero e proprio Virgilio dello Speciale de L’Espresso – ognuna delle cinque sezioni è introdotta da una sua riflessione –, che a un certo punto recupera, come se fosse una novità, il punto di partenza del Summit della Terra di Rio de Janeiro (1992), cioè «la natura intersistemica e multipolare della crisi [ecologica]». Ne deriverebbe, come effettivamente ne derivò a Kyoto quando si firmò il celeberrimo Protocollo (1997), che «si tratta di incorporare nell’economia di mercato esternalità che di certo non la annullano ma che la indirizzano verso forme di tutela del bene comune. Salvando lui stesso, il mercato, oltre alla civiltà occidentale». Colpo di genio!
Peccato per il ritardo di circa trent’anni. Questa incorporazione ha un nome – meccanismi flessibili – e una data di nascita. Si tratta di un mix di mercati inediti e strumenti finanziari «verdi» operativo dal 2005, e in crisi nera perlomeno da un decennio. Un vero peccato che Bosso non informi lettrici e lettori del fallimento conclamato di questa strategia di gestione della crisi climatica. Eppure, i dati sono sia eloquenti che facilmente reperibili. L’obiettivo, nel 1997-2005, era duplice: più profitti e meno emissioni di CO2-equivalente. Il risultato, nel 2021 (quindi prima dell’invasione russa dell’Ucraina), è tristemente noto: investitori in fuga e più CO2-equivalente emessa tra il 1990 (anno base del Protocollo di Kyoto) e il 2020 di quanta ne sia stata emessa tra il 1750 e il 1990.
Numeri sufficienti per un ripensamento radicale, un deciso cambio di rotta, una gita «fuori-mercato» per rinfrescarsi le idee? Macché! La fede di Bosso non conosce smentite: «l’Antropocene potrebbe diventare sostenibile, dunque ‘abitabile’: si può fare, conviene e, soprattutto, è l’unica opzione che resta al genere umano».
La resistenza al dato di realtà è davvero sconvolgente, la sindrome Tina [There Is No Alternative] si esprime qui alla massima potenza. Anche perché vengono arruolati come araldi del «nuovo» credo i «grandi movimenti di coscienza e di opinione (Fridays for Future e Papa Francesco su tutti)». Si tratta però di un accostamento del tutto abusivo: com’è ampiamente noto, Fridays for Future nasce in contrapposizione al Sistema delle Cop (Conferenze delle Parti dell’Onu sul cambiamento climatico) e le encicliche papali (ma anche l’ultima esortazione apostolica) prendono esplicitamente le distanze dall’approccio di mercato alla crisi ecologica. Insomma: se non vivessimo una situazione tragica, ci sarebbe da ridere.
Anche perché, buona ultima, arriva l’analisi sull’Italia. Si parte con la consueta diagnosi da coma farmacologico – «relativamente ai 17 Obiettivi di Sviluppo Sostenibile, ci sono peggioramenti rispetto al 2010 per 6, stabilità per 3, miglioramenti contenuti per 6 e più significativi per 2: certamente non un grande risultato» – però poi torna l’allegria: non c’è bisogno di piangersi addosso, siamo il Belpaese, dopotutto! Basta fare affidamento sulle «imprese che in Italia stanno mostrando grande spirito imprenditoriale e propensione all’investimento sui temi green». Ma quali imprese intende? Be’, o Bosso non intende fare spoiler, e quindi ci lascia a naufragare dolcemente nel mare del dubbio; oppure implicitamente indica proprio le imprese che popolano le pagine di Antropocen’E: Q8 Italia, Intesa Sanpaolo, Bmw e altre, meglio se legate al capitalismo fossile.
Di fronte al fallimento conclamato della transizione ecologica «dall’alto» – quella che doveva essere trainata dal mercato – la stampa «progressista» italiana ha scelto da che parte stare: da un lato con la rappresentazione celebrativa di una classe imprenditoriale del tutto inadeguata; dall’altro con l’apertura di credito verso la tecnologia come panacea di tutti i mali (che strizza l’occhio, neanche troppo velatamente, all’autoritarismo). In breve: si tratta dell’opposto di ciò di cui avremmo bisogno per attivare percorsi di transizione ecologica «dal basso» – quella basata sulla convergenza tra politiche ambientali, lotte operaie e allargamento degli spazi democratici, a sua volta espressione di un’opinione pubblica informata e matura.
In qualità di docente e ricercatore, ho l’impressione che l’irrilevanza delle analisi prodotte nelle università sia un problema politico serio: c’è da augurarsi che le istituzioni che governano il nostro luogo di lavoro prendano atto della situazione e approntino una strategia per invertire la tendenza. Potrebbe non essere una cattiva idea tener presente questo aspetto mentre ci prepariamo a (tentare di) resistere al doppio colpo all’università, in un lungo inverno che si prospetta assai complicato.
Emanuele Leonardi svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Sociologia e diritto dell’economia dell’Università di Bologna. I suoi interessi di ricerca includono l’ambientalismo del lavoro, l’ecologia politica e la teoria sociale.
18/7/2024 https://jacobinitalia.it
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