L’Italia che tiene le madri occupate
In Italia il lavoro è ancora un’impresa impossibile per le donne che fanno figli. A confermarlo è il rapporto presentato questa settimana dall’Istat per il monitoraggio del raggiungimento nel nostro paese degli obiettivi di sviluppo sostenibile fissati dall’Agenda 2030.
Nel 2021, il tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli di età inferiore ai 6 anni è pari a 53,9% mentre quello delle donne della stessa età senza figli è di 73,9%. Il rapporto tra queste due condizioni è al 73%: 1,2 punti percentuali in meno rispetto al 2020, un ulteriore peggioramento determinato prevalentemente dall’aumento del numero di donne occupate senza figli, commenta Istat nella scheda dedicata all’obiettivo 5 dell’Agenda 2030, quello della parità.
“Il rapporto tra tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e tasso di occupazione di quelle senza figli nella stessa fascia d’età è un indicatore indiretto che permette di valutare la difficoltà delle donne a conciliare il lavoro con l’organizzazione familiare, soprattutto in presenza di figli piccoli” spiega Istat, che ha studiato anche come questi valori siano cambiati a livello territoriale, migliorando al centro e al sud, ma peggiorando nel nord ovest e nelle isole.
“Il confronto dei livelli di occupazione delle donne con figli rispetto a quelle senza figli risente sensibilmente del livello di istruzione delle donne” sottolinea inoltre Istat. L’indicatore si attesta infatti al 92,8% (+3,1 punti percentuali rispetto al 2020) in presenza di un livello di istruzione terziario, si riduce al 70,9% (-3,3 punti percentuali) se la donna ha al più un diploma di scuola secondaria di secondo grado, e scende sotto il 50% quando il titolo di studio conseguito è di livello inferiore (48,7%; -1,7 punti percentuali).
L’analisi per fascia di età realizzata dall’Istat mostra come ad affrontare le criticità maggiori siano le donne di età compresa tra i 25 e i 34 anni (60,4%) rispetto a quelle tra i 45-49 anni (90%). Il rapporto è sfavorevole anche per le donne di nazionalità straniera (46,4% stranieri; 52,2% se stranieri con nazionalità nei paesi dell’Ue) rispetto a quelle italiane (77,9%).
A questo si aggiunge che la quota di tempo dedicato dalle donne tra i 25 e i 44 anni al lavoro familiare è pari al 62,6% del tempo di lavoro complessivo della coppia di partner occupati, un dato che si mantiene ancora lontano dal valore del 50% che identifica una situazione di perfetta distribuzione del carico di lavoro all’interno di convivenze e matrimoni. Con differenze territoriali significative tra Mezzogiorno (69,9%), Nord (60,0%) e Centro (62,4%).
La conseguenza è un’ancora ridotta presenza di donne nella vita politica e accademica del paese. Nel 2021 la quota complessiva di donne al Parlamento europeo è pari al 39%, (in diminuzione rispetto al 2019 quando era 41%). E anche se la quota di donne elette nel Parlamento nazionale è del 35,4%, un livello superiore alla media dei Paesi Ue27 (33,1%), e la percentuale di donne elette nei consigli regionali è aumentata (22,3% era 22% nel 2020) – risultato legato prevalentemente all’incremento della presenza femminile nel rinnovato consiglio regionale della Calabria – l’obiettivo prossimo della Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026 è di raggiungere nel quinquennio una media nazionale del 40% di presenza femminile nei consigli regionali.
Certo, è cresciuta la presenza delle donne nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa – alla fine del 2021 l’Italia occupa la seconda posizione (38,8%) dopo la Francia (45,3%) per presenza femminile nei consigli di amministrazione e nei ruoli di alta dirigenza delle maggiori società quotate in borsa (la media europea è del 30,6%), ma il target fissato dalla Strategia nazionale per la parità di genere 2021 è del 45%.
E se guardiamo al contesto accademico, l’università resta il regno indiscusso di un infrangibile soffitto di cristallo. Nel 2020 la percentuale di donne titolari di assegni di ricerca è poco più del 48%, scende al 46% tra i ricercatori universitari, al 40% tra i professori associati e a circa il 25% tra i professori ordinari. L’università italiana è caratterizzata ancora dalla progressiva uscita delle donne dai percorsi di carriera, presenza inferiore di donne nelle aree Stem, e poche donne che raggiungono la posizione di professore ordinario. Un andamento che comunque si ritrova simile se non identico negli altri paesi europei, e che spesso è ancora condizionato dal fatto che una donna che lavora in accademia ha fatto o possa fare figli.
14/10/2022 https://www.ingenere.it
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