L’Italia al cinema, Il nostro paese raccontato in 15 film
«Dice…vie’Garibaldi e dice, famo l’Italia, e io che faccio, nun me impiccio? Io so’ romano eccellenza, ma a tempo perso so’ italiano, che è na colpa?» (da “In nome del popolo sovrano”, Luigi Magni, 1990).
«Se guarda intorno e vede tutti li morti, i cannoni arivortati, le bandiere tutte sgarate. Dice: effettivamente avemo perso ‘na battaglia. Poi caccia l’orologio e dice la frase storica: ah, ma so’ ancora le tre? Allora c’avemo tutto er tempo necessario pe’ vincerne n’ antra» (da “La Tosca”, Luigi Magni 1973).
«A Scipio’: la vita è fatta de momenti brutti, ma nun te preoccupa’. Poi viene pure er momento peggio» (da “Scipione detto pure l’Africano”, Luigi Magni 1971).
«Ma che ci serve la guerra a noi? A farci morire le creature del sangue nostro e a farci essere più poveri di quello che siamo» (da “Il caimano del Piave”, Giorgio Bianchi, 1950).
«Una sofferenza d’amore può essere in qualche modo collegata alla lotta di classe?» (da “Il dramma della gelosia” di Ettore Scola, 1970)…
Si potrebbe continuare a lungo. Frasi, battute, flash di dialoghi, le parole cinematografiche qui riportati alla memoria nel loro irripetibile contesto: è una delle attrattive del libro di Alberto Crespi – “Storia d’Italia in 15 film” (Laterza, pag.259, € 20) da poco in libreria.
Una gran bella “Storia d’Italia”! Mai sentita raccontare così, proprio in bianco e nero, da riderci e da piangerci, da barzelletta e da tragedia, Totò e i Fratelli Cervi, profonda e leggera insieme; insomma, Storia d’Italia come un “film”(del tipo imperdibile). Un ripasso accurato ma mai scolastico, mai da interrogazione della professoressa. Anzi, una Storia d’Italia che si legge “divertendosi”.
Questi i magnifici 15 che danno il titolo al libro.
“1860″di Alessandro Blasetti: il Risorgimento. “Cabiria di Giovanni Pastrone: la guerra di Libia. “La grande guerra”, di Mario Monicelli: la prima guerra mondiale. “Amarcord”, di Federico Fellini: il fascismo. “Tutti a casa” di Luigi Comencini: l’8 settembre. “Se sei vivo spara” di Giulio Questi: la Resistenza. “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola: il Dopoguerra. “Don Camillo” di Julien Duvivier,:il 48. “Il sorpasso” di Dino Risi: il boom. “Sandokan” di Sergio Sollima: il 68. “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” di Elio Petri: piazza Fontana. “Salò e le 120 giornate di Sodoma” di Pier Paolo Pasolini: il 1974. “Il caimano” di Nanni Moretti: il berlusconismo. “Diaz” di Daniele Vicari: il Duemila. “Gomorra” di Stefano Sollima: il 2016, cioè oggi.
Ce li ricordiamo bene, tutti i 15 imperdibili che tutti noi infatti non abbiamo perso, e che coprono l’intero arco della nostra Storia. Ma per raccontarla, questa Storia d’Italia “cinematografica”, nel libro è riportata sotto i nostri occhi una lunghissima, illuminante, “immaginifica” sequenza di altri film che appunto fanno storia.
Per esempio. “La grande guerra” (Mario Monicelli, 1959). Il film «utilizza e smonta la rappresentazione collettiva della prima guerra mondiale come conflitto eroico, patriottico, fondante dell’identità nazionale».
Rappresentazione, che «dopo il film non è più possibile né credibile». Grazie, Monicelli.
Per esempio. “Amarcord” (Federico Fellini, 1973). Nasce come film di ricordi personali, ma è «sorprendente quanto esso racconti la collettività. Le scene familiari si allargano alla scuola, al tempo libero, alla chiesa, alla casa del fascio, allo struscio serale sul corso». Già, «pur avendo un titolo in prima persona, “Amarcord” mette in scena una memoria collettiva». Ci racconta. Racconta di noi.
Roba da film. Cioè una cosa seria. (d’accordo, ci sono anche moltissimi film brutti e senza senso, ma quelli non c’entrano…).
«In questo viaggio, grazie ai film – conclude Alberto Crespi – abbiamo percorso un Paese che abbiamo definito “repubblica invisibile”: un’Italia diversa da quella della storia ufficiale, soprattutto molto diversa da quella che ci raccontano i politici e i media ad essi contigui». Un’Italia che «a volte è un Paese caldo, fatto dei sogni di donne e di uomini che vorrebbero migliorare le cose». E che a volte è «un Paese oscuro, così come lo vogliono i poteri occulti e criminali». Due Italie, due Paesi che “esistono”, entrambi “reali”.
Ebbene, questi due Paesi – l’Italia che si vede e l’Italia che non si vede – «il cinema li ha visti meglio di qualunque altra forma d’arte».
Li ha visti. Per questo «il cinema italiano è qualcosa di unico e le sue storie così buffe, tragiche e affascinanti valgono sempre la pena di essere riascoltate».
Cinema docet. E magari – nei casi in cui è strettamente necessario, vedi quando senti parlare certi tipi oggi al governo – si può sempre far ricorso alla immortale frase di Totò (“Peppino e le fanatiche”):
«Lei è un imbecille, si informi».
Maria R. Calderoni
29/6/2017 www.rifondazione.it
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